“L’intera creazione è scaturita dalla Verità
e tornerà a fondersi nella Verità.
C’è un luogo nell’Universo dove non esista il Principio di Verità?
Contemplate la Verità pura e immacolata.”
“Dite la Verità, parlate con gentilezza,
non proferite Verità spiacevoli.”
“Dite la Verità,
praticate il Dharma, la Rettitudine.”
Questi sono i profondi insegnamenti dei Veda.
Satya, la Verità
Per tutti gli esseri viventi, il cibo è essenziale. Senza cibo, gli esseri morirebbero; il Sole è indispensabile per provvedere al cibo, perché provoca le piogge, che a loro volta fanno crescere le messi, le quali diventano poi cibo.
Le Upanishad dichiarano che in ogni cosa ci sono tre fondamenti: il cibo, la fame, la soddisfazione.
La parola “Satyam” consiste di tre sillabe: “Sat” – “Ya” – “M”. “Sat” sta per prâna (soffio vitale , vita). “Ya” rappresenta il cibo. “M” il Sole.
Il cibo è ottenuto grazie alla radianza emessa dal Sole; esso fornisce al corpo vita, forza e felicità.
Satyam, Verità, non significa soltanto dire le cose come sono, o come sono state viste.
Di queste tre sillabe, la prima, Sat, rappresenta il prâna (la vita), che comprende in sé la fame, che il Sole soddisfa per mezzo del cibo. L’essenza di queste tre categorie (il prâna , il sole e il cibo) è contenuta in Satyam, la Verità.
Inizialmente vi avevo detto:
“L’intera creazione è scaturita dalla Verità e tornerà a fondersi nella Verità.
C’è un luogo nell’universo dove non esista il Principio di Verità? Contemplate la Verità pura e immacolata.”
È la Verità che protegge il mondo intero, soddisfa la fame, dà forza al corpo e protegge la salute. Verità vuol dire fornire energia vitale, provvedere cibo adatto agli esseri viventi, e sostenere la vita mediante il cibo. Questo è il significato intrinseco della parola Satyam, Verità.
In questa parola c’è anche un secondo significato. Satya ha tre sillabe: “Sa” “Ta” e “Ya”, Sa-ta-ya. Se leggete Sataya da destra a sinistra, si comprende quale significato contenga; infatti, diventa “Ya”, “Ta”, “Sa”. “Ya” significa “il suono di Sa”. Satya, la Verità, si manifesta solo quando l’uomo pratica l’austerità di yâma e niyama (il controllo dei sensi).
La Verità è Dio. Dov’è la Verità? Essa pervade tutto. Non c’è luogo dove la Verità non sia presente. Non c’è oggetto che in sé non la contenga; nella Verità tutto è contenuto. Verità significa ciò che rimane immutato nei tre periodi di tempo, passato, presente e futuro. Se l’uomo segue il sentiero di yâma e niyama e compie austerità, avrà la visione di Satya Svarûpa (l’Incarnazione della Verità).
Saggezza è Verità
Dove si trova la Verità?
Verità, Saggezza ed Eternità sono Dio.
Verità è Jñânam, ovvero Saggezza, Suprema Conoscenza. Che cosa significa Saggezza?
La percezione della non dualità è Saggezza.
Verità non è quanto sperimentiamo fisicamente, ciò che diciamo, o il significato delle parole. La Verità è l’essenza dei Veda; infatti, la Verità è l’origine dei Veda. Perciò, la vera e propria forma dei Veda è Verità. Ciò che esprime Verità è Jñâna; solo questa Saggezza e Infinita Conoscenza è Verità.
Tramite un’indagine approfondita scoprirete la grandezza del significato recondito della Verità. Senza la Verità, il mondo non esisterebbe.
Numerosi saggi e santi dell’antichità, persone dedite a rigorose austerità, rinuncianti e yogin trascorsero le loro vite, avendo la Verità come unico rifugio, e vissero felici. Prosperità, ricchezza e benessere sono contenuti nella Verità. Quindi, la Verità non significa parlare dei fatti del mondo.
Sin dai tempi antichi, al fine di ricercare tale Verità, numerosi santi e saggi rinunciarono ad ogni agio e ricchezza, si recarono nella foresta e intrapresero severe penitenze; in tal modo essi conobbero la vera natura della Verità.
Sat-Cit-Ânanda
Sat significa Eterno, l’Essere. Sat non è soggetto al divenire; è la Forma di Dio. Occorre approfondire il concetto di Sat.
Sat è la base fondamentale della vita, è la base di tutto. Cit, la Consapevolezza, non potrebbe esistere senza Sat.
Sat è il sacro potere positivo. Cit si fonda su Sat, e svolge la sua funzione grazie a questo supporto. Perciò, Cit non è fondamentale; mentre Sat è il Principio Positivo, Cit è il negativo. Quando Sat si combina con Cit, quando Sat e Cit si uniscono, ne scaturisce Ânanda, Beatitudine.
Sat soddisfa anche la sete dell’uomo, come l’acqua. Possiamo vivere senza cibo, ma non si può sopravvivere senza acqua. Sat è, quindi, energia vitale come l’acqua. Cit è negativo, e senza Sat non ha alcuna utilità.
Sat, l’acqua, si unisce a Cit, lo zucchero. Sat è l’acqua, Cit è lo zucchero. Il sapore e la fragranza sono nello zucchero, in Cit. Quando questi due, Sat e Cit, si uniscono, ne deriva Ânanda, Beatitudine. L’acqua e lo zucchero sono ben diversi dallo sciroppo; solo quando sono mescolati insieme si può parlare di sciroppo.
In quale Forma esiste Dio? Come lo zucchero è presente in ogni goccia di sciroppo, così Dio pervade l’intera Creazione. Lo zucchero e lo sciroppo sono inseparabili, sono interdipendenti come il burro nel latte, o il ghi nel burro.
Nei tempi antichi i saggi, facendo intense penitenze, realizzarono Sat e Cit e trasmisero tale insegnamento al mondo.
Luce e Tenebre
Una volta ci fu una vasta assemblea di Saggi Vedici, cui parteciparono dei grandi veggenti. Molti di loro facevano strenui sforzi per riconoscere Sat-Cit-Ânanda, ma nonostante rigorosi voti e severe austerità, non riuscivano a cogliere la forma di Sat. Allora Satya Svarûpa si fece avanti e dichiarò:
“Io conosco l’Essere Supremo,
che risplende col fulgore del Sole,
ed è di là dell’oscurità dell’ignoranza.”
Egli è in ogni cosa, come lo zucchero nello sciroppo. Com’è? È come la radiosità ed il fulgore del Sole. Egli è anche oscurità: in Lui esiste sia la luce sia l’oscurità. C’è piena radianza sia nella luce sia nell’oscurità. C’è una luce fulgida nella radiante oscurità. Senza l’oscurità, non ci può essere la radiosità della luce. Senza la luce, non è possibile riconoscere l’oscurità. Per questo si afferma:
“Risplende col fulgore del Sole,
è di là dell’oscurità dell’ignoranza.”
Così è Dio: Egli ha lo splendore del Sole.
I saggi gli chiesero: “Dove hai visto l’Essere Supremo? L’hai visto di notte o di giorno? L’hai visto in meditazione o nello stato di veglia? Oppure nello stato di turîya?” Così essi continuarono a fargli domande d’ogni genere sui tre periodi di tempo e i tre stati di coscienza.
Alla fine Satya Svarûpa rispose: “La Divinità trascende il tempo e lo spazio; non ha restrizioni di tempo o di spazio; non è limitata ad alcuna forma. È di là della dualità del giorno e della notte.” “Ma in che modo hai visto questa Verità? In meditazione o da sveglio?” – gli chiesero ancora.
Satya Svarûpa spiegò: “O Saggi! Nello stato di veglia sono in funzione gli occhi fisici; vediamo ogni cosa attraverso i nostri occhi fisici. Essi non sono soltanto una peculiarità degli esseri umani: anche gli animali, gli uccelli, gli insetti e persino i vermi posseggono gli occhi. Tutti gli esseri viventi in questo mondo vedono tramite gli occhi. La visione degli oggetti fisici non è quindi una gran cosa. Gli occhi fisici dell’uomo possono vedere solo le forme fisiche. Solo l’occhio della saggezza può rivelare la sottile forma interiore; quello è il vero occhio. La Divinità può essere vista ovunque voi siate, indipendentemente dal luogo, dal tempo o dalla situazione. Essa è sempre presente.”
Sempre, ovunque, in ogni circostanza
vi sia la contemplazione di Dio.
Egli poi aggiunse: “Perché aspettare? Anche ora potete volgere la vostra attenzione all’interno e contemplare quella Forma radiosa nel vostro cuore.”
Appena essi si posero in contemplazione, Satya Svarûpa pose il Suo pollice sulla loro fronte e, senza rendersene conto, anch’essi cominciarono a dire:
“Io conosco l’Essere Supremo,
che risplende col fulgore del Sole,
ed è al di là dell’oscurità dell’ignoranza.”
Essi allora proclamarono alla vasta assemblea là riunita: “O gente! O dotti! O yogin! O saggi! Anche noi abbiamo avuto la visione dell’Incarnazione della Verità. Dove l’abbiamo vista? Anche noi abbiamo visto Satya, l’Essere Supremo che risplende col fulgore del sole! Non Lo si vede solo in un luogo, può essere visto ovunque! Ciò che si vede solo in un luogo è come un atomo di Verità; ma questa non è un atomo: è Verità infinita!”
Ecco perché si dichiara:
“Dio è più sottile del sottile e più vasto del vasto.”
Pertanto:
Dio è piccolo quando è visto nei minuscoli atomi,
è vasto, se visto nelle cose enormi.
Egli è presente sia nell’atomo sia nelle cose immense.
Questa Verità è Beatitudine.
“Questa Verità contiene in sé la Beatitudine. Qual è la natura della Beatitudine? Il fulgido candore dello splendore è consapevolezza della Beatitudine. Da dove deriva la Beatitudine? Dalla Verità.” Così, in tali termini, quei veggenti dibatterono sulla Verità. Dopo questi avvenimenti, i saggi gli domandarono: “Chi sei tu?” Egli rispose: “Io sono oltre l’oscurità. Vengo da oltre l’oscurità.” Da dove proveniva l’oscurità? Era sorta dallo splendore. La luce proveniente da quello splendore era presente nelle tenebre. Ciò significa che la Verità Divina pervade questo universo fisico ed è consapevole di tutto, ma Essa non è percepibile. Questa è la Verità che dobbiamo realizzare oggi.
Erudizione che non vale niente
Oggi molti si vantano di essere eruditi, saggi, dotti, intellettuali; ma cos’è che conoscono? Niente del tutto. Non sanno neppure riconoscere se stessi. Se chiudono gli occhi in contemplazione, non sanno neanche chi essi siano.
Non si riesce a vedere la propria forma fisica, neppure in piena luce, se non con l’aiuto di uno specchio o di qualcosa che rifletta, e persino il riflesso nello specchio non è vero, è un’immagine riflessa. Tutto ciò che vedete sono solo riflessi, non forme autentiche.
Brilla col fulgore del Sole,
ed è di là dell’oscurità dell’ignoranza.
“Io sono Tamas, l’oscurità che ha lo splendore del Sole.” Tamas indica la tenebra, ma Egli dice di essere la luce, che contiene la tenebra. Questo significa che Egli è l’unitarietà di entrambe, l’unità del bene e del male. Non si può apprezzare il bene senza l’esistenza del male, ed il male non può essere riconosciuto che a fronte del bene. Così, Egli aggiunse: “Non vi è possibile riconoscere la mia Forma, ma se siete determinati a conoscermi, osservate: tutto questo è la Mia Forma!”
Migliaia di teste ha l’Essere Supremo,
migliaia di occhi, migliaia di piedi.
com’è possibile riconoscere la Realtà che ha innumerevoli teste, così tante forme e coscienze? In ogni corpo si percepisce una coscienza diversa, ma le coscienze non possono essere viste! Eppure, la Coscienza esiste in ogni cosa.
Riflesso, Reazione, Risonanza
È piuttosto difficile capire la spiritualità. Spiritualità significa conoscere Satya Svarûpa, l’Incarnazione della Verità, che invece non si conosce. È scoprire la beatitudine che non si nota in quello che si vede. Chi cerca di farlo?
Vi sedete a meditare. Chiudete gli occhi e cominciate a immaginare una forma particolare, ma queste sono solo forme riflesse, non sono reali. Da quanto tempo esiste questo riflesso, questa reazione e risonanza? Da dove proviene la risonanza?
Io vi sto parlando. Voi udite il suono della Mia voce. Da dove proviene questo suono? Voi direte: “Dalla bocca.” No, no; non è così. Il suono emana dall’ombelico. La reazione, il riflesso, la risonanza, vanno a celare la Realtà.
Volendo comunicare con un individuo, dovete capirlo, rendervi conto della sua condizione, capire che tipo sia: solo così potrete farvene un’idea.
In modo analogo, all’azione segue la reazione, al suono segue l’eco o risonanza, ma perché ciò accada ci deve essere il riflesso a tale reazione ed a tale risonanza. Voi dovete riconoscere questo riflesso. Che cos’è questo riflesso?
Se si scatta una fotografia, c’è un lampo improvviso di luce; subito dopo la luce, c’è il buio. Da dove è venuta quest’oscurità? Essa è percepita perché la luce è scomparsa. Questo è un esempio di “reazione”. Qual è la risonanza che interviene nella reazione? È il suono. Che cosa si manifesta dalla risonanza? Dal riflesso si origina la reazione; la reazione si manifesta dalla Realtà. Quella è la vera natura.
Dovete rinunciare all’attaccamento al corpo e sviluppare il desiderio intenso per l’Âtma, il Sé. Attraverso tale anelito arriverete a capire la risonanza che emerge dall’ombelico. Questa è Verità.
La Verità non muta nel tempo
Oggi la gente non ha interesse per la Verità. Molti non pensano veramente ciò che dicono. Hanno qualcosa in mente, ma dicono esattamente l’opposto. Mutano la propria parola, adeguandola alle persone ed alle situazioni.
La Verità è ciò che non muta col tempo, che è immutabile nel passato, nel presente e nel futuro.
Dite oggi le stesse cose che avete detto ieri? Le parole dell’altro ieri sono solo dell’altro ieri, quelle di ieri appartengono a ieri. Le parole di oggi valgono solo per oggi.
La Verità non contempla cambiamenti nei tre periodi di tempo.
Quanta gente c’è oggi che riconosce tale Verità? Non importa. C’è almeno qualcuno che riconosce la Verità da un punto di vista comune? No. Se vi chiedono: “Che cos’ha detto Swami?” Voi non avete ascoltato con attenzione, e riferite solo un’eco delle Sue parole. Se qualcuno chiede: “Questa è la Verità?” altri rispondono: “No, non è la Verità.” Che cos’è allora la Verità? Quello che non si conosce è Verità. A che serve allora proferire una verità che si riferisce a soli fatti? Dovete parlare della Verità che riconoscete.
Passato, presente, futuro: il tempo già trascorso, quello che si sta vivendo ora, e quello che verrà, questi tre periodi devono essere considerati una sola entità, non influenzata dai tre guna. Si dice (di Shiva):
“I tre tempi, le tre qualità, i tre occhi.”
Deve esserci coerenza nei tre tempi, nelle parole, nelle azioni; essi devono diventare Uno.
Questo è Satya Svarûpa, l’Incarnazione della Verità.
Ciò che muta non è Verità. Se ora dite una cosa e poi un’altra, non è Verità. La Verità è Una.
Dite la Verità.
La Verità è Una, non due. La Verità è unica, non duplice. Come può essere una sola? Di fronte alla Verità c’è un’unica visione, un unico suono, un’unica forma e un’unica beatitudine.
Le Upanishad parlarono della Verità in molti modi. Come? La Verità non può essere descritta: Essa non ha forma.
La Verità ha un’unica prova: la Beatitudine, di cui potete fare esperienza solo contemplando la Verità stessa. Se chiudete gli occhi e contemplate la Verità, comincerete a sorridere senza rendervene conto. Da dove viene quel sorriso? Da dentro di voi. Qual è la ragione di tale gioia? Se la mente duale è presente, non potrete provare Beatitudine. Da dove proviene dunque quella Beatitudine? Deriva da Dio. Non pensate che provenga da voi. Infatti, si afferma che:
“Felicità è unione con Dio.”
L’unione con Dio
Felicità è unione con Dio, con nessun altro che con Dio. La Beatitudine che si trova in Dio è eterna, permanente. La felicità ottenibile dal mondo è transitoria, muta da un giorno all’altro. Una tale felicità non può essere chiamata Beatitudine. C’è una sola Verità ed è immutabile. Che lo abbiate notato o no, Io sono sempre beato e sorrido sempre. Mi avete mai visto scontento, con la faccia lunga? Mai, sono sempre gioioso. Qual è la fonte della Mia Beatitudine? È la gioia che si riflette dal sentimento interiore.
Alcune persone sono ora allegre e l’istante successivo sono tristi. Guardandole, diciamo: “Deve essere successo loro qualcosa.” Si deve essere sempre in una condizione tale che gli altri non avvertano mutamenti. Quella è Verità.
La Verità è ciò che non cambia. Non può essere nascosta, afferrata o trattenuta, presa in mano, acquistata o ricevuta. Quella è vera Beatitudine.
La Beatitudine è nella Verità dell’Essere
Incarnazioni del Divino Amore!
La vera Beatitudine delle Upanishad è “Shat” (Sat). Si può dire “Upanishat”. Shat (Sat) significa “Essere”, “esistere”. In che modo “Essere”? Immobile, immutabile. “Upa” significa che “è vicino a noi”. Non deve cambiare, e non deve muoversi secondo la nostra vibrazione. La Beatitudine è qualcosa che non cambia, è immutabile. Quando ci si trova in quello stato d’estasi non si hanno vibrazioni, né c’è alcuna reazione, riflesso o risonanza. Tale Beatitudine si manifesta interiormente, quando comprendiamo gli insegnamenti delle Upanishad e li mettiamo in pratica.
La storia di Romarishi
Ve l’ho già raccontato molte volte. C’era una volta un rishi, un veggente, che non aveva timore di nulla. Faceva penitenze per conquistare la Beatitudine divina, ed era chiamato Romarishi per via dei suoi lunghissimi capelli. Dimorava nella foresta Dandaka. Sapete perché? Davanti al suo romitaggio c’era un grande albero, sul quale si trovava l’Amritaphala, il frutto dell’immortalità. Quindi egli faceva penitenza per ottenere quel frutto.
Durante l’esilio dei Pândava, Dharmaja e Draupadî stavano camminando per la foresta, quando ella, vedendo quel frutto, disse al marito: “Se cogli quel frutto, tutti noi potremmo mangiarne per tre o quattro giorni.” Per venirle in aiuto, Dharmaja fece cadere il frutto. Poi cercò di raccoglierlo, ma non ci riuscì. Draupadî volle provare, ma senza successo. Draupadî era nata dal fuoco, ed era l’incarnazione della suprema Energia Divina, tuttavia non ci riuscì. Arjuna, Nakula e Sahadeva, che erano andati in cerca di frutta e radici commestibili, capitarono sul posto e li canzonarono: “Sono entrambi anziani; ce la faranno, vecchi come sono?” Poi, anch’essi si cimentarono senza risultato. Il frutto non si mosse, ed essi rimasero lì a guardarlo. Bhîma, con quanto di commestibile aveva raccolto, arrivò di corsa in cerca di suo fratello e di Draupadî. Vide il frutto e domandò: “Quante persone ci vogliono per sollevare questo frutto? Si afferma che mio fratello Arjuna abbia sollevato il pesante arco Gândiva. Quale arco ha sollevato? Forse era fatto di sughero! Forza, ora proverò io!” e fece per raccogliere il frutto con la mano sinistra, ma il frutto non si mosse. Usò entrambe le mani, poi tutta la forza dei suoi muscoli, ma il frutto era inamovibile.
Romarishi, che stava praticando rigorose austerità, aveva disteso i suoi lunghi capelli in tutta l’area dell’âshram. Così, mentre i Pândava cercavano disperatamente di sollevare il frutto, i suoi capelli venivano calpestati e tirati. Egli si rese allora conto che qualcuno stava rubandogli il frutto, e si adirò moltissimo. I suoi lunghi capelli arruffati cominciarono ad allungarsi in cerca dei Pândava per legarli.
Draupadî allora pregò: “O Krishna, protettore di chi non ha altro rifugio! Ci hai protetto finora, vieni ancora una volta in nostro soccorso. Non abbiamo altro rifugio che Te.” In risposta alla sua preghiera, Krishna apparve sorridente. Vide il frutto e disse: “Non potete stare qui ancora a lungo. Vi spiegherò che cosa fare. C’è un unico sistema: fate come vi dico.” “Swami, quando mai ti abbiamo disobbedito? Siamo pronti a fare esattamente quello che ci ordini.” Allora Krishna disse: “Dharmaja, voi rimanete qui. Io andrò all’âshram di Romarishi. Tutti voi dovete raggiungerMi fra cinque minuti. Qualsiasi cosa Io faccia, comportatevi di conseguenza.”
Chi conosce il Brahman diventa il Brahman stesso.
Krishna andò all’eremo di Romarishi, il quale stava per lanciare una maledizione contro i Pândava. Krishna arrivò proprio al momento giusto. Romarishi disse: “Swami, sei venuto nel nostro âshram? Che immensa fortuna è questa! La buona sorte ha dato i suoi frutti, ed il nostro âshram è ora santificato!” Il saggio non stava in sé dalla gioia. Intanto anche i Pândava stavano per arrivare all’eremitaggio. Sebbene Krishna fosse occupato a parlare con il Saggio, la Sua attenzione era rivolta a loro. Così è l’attenzione di Dio; qualsiasi cosa stia facendo, la Sua attenzione è là dove deve essere.
Notando l’arrivo dei Pândava, Krishna si prostrò ai piedi del rishi. Questi, sorpreso, esclamò: “Ma che cosa fai? Tu sei Dio! Ti getti ai miei sacri piedi e li rendi impuri! Perché ti prostri davanti a me?” Subito Krishna gli diede una risposta molto saggia: “Tu sei Me, e Io sono Te.”
Non appena ebbe pronunciato queste parole, comparvero i Pândava, e Romarishi li vide. Krishna, che si era alzato, si inchinò nel saluto di namaskâra davanti a Dharmaja, Bhîma, Arjuna, Nakula, Sahadeva, e anche a Draupadî. Krishna si prostrò davanti a ciascuno di loro. Egli li aveva avvisati: “Non sollevate obiezioni, non aprite bocca; state a quello che faccio.” Pertanto, tutti alzarono la mano nel gesto di benedire Krishna (secondo la consuetudine di benedire chi s’inchina ai propri piedi – N.d.T.).
Il rishi, a quella scena, rimase esterrefatto e pensò fra sé: “Krishna è Dio manifesto, eppure si prostra davanti a questa gente. Chi sono costoro? Che poteri posseggono? Chissà che gran devozione ed abbandono devono avere!” Li osservava cercando di trovare una risposta. Così, seguendo l’esempio di Krishna, si prostrò anch’egli ai piedi dei Pândava, e così facendo dimenticò la propria rabbia.
Krishna aveva architettato questa messa in scena per far sbollire l’ira del rishi, evitando che i Pândava venissero fulminati da una maledizione; diversamente, non ci sarebbe stato rimedio alle potentissime maledizioni di Romarishi.
Una volta che Romarishi si fu prostrato ai loro piedi, Krishna gli disse: “Questi sono dei grandi re della dinastia di Pându. Sebbene siano dei re, vivono in questa foresta e hanno molte difficoltà a trovare frutta.”
Allora il saggio esclamò: “Oh, il mio desiderio era così meschino! Ho contrastato questi re nelle loro necessità.” Poi chiese a tutti di seguirlo fino all’albero. Pronunciando un mantra toccò il frutto, e questo arrivò nelle sue mani, quindi lo offrì ai Pândava.
Chi avesse mangiato il frutto dell’immortalità non avrebbe più avuto nascite né morti. Romarishi spiegò ai Pândava le qualità di quel frutto. Poi lo tagliarono e tutti ne mangiarono. Ne diedero un pezzo anche a Krishna, ma Egli disse: “Miei cari! Non sapete che Io non mangio mai frutta? Mangiatelo voi. Io non tocco mai frutta in nessuna circostanza. Questo è per voi, quindi mangiatelo.” Allora Draupadî non tollerando di mangiare, mentre Krishna se ne asteneva, lo pregò di toccare almeno il frutto, affinché potessero condividerlo come prasâdam (cibo benedetto).
Le donne sono dotate della massima devozione. È grazie alla loro santità che, fin dall’antichità, gli uomini poterono diventare valorosi, grandi guerrieri, nobili, e trasformarsi in ardenti devoti; è per merito delle donne che gli uomini intraprendono il supremo, sacro sentiero.
Krishna alla fine si sedette; Romarishi, nel guardarLo, versò lacrime di Beatitudine. Krishna non aveva nulla con cui asciugargliele, e gli disse: “Mio caro! Queste non sono lacrime, ma gocce di beatitudine. La tua vita ha oggi trovato compimento.” Egli pose, quindi, le Sue mani sulla testa del saggio; questi abbandonò la vita, e il suo soffio vitale si unì a Krishna.
Dovete restare sino alla conclusione del dramma
Vedendo ciò, anche i Pândava Lo pregarono di unirli a Lui. “Swami, di che altro abbiamo bisogno? Abbiamo provato tutto quello che c’era da provare nella vita. Abbiamo avuto tante difficoltà, sconfitte, insulti e accuse. Ti preghiamo, santifica anche le nostre vite!” Krishna rispose: “No, no! Devono ancora accadere tante altre cose!” Un attore svolge una parte in una commedia. Dopo la prima, deve apparire in numerose scene; ci sarà la seconda, la terza, la quarta scena, e poi l’ultima. Se dopo la prima scena afferma: “Swami, non voglio più recitare questa parte; basta così!” non si potrà lasciarlo andare, ma gli si dirà: “Devi rimanere fino alla fine.”
Analogamente, Krishna disse ai Pândava: “Ci sono ancora molte scene che dovete recitare. Ci sono ancora molti altri esempi che dovete divulgare nel mondo. Ci sono molti modi per realizzare la Verità. Voi non l’avete ancora riconosciuta. Se morite prima di riconoscere la Verità, qual è il significato della vostra vita? Ogni essere umano nasce per riconoscere la Verità. Bisogna raggiungerla per il solo fatto di essere nati.
Se si pensa soltanto: “Siamo nati, siamo cresciuti, siamo morti”, la vita è del tutto inutile. Siamo nati, siamo cresciuti, ma per raggiungere il nostro scopo. Poi si può abbandonare la scena. Pertanto, voi restate qui”.
Così dicendo, Krishna scomparve. I Pândava Lo cercarono intorno, ma senza trovarLo. Allora, riconobbero la Realtà di Krishna. Dharmaja disse ad Arjuna, Bhîma, Nakula, Sahadeva e Draupadî: “Fino a quando saremo in vita, dobbiamo seguire gli ordini di Krishna.” Quel giorno essi promisero a Dharmaja: “Swami, qualsiasi cosa tu decida, siamo pronti a seguirti.” Quella promessa fatta a Dharmaja fu adempiuta quando Arjuna tornò dal suo viaggio, a guerra finita.
Arjuna torna da Dvârakâ
Il tempo passava, ma di Arjuna non c’era notizia. Sua madre Kuntî era in ansia perché Arjuna non tornava. Dov’era andato? Non se ne sapeva nulla.
Arjuna era partito per recarsi nella città di Dvârakâ e stare con Krishna.
Devo raccontarvi anche come Krishna creò Dvârakâ. Krishna uccise Suo zio Kamsa, Sishupâla e Dantavakra. Il re Jarâsandha, che aveva fatto sposare le sue due figlie a Kamsa, si adirò moltissimo, ed insieme ai suoi alleati giurò di sterminare Krishna ed il clan degli Yâdava.
Dopo diversi scontri, gli Yâdava pregarono Krishna: “Swami, viviamo sempre nell’apprensione. Portaci in un luogo dove non ci sia da temere.” Krishna rispose loro: “Andate a Repalli. Contemplate Me, tenendo gli occhi chiusi, finché vi addormenterete.”
Quella notte, essi chiusero gli occhi, e quando si svegliarono presto la mattina, si trovarono in un altro luogo; erano arrivati a Dvârakâ. Non avevano camminato, non avevano preso né l’aereo né l’autobus. Si erano seduti in meditazione, ed erano arrivati in quella città. Anche tutti i loro averi erano arrivati a Dvârakâ. È impossibile per chiunque descrivere la natura di Krishna e le Sue gesta.
Dunque, Arjuna non era ancora tornato da Dvârakâ, e sua madre Kuntî era in ansia. Finalmente giunse notizia che Arjuna era in arrivo. Kuntî era in grande trepidazione. Poveretta! Fu così che ella venne a sapere della dipartita di Krishna dal mondo. A quella notizia, chiuse gli occhi come per cercarLo, appoggiò il capo sulle ginocchia di Dharmaja, ed esalò l’ultimo respiro.
Dharmaja non poteva quindi rialzarsi. Chiamò Bhîma e gli disse di fare tutti i preparativi necessari per la loro partenza per la foresta. Disse ad Arjuna di organizzare tutto per l’incoronazione di suo nipote Parîkshit, mentre a Nakula e Sahadeva chiese di occuparsi dei riti funebri della madre, Kuntî.
Così, mentre si svolgevano i funerali di Kuntî, Bhîma curava i preparativi per la partenza per la foresta, ed Arjuna si prendeva cura dell’incoronazione di Parîkshit. Una cosa simile non era mai successa in India: tutto contemporaneamente, da una parte i riti funebri, da un’altra l’incoronazione, dall’altra la rinuncia totale. Tutto nello stesso tempo e nello stesso giorno. Chi farebbe una cosa simile? In nessun luogo succedono cose simili.
Dopo che Bhîma ebbe terminato i preparativi, Dharmaja fece per avviarsi. “Io vado. Cosa mi avevate promesso all’âshram di Romarishi?” e ricordò loro la promessa fatta a suo tempo. “Siamo pronti, Swami”, gli risposero Draupadî e i quattro fratelli. Dharmaja cominciò a camminare in direzione nord; gli altri lo seguirono, uno dietro l’altro. Tra loro non parlavano né si guardavano. Dopo aver camminato per una certa distanza, Nakula cadde a terra. Poi fu Sahadeva a cadere, e poi Bhîma e Arjuna; anche Draupadî cadde. Dharmaja rimase imperturbato. Disse: “Tutti se ne vanno; io vado avanti da solo.” Egli aderiva strettamente alla Verità. Dharmaja era ardito nel seguire la Verità; parlava secondo Verità e si comportava coerentemente.
Il Dio della Morte
Yama Dharmarâja, il Dio della morte e re del Dharma, si manifestò a lui dicendogli: “Tu sei Dharmarâja; io sono Yama Dharmarâja. Verrò con te.” Prese le sembianze di un cane e lo seguì. Persino il Dio della morte ha rispetto del Dharma. “Il Dharma è la nostra vita. Che ne sarà di noi se abbandoniamo il Dharma?” Con quel pensiero Yama lo seguì. Dopo aver percorso una certa distanza, a Dharmaja si presentò la visione di una scena spaventosa. Egli pensò: “Che cosa sono queste urla strazianti? Quante sofferenze, quante pene si vedono qui! Perché?” La volontà di Krishna è che ogni cosa accada secondo la legge del karma. Dharmaja era ormai entrato nel regno della morte, l’inferno. Yama gli disse: “Dharmaja, in tutta la tua vita, solo una volta hai detto una bugia:‘Ashvatthâma Hatah Kuñjarah’, che significa ‘un elefante di nome Ashvatthâma è stato ucciso’.
Quella non fu esattamente una bugia. Dicesti così allo scopo di scoraggiare Drona, ma pronunciasti la parola kuñjaraha (elefante) sottovoce. Facesti così credere a Dronâchârya che suo figlio fosse stato ucciso. Per quel peccato, occorre che tu trascorra qualche tempo all’inferno.”
Generosità di Dharmaja
Tutti gli esseri che soffrivano nello Yamaloka, negli inferi, esclamarono: “Ora siamo in estasi, in estasi! Swami, per merito tuo, Dharmaja, grazie al solo tuo tocco, alle tue parole, alla tua visita qui, tutta la nostra sofferenza è svanita!”
Dharmaja visitò il luogo. Tutti gli spiriti guardiani, però, non gli permisero di rimanere e lo avvisarono: “Ora, il tuo tempo qui è terminato. Devi andare in Paradiso.”
Gli esseri che si trovavano là ne furono così addolorati! “Come potremo stare senza questa gioia? Vogliamo venire con te!” Ma i guardiani di Yama lo impedirono. Allora Dharmaja, mosso a pietà, volle restare per dare conforto a quei sofferenti. Dharmaja era così nobile, così grande, così sincero.
Yama disse: “Tu sei Dharmarâja, io sono Yama Dharmarâja; se si toglie quella parola ‘yama’, il risultato è yoga. La Verità comprende yama e niyama; essa è la tua forma. Tale Verità possiede la forma del Dharma.”
Così dicendo, lo mandò in Paradiso. Yama gli aveva svelato il significato interiore di tutto.
Oggi nessuno realizza la grandezza e la profondità della Verità e della Rettitudine. Dharmaja conseguì tutto con la sua aderenza alla Verità. Chi segue il sentiero della Verità, a prescindere da qualsiasi situazione, non incontrerà mai sofferenze.
Dite la Verità
Studenti!
A volte, a causa di qualche difficoltà, potrà sembrarvi necessario mentire. Non dite mai il falso; anche se la vostra stessa vita fosse in pericolo, dite sempre la Verità.
Non c’è Dharma superiore alla Verità.
Quindi, mantenete la vostra vita sul sentiero della Verità. Fate rivivere l’antica gloria di Bhârat attraverso il voto della Verità. Non lasciate spazio alla menzogna, alle cattive azioni, ai comportamenti inappropriati ed all’ingiustizia. Siate felici, seguendo il sentiero della Verità.
Il saggio Yâjñavalkya si sottopose ad infinite penitenze per poterci trasmettere la Verità, e dopo tante austerità raggiunse la Divinità. Egli si unì sempre a buone compagnie, e gioì della Beatitudine. Con la Verità possiamo conseguire grandi cose. La Verità può trasformare la Terra in Cielo e il Cielo in Terra.
Sostenete la Verità, proteggetela; vivete nella Verità, considerandola come il vostro stesso respiro: è questo che dovete imparare. Ovunque andiate, non concedete spazio alla menzogna. Attenetevi alla Verità e derivatene gioia. Non preoccupatevi delle difficoltà che potrebbero presentarsi dicendo la Verità.
Dicendo la Verità si prova (Swami canta il bhajan):
Satyam Jñânam Anantam Brahmâ…
“Verità, Saggezza ed Eternità (sono) Dio….”.
Con questo bhajan, Baba ha concluso il Suo Discorso Divino.
Prashânti Nilayam, 14 Ottobre 2002
Sai Kulwant Hall
Festività di Dasara.
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