12 Ottobre 2002 (Dasara) – Il grande mantra celato nel respiro

12 Ottobre 2002 (Dasara)

Discorso Divino di Bhagavan Sri Sathya Sai Baba

Il grande mantra celato nel respiro

Premessa: (Cronaca della 4a giornata della festività di Dasara)
Il programma del mattino ha riguardato il Veda Purusha Saptâha Jñâna Yajña e il grâma sevâ degli studenti, che sono avvenuti contemporaneamente. Nel pomeriggio shrî Indulal Shah, Presidente delle Organizzazioni Shrî Sathya Sai Sevâ, e un devoto di 45 anni, hanno parlato delle attività delle Organizzazioni nei vari paesi di tutti i continenti. È stato ricordato che molti governi hanno adottato i programmi educativi “Educare” ed EHV nei loro programmi scolastici, sollecitando tutti i devoti a sforzarsi per seguire il Messaggio di Swami.
Shrî S.V.Giri, vicerettore dell’Istituto Universitario Shrî Sathya Sai ed ex commissario di vigilanza centrale del Governo indiano, ha parlato degli aspetti della fede e della devozione, descrivendo il significato della parola Yajña, che significa “Sacrificio”. Ha narrato la storia di un devoto del Signore Shiva, la cui devozione riuscì a trasformare una notte di luna nuova in una notte di luna piena, cosa che gli salvò la vita.
Vinit, uno studente dell’Istituto Universitario Shrî Sathya Sai, ha parlato dell’unicità del tipo di educazione dell’Istituto, e di come esso impartisca un’educazione per la vita, e non un’educazione atta solo a fornire i mezzi per mantenersi. Ha paragonato l’educazione a un sandwich alla marmellata, formato da due fette di pane (l’educazione per la vita e l’educazione per pagarsi da vivere) e dalla marmellata (che rappresenta l’Amore di Baba, che rende dolce l’educazione). Ha descritto l’Amore e la cura con cui Swami insegna ai Suoi studenti, rendendo la Sua educazione “Edu-care”. Ha evidenziato l’analogia degli individui con le matite. Le matite danno la loro migliore espressione quando sono tenute da mani esperte, e devono essere ben temperate per poter essere usate al meglio. Le matite, anche se di diverse misure, hanno lo stesso ingrediente, la grafite. Allo stesso modo, gli individui sono molti, ma il respiro è Uno; gli esseri umani, per poter aiutare la società, hanno bisogno di essere temperati e devono ridurre l’ego e instillare in se stessi i Valori Umani. Gli esseri umani, come le penne, hanno valore quando sono strumenti ideali nelle mani di Dio. Dopo questi tre oratori ha parlato Baba, pronunciando il Suo Discorso Divino.

“Brahmâ crea l’intero universo,
Vishu se ne prende cura e dà sviluppo,
il supremo Shiva distrugge i peccatori.
Quella trasmessa, è la parola (la Verità) esistente.”

Incarnazioni dell’Amore!
Che cosa sta cercando l’insoddisfatto uomo, in questo vasto mondo, in questo universo infinito e pieno di pensieri profondi? A che cosa sta bramando? Alcune persone stanno sprecando il loro tempo in preoccupazioni materiali, mentre altre lo stanno buttando via per ciò che non può essere ottenuto. Ci sono invece persone che, sul sentiero spirituale, pensano a Dio, vogliono il Suo darshan, vogliono contemplarLo e conversare con Lui.
L’uomo contempla Dio dicendo: “Brahmâ, Vishnu, Maheshvara (Shiva).” Tuttavia Brahmâ, Vishnu e Maheshvara non sono forme (divine) dall’aspetto umano. Essi non hanno né una forma né una base; non esiste quindi gioia che possa derivare dall’adorarLi.
Che forma posseggono, in realtà? Se s’indaga, (si scopre che) sono degli attributi, senza un abito (aspetto) specifico. Come sono? È detto:

Îshvarah sarva bhûtânâm
“Dio è in tutti gli esseri viventi.”

Îshvara (Shiva) è presente in tutti gli esseri viventi. Ma sotto quale aspetto? A che serve contemplare ciò che non si conosce? Îshvaratva è il respiro dell’uomo: esso può essere visto, ascoltato, pensato e fa dimenticare se stessi.
In che modo il suono (del respiro divino) è udibile? Volendolo sperimentare con una forma specifica, che cosa si dovrebbe fare? Le Upanishad dicono che la sua forma è Brahman, l’Assoluto o Âtma. Ma, per quanti concetti astratti vengano spiegati, l’uomo non è in grado di capire.
Tuttavia, qual è la forma di quel suono? Con che forma dovremmo contemplarlo? Esso viene chiamato Shabda Brahma, ossia Îshvaratva. Che cosa significa? Vuol dire: “respiro propizio”. Come possiamo ottenere un respiro tanto propizio?
Possiamo percepire Îshvaratva nel respiro dell’uomo: “Soham, Soham, Soham.”
Il significato di Soham è: “la mia forma”. (So = Lui (Dio); Ham=io sono – N.d.T. . Vien detto: “Lui (Dio) è la mia forma.” È possibile riconoscere tale forma? Riconoscere il Sé significa riconoscere la forma del respiro. (Se non si comprende che Shiva è il respiro divino), per quanto Lo si contempli, non verrà sperimentata alcuna beatitudine. Îshvaratva prova che questo suono è all’interno dell’uomo, ma noi non lo riconosciamo. Se si ha la forma fisica come solo e unico obiettivo, anche se si indaga sul suo significato, non lo si potrà affatto percepire. Ecco perché bisogna attribuirgli una “forma” (aspetto). L’attributo (guna), dunque, è la forma appropriata da dargli. So Ham è perciò il guna satvico (che gli si confà), il vero Îshvaratva. Da questo respiro divino emerge un altro aspetto: Vishnutva (il Principio di Vishnu). Qual è la sua forma?
È il sentimento della mente; è la mente, ed essa sorge dal suono Soham (Îshvaratva). Da Soham nasce ogni (altro) suono. Questo suono attesta la forma della mente, la quale è Vishnu. La mente è Vishnu.
Dall’ombelico di Vishnu sorge un’altra forma: Brahmâ. Abbiamo quindi tre aspetti: Îshvaratva, Vishnutva e Brahmatva (il Principio di Brahmâ). Vishnutva, la mente, sorge da Soham. La natura della mente rappresenta Vishnutva. Îshvaratva, il (respiro) Divino, si manifesta come (attraverso) Brahmatva, ossia vâk svarûpa, la parola. Ciò significa che tutte le nostre parole sono Brahmatva.
Questo vuol dire che ogni parola è il Principio di Brahmâ, ogni sankalpa (decisione) che nasce dalla mente è il Principio di Vishnu e ogni respiro è il principio di Shiva. Îshvara (Shiva) è il respiro, Vishnu è la mente dalla quale sorge Brahmâ, la vera parola. Dal nostro respiro emerge il Divino. Soham è la Divinità, la quale non ci lascerà mai. Infatti, fintantoché abbiamo un corpo, il respiro continua a sorgere in noi.
La mente, Vishnutva, possiede sia sankalpa (il potere di decisione) che vikalpa (l’agitazione mentale).
La parola, Brahmatva, è suono ed emerge dall’ombelico di Vishnu. Qual è la sua causa prima?
Brahmatva attrae il suono. È detto:
Shabda brahman mayî (la potenza del Suono: Soham, il respiro, Îshvaratva).
Carâcara mayî (la forza della mobilità e dell’immobilità: la mente, Vishnutva).
Vâng mayî (il potere della parola: Brahmatva).
Attraverso le parole, questo suono attrae Sarasvatî.
Sarasvatî (l’aspetto femminile di Brahmâ), Durgâ (l’aspetto femminile di Îshvara/Shiva) e Lakshmî (l’aspetto femminile di Vishnu), non sono altro che forme di questi tre (aspetti citati nello shloka). Noi adoriamo queste forme; tuttavia, da tale adorazione, non si trae alcuna beatitudine.
Senza il suono Soham, non è possibile fermare (controllare) il respiro; senza la mente, le parole non possono nascere. Esiste, quindi, la parola, che origina dal nostro respiro, e il significato profondo, che origina dalla parola.
Fra questi tre aspetti (suono Soham, sankalpa della mente, e parola), esiste una interrelazione e una interdipendenza. Per riconoscere una tale natura, stiamo compiendo moltissimi sforzi. Tuttavia non possiamo ottenerne la conoscenza attraverso la sâdhanâ né con la ricerca, ma solo attraverso un attento esame. Solo quando esamineremo attentamente, comprenderemo la natura del Divino. L’uomo dovrebbe sforzarsi di riconoscere l’unità di questi tre aspetti: la Verità, unità di misura completa; l’eterna Incarnazione della Verità; lo stato beatifico causato dell’equità.

L’essenza delle Upanishad

L’uomo, oggi, sta leggendo molte delle Upanishad.
Qual è la loro essenza? L’essenza delle Upanishad t’insegna la tua (vera) natura. Essa dimostra l’unità nella diversità.
Noi possediamo un corpo del quale ci prendiamo cura. Ma perché? Che cosa otteniamo da tutte le cure che gli prestiamo? Assolutamente niente! Fintantoché è in vita, il corpo dovrebbe nutrirsi; fintantoché il corpo esiste, si deve dormire. Mentre si dorme (nello stato di sonno profondo), si sperimenta beatitudine, ma, una volta svegli, dov’è la beatitudine?
Stiamo perciò dimenticando l’essenza delle Upanishad, prendendo rifugio nei significati sbagliati. Nomi e forme andrebbero ricordati, poiché il nome è importante. Dio non ha Nomi: tutti i nomi sono Suoi. Egli è in ogni nome. Non esiste niente che Egli non sia o che non sia Suo. Incarnazioni dell’Amore!
È importante sapere che la natura di Dio è Amore. Tuttavia non stiamo assolutamente cercando di riconoscerNe la natura. Tutto ciò può essere ottenuto con il corpo. Nel corpo ci sono tanti yantra (sistemi, quali il sistema digestivo, il sistema nervoso ecc. – N.d.T.), ma, per quanto si cerci di investigare, non riusciamo a riconoscere il loro significato sottile.
Per ogni cosa esiste un interruttore generale. Gli occhi vedono e possono farlo grazie ai moltissimi raggi di luce (presenti in essi), mentre, per via delle numerosissime papille gustative, la lingua può gustare svariati sapori. Molti suoni sono udibili grazie alle orecchie. Qual è la base di tutto ciò?
Tale base è chiamata fondamento. Per ogni cosa esiste una causa prima, un fondamento al quale diamo il nome di Âtma. Grazie alla natura dell’Âtma, dal nostro cuore sorgono molti sentimenti. Qual è la causa prima di questi sankalpa? È importante specificare che essi sorgono dal cuore.
I nostri cuori sono i Veda e i sankalpa sono le varie shruti (le tonalità musicali). I significati profondi che emergono dalle shruti, sono il Vedânta. Non dovremmo perciò credere che i Veda si trovino all’esterno. Il suono onnipresente è con noi, al nostro fianco, in noi e intorno a noi. Dovremmo riconoscere quei suoni e le parole dei Veda del nostro cuore. Dovremmo fare il giusto sforzo per riconoscere quelle parole, l’intimo significato delle quali è il Vedânta.
È detto:

Sarvatah pâni pâdam tat sarvatokshi shiro mukham
sarvatah shrutimalloke sarvam âvritya tishthati
“Con Mani, Piedi, Occhi, Testa, Bocca e Orecchie che pervadono ogni cosa,
Egli permea l’intero Universo.”

Solo se riconosceremo bene questo significato sottile, allora comprenderemo il Vedânta.
Il mattino presto, nel nostro auditorio Pûrnachandra, i sacerdoti cantano i mantra vedici. Grazie al solo ascolto di quei mantra, si sperimenta gioia. Tuttavia, nonostante la gioia, non ne comprendiamo la sostanza.
Qual è l’utilità di conoscerne il significato? Dovremmo semplicemente captare il suono delle parole. I significati sono molti. Ci sono diversi significati, ma noi, considerando quelli distorti ed errati, stiamo dimenticando i significati reali. Poiché dimentichiamo la realtà, ci rimane impossibile riconoscere la natura della Verità.

Incarnazioni dell’Amore! Studenti!
Non abbandoniamo queste parole (mantra) credendo di non comprenderle. In esse ci sono molti significati e ognuno dovrebbe prendere quello adatto a se stesso. Comprenderemo la vera sostanza solo quando considereremo il significato che personalmente ha per noi.
Se vogliamo essere nella ricerca spirituale, dovremmo sostenere il vero silenzio. Non cerchiamo quindi di conoscere il significato di tali parole. Non dovremmo neanche criticare, bensì indagare. Tuttavia tale indagine è esclusivamente basata sulle nostre preferenze. Basarci sulla natura del nostro Amore, ci condurrà alla corretta indagine. Se perciò vogliamo indagare, dovremmo farlo in base ai nostri sentimenti. Ieri vi ho detto: da dove deriva la dolcezza delle cose? Non è come dice l’uomo; non è una creazione dell’uomo. È una qualità naturale. Da dove arriva la dolcezza della canna da zucchero? Da dove arriva il piccante del peperoncino? Da dove arriva l’amaro del nîm? Da dove arriva il profumo del gelsomino?
Crediamo che siano qualità naturali, mentre non lo sono. In che modo possiamo comprendere le qualità della natura? No, no. La natura che vediamo, altro non è che la natura di Dio. Dovremmo, quindi, comprenderla bene. Tuttavia, in essa, ci sono diversi sentimenti, ci sono molte differenze e molti significati; è quindi impossibile comprenderla. Essa possiede la natura di Dio.
Se si vuole capire il Divino, dovremmo porre la nostra mente in Dio. Da dove arriva la mente (Vishnutva)? Sia dai nostri sankalpa (le decisioni), sia dai vikalpa (le agitazioni), sia dal nostro respiro (Îshvaratva). Ma come sorge il suono che da ciò deriva? Dobbiamo indagare riguardo al suono, per scoprire la sua vera natura, ossia Brahmatva.
Il suono Soham, presente in Brahmatattva, è la vera natura del nostro Âtma. Se dunque vogliamo comprendere Âtmatattva, il Principio atmico, dovremmo recitare Soham ad ogni nostro respiro.

Soham

Noi stiamo vivendo solo per Soham, senza il quale questa vita sarebbe inutile. In qualunque suono emesso, Soham è presente. Viviamo, infatti, in base a questo suono, senza il quale la nostra vita non ha senso. Per che cosa, quindi, stiamo vivendo? Per comprendere la natura di Soham. Qual è il suo significato?
Soham è anche chiamato “Hamsa” Gâyatrî.
So significa “Quello” (Dio), Ham vuol dire “io sono”.
So Ham vuol dire “io sono Quello (Dio)”. Che cosa significa ripetere “io sono Dio?” Quale parte di noi dichiara “io”?
Esiste la mente e si crede che sia l’“io”, mentre invece essa si pone solo come ostacolo alla sâdhanâ. È perciò meglio non credere di essere la mente, poiché essa non ha alcun significato. La mente viene definita una scimmia pazza e, se credi in essa, quale sentiero sarai in grado di percorrere? No, no!
Per questo non si dovrebbe considerare la mente come tale, ma aver fede nel fatto che la mente è Dio. Essa è la forma di Vishnu, senza la quale non esiste respiro. La mente esiste perché respiriamo; dal respiro emerge il suono Soham.
Se cerchiamo di riconoscere questi significati reconditi, non comprenderemo affatto le Upanishad. Nelle Upanishad sono contenuti tanti significati sacri. Quindi, che cosa dovremmo fare per percepirli? Indagare.

Prânâyâma

Quando ci sediamo (a meditare), dovremmo osservare (il suono) Soham che emerge (cioè osservare il respiro – N.d.T.). Chi è “So” e chi è “Ham”? Da dove entra “so” e da quale porta esce “Ham”? L’uno entra (inspirazione) e l’altro esce (espirazione). So Ham è perciò la costante attenzione su quel suono che entra ed esce.
So entra all’interno, mentre Ham, che esce, è l’ego. Dovremmo rilasciare ciò che esce e afferrare ciò che entra portando il prâna (l’alito vitale). Dopo l’inalazione, dovremmo fare kumbhaka (trattenere il respiro per alcuni secondi prima di espirare di nuovo – N.d.T.). Facendo sâdhanâ, molte persone eseguono rechaka (l’espirazione), pûraka (l’inspirazione) e kumbhaka (la ritenzione del respiro). “So” va inalato attraverso una narice, “Ham” deve essere esalato dall’altra narice. Fra questi due momenti, c’è kumbhaka, la ritenzione del respiro per qualche secondo.
La natura di questi tre suoni (inspirazione, espirazione e ritenzione) è legata al tempo. Se non riconosciamo l’importanza dei tempi (di esecuzione della pratica), se si fanno le cose come ci pare e piace, questa pratica non è più prânâyâma (il controllo del respiro), ma prâna apâyama (il pericolo di vita)! Perciò, il tempo d’inspirazione deve essere uguale a quello della ritenzione e dell’espirazione. Per questo si dice che Brahma è Kâla svarûpâya namah, “(Omaggi all’) Incarnazione del Tempo”; Soham è, infatti, il principio di Brahma. Dovremmo quindi fare attenzione al tempo, rappresentato da Brahma, la sua incarnazione.
Quando si procede in accordo col tempo, occorre riconoscere il proprio dovere. Quale dovere? Il sankalpa della mente. Che tipo di sankalpa dovrebbe avere la mente? Avere sankalpa sacri è un dovere. Vishnu, la mente, è satvico; tutti i sankalpa sono perciò satvici. Le nostre decisione dovrebbero essere sacre. Per far sorgere decisioni sacre, l’inspirazione e l’espirazione dovrebbero essere sacre.
Brahmâ, Vishnu e Maheshvara sono dunque interdipendenti e interconnessi. Essi non sono solo dei nomi specifici, ma (sono attributi che) si guadagnano attraverso la condotta. Non solo: essi si associano alla sacralità; s’immergono nell’unità. Dovremmo perciò comprendere la loro natura, che è unità.

Il giusto significato

Le Upanishad descrivono tutto questo in molti modi, ma nessuno è capace di riconoscerne il profondo significato. Se si vuole memorizzare uno shloka, se si vuole insegnare il suo significato sottile, bisognerebbe soffermarsi su di esso per almeno un mese. Che cosa vuol dire? Che gli shloka hanno molti significati; perciò andrebbe colto il significato appropriato a seconda della nostra situazione del momento. Qualunque cosa detta, ha un significato sottile.
Quando al bambino piccolo, non ancora in grado di parlare bene, fai ripetere “Râma”, lui dirà: “Lama.” Anche questa parola (storpiata) ha senso. Per la sua età, quello è il giusto significato. Per lui “Râma” non è il significato giusto. Per quell’età e in quel momento, la cosa giusta è “Lama”. Dal nostro punto di vista, “Lama” è sbagliato, mentre, in relazione all’età del bimbo, in accordo col suono del momento e con la sua natura, “Lama” è giusto.
Allo stesso modo, solo se consideriamo certi parametri, ossia chi sta parlando, che età ha, la sua situazione e che cosa dice, possiamo decidere che cosa sia giusto o sbagliato.
Ci sono qui molte persone, fra cui molti ragazzi colti. Tuttavia, se si chiede loro di dire “châpa” (“stuoia”, “tappetino” – pronuncia: ciapa – N.d.T.), essi non saranno in grado di pronunciarlo. Al suo posto diranno “chepa” (“pesce”- pronuncia: cepa – N.d.T.).
Bisognerebbe riconoscere il significato di “cha” (pronuncia: cià – N.d.T.), “che” (pronuncia: cé – N.d.T.) e “saha”. Perciò, fate in qualche modo degli sforzi, pensateci bene e cercate di dire “châpa”. La lingua è importante per pronunciare “châpa”. Tuttavia, per quanti sforzi vengano fatti, esce “chepa” e non “châpa”.
Châ, che, sâ, se, saha: in questi termini ci sono molti significati difficili.
Dopo essere tornati a casa, provate a pronunciare le due parole e state a vedere. “Se Lui ha detto ‘châpa’, lo posso dire anch’io: ‘chepa’.” Non lo sapete dire!! Solo colui che sa riconoscere la natura del termine, può pronunciarlo bene: “Questo è châpa”, mentre colui che non sa il significato del termine, per quanti sforzi faccia, non lo saprà dire.

Vishnu arrivò correndo

Per colpa dei malintesi creati dai termini, anche ai tempi del Mahâbhârata ci furono molti conflitti.
Nell’episodio narrato nel Bhâgavata, riguardo alla liberazione dell’elefante Gajendra, si racconta come Vishnu corse a proteggere Gajarâja (Gajendra, il re degli elefanti, intrappolato nelle fauci di un coccodrillo – N.d.T.). Egli disse: “Gaja, Gaja, rimani fermo, rimani fermo. Sto arrivando!”
Vishnu arrivò correndo. La cosa fu così improvvisa che Lakshmî, al Suo fianco, non ebbe nemmeno il tempo di domandarGli dove stesse andando. Il famoso poeta Potana, cercò di descrivere così la scena: (Swami recita i versi molto velocemente, mangiandosi le parole – N.d.T.):

“Ella si affrettò, volendo chiedere che cosa stesse succedendo, ma non era sicura se Suo marito avrebbe potuto rispondere o no.”
(Fragorose risate)

Risponderà, Vishnu, o no?

“(Mentre si affrettava), la treccia dei Suoi capelli si sciolse…”

Mentre stava correndo, persino i Suoi capelli si sciolsero.

“Non c’era spazio né per abbassare né per sollevare il piede.”

Non poteva né abbassare né sollevare il piede.
Non era il momento giusto (per domandare). Quando si usano le parole al momento sbagliato, invece del significato sottile, emerge quello errato. Ciò accade per ogni lingua di ogni nazione.
Quindi, studenti!
Se si vuole sapere il significato delle Upanishad, ci si dovrebbe rivolgere soltanto ai grandi esseri che le conoscono, così da farne comprendere gli intimi significati.
Tutta l’essenza delle Upanishad nasce dal principio di Brahmâ, il quale è l’incarnazione di vâk (la parola). La mente è Vishnu, il quale è associato ai buoni sentimenti. È solo quando si hanno buoni sentimenti che emergono buone parole; quando si pronunciano buone parole, ci sono buoni significati.
Questo vuol dire che i tre, Brahmâ, Vishnu e Maheshvara, non sono separati. Maheshvara è il respiro, Vishnu è la mente e Brahmâ è la parola. L’unità di questi tre aspetti, ossia Âtma, mente e parola, forma la natura di Brahmâ, Vishnu e Maheshvara.
Dunque: come potete esprimere il significato di “Âtma”? Come potete esprimere il significato della parola? Se volete esprimere il significato di una parola, dovete farlo solo con la parola. Incarnazioni dell’Amore!
Se continuo a parlare così, vi verrà il mal di testa!! Ma il fatto è che, chi non conosce il significato delle Upanishad, non le vede (dal giusto punto di vista) e non ne capisce l’essenza, crea moltissime interpretazioni errate.
Dobbiamo quindi ripetere le Upanishad colmi di pace, al momento giusto, adottando un comportamento sacro e purezza di parola e di respiro. È solamente con questa purezza di respiro che dobbiamo pronunciare le Upanishad. Anche il nostro respiro, infatti, dovrebbe essere puro. A questo proposito, nelle Upanishad esiste un mantra, ossia quel mantra (Soham) presente all’interno della respirazione.
Attraverso il suono del mantra e attraverso il respiro, moltissime malattie possono essere curate. Che cosa succede grazie a tale mantra? Innanzitutto il nostro respiro verrà purificato. E non solo. Se a causa del colesterolo il nostro sangue è denso (e la circolazione è rallentata), con quel mantra il sangue diventerà un po’ più fluido (verranno rimossi i blocchi del sistema cardiovascolare – N.d.T.). Inoltre, verrà curata la cataratta agli occhi e la voce diventerà sacra.
Dobbiamo considerare il suono nel modo giusto. Solo quando lo facciamo, ci arriva il suo vero significato. Basta prendere l’essenza anche di una sola Upanishad per riconoscere l’intera natura del corpo. Come fa la lingua a riconoscere i sapori? Assaporiamo il gusto del cibo che mangiamo. Quante papille gustative ci sono sulla lingua? Ce ne sono 51.000. Quante onde sonore percepiscono le orecchie? Ne percepiscono 36.000, mentre negli occhi ci sono 51.000 crore di raggi di luce. Come facciamo a vedere tutte le cose che vediamo? Dato che ci sono tanti raggi di luce, quale pensiamo sia la visione corretta? Quella che considera la situazione e il momento, e viene utilizzata di conseguenza.
Quando riconoscerai i significati corretti, non solo curerai le diverse malattie, ma cambierai anche la tua condotta. Quando la condotta si trasformerà, cambierà anche l’atteggiamento. Quando l’atteggiamento cambierà, nasceranno i sentimenti appropriati. Tali sentimenti, che sorgono in noi, prendono la forma di parole giuste.

L’Omkâra

Incarnazioni dell’Amore!
Nel mondo esiste un’infinità di parole con altrettanti significati; per questo bisogna fare in modo che, fra le parole e i significati, ci sia una correlazione. Nel campo spirituale, invece, non serve a niente conoscere i significati. Ripeti esclusivamente il suono (mantra), senza tenere in considerazione il significato.
Ora: molte persone affermano che si dovrebbe fare attenzione alle lettere che compongono il mantra …

OOOOOOMMMMMMMMMM….

Ma OM non è lo “spelling” corretto. OM è una parola; perciò, di quali lettere è composta? A-U-M. Quando queste tre lettere A, U, M si uniscono, formano la parola OM. Se la si vuole pronunciare….

AAAAAUUUUUMMMMMM….. AAAAAUUUUUMMMMMM……

“A” sorge dalla gola, “U” tocca la lingua, mentre “M” termina sulle labbra. L’Omkâra, composto da queste tre lettere, nasce dall’ombelico. L’unico vero suono è quello che nasce dal (sentimento del) cuore. Molte persone, volendo ripetere l’Omkâra, siedono e cominciano a ripetere esclusivamente le lettere. Quando, il mattino presto, recitano l’ Omkâra, fanno così:
(Swami ripete ad alta voce – N.d.T.:) “AAA; UUU; MMM”). (Risate). Fra le tre lettere dovrebbe invece esserci unità e dovrebbero essere cantate insieme.
Supponi che, in lontananza, stia arrivando un aeroplano: da dove arriva il rumore che fa? A mano a mano che si avvicina, il rumore è sempre più forte; poi si allontana. Il vero suono dell’Omkâra è così.

OOOOOOMMMMMMMMMMM

Il suono deve arrivare da lontano; deve partire dall’ombelico e, raggiungendo la gola, diventare più forte, per poi allontanarsi di nuovo. Quando questo suono verrà usato in modo appropriato, otterremo i giusti sentimenti.
Sono molte le persone a questo mondo che cantano l’Omkâra. Lo ripetono per anni (e dicono:) “Swami, sono anni che ripeto l’Omkâra, senza però ottenere alcuna devozione”. Ma come sorge la devozione? Non è forse solo quando pratichi (la sâdhanâ) con i giusti sentimenti? Non è forse solo quando canti nella tonalità giusta?
Deve infatti esserci unità fra shruti (tonalità), laya (ritmo), râga (melodia) e tâla (tempo). Deve dunque esserci sia l’accordo musicale giusto, sia il ritmo giusto, sia il giusto tempo. Dovremmo riconoscere bene l’unità di tutti questi elementi e agire di conseguenza. Così, le Upanishad sembrano essere difficili, mentre, se si conosce il loro significato, non c’è niente di più facile. Non cerchiamo di afferrare la loro essenza: conosciamone il significato e mettiamolo in pratica.
In questo caso (durante i rituali), bisognerebbe recitar bene l’essenza delle Upanishad, mentre, purtroppo, le persone sdentate ne cambiano il suono. Non c’è quindi bisogno di recitarle ad alta voce. Ripetile dentro di te. Ci sono infatti persone che ne modificano il suono.

L’importanza del controllo del corpo

Alcune persone hanno svara (sono intonate); tuttavia, la loro voce dovrebbe adeguarsi alla nota. Intonando la voce, dovrebbero anche cambiare âkâra (la loro postura). Così facendo, dovrebbe nascere Beatitudine. Quando la posizione cambia, quando la nota non è quella giusta, la postura si distorce.
Voi sapete che gli artisti, prima di iniziare, intonano la voce con la tonalità del brano. Se la voce e la tonalità non sono in armonia, si crea una stonatura.
Insieme con questi accorgimenti, andrebbe controllato anche il corpo. Durante i bhajan, quando il cantore canta una nota alta, la voce si allunga di una iarda (si strozza). La tonalità non andrebbe cambiata; non dovrebbe essere così alta (stonata), ma tenuta sotto controllo. Mentre cantano, alcuni chiudono gli occhi. Tuttavia, un occhio va in basso, mentre un altro va in alto. Anche la posizione cambia, diventando goffa. Questa è la ragione per la quale alcune persone, quando suonano l’armonium, mettono uno specchio sullo strumento. Sapete perché? Quando cantano si guardano allo specchio; in questo modo dovrebbero notare i cambiamenti degli occhi, della bocca e della gola. (Risate). Se stanno stonando, se ne accorgeranno dalla distorsione che il loro viso assume. Per quanto si voglia cantare bene, tutti saranno disgustati da quella contorsione. Anche la postura, quindi, deve essere quella giusta. Se la posizione non è quella appropriata, tutto si distorce. In questi casi è meglio che persone simili non cantino! Certe persone non dovrebbero procurare ashânti (nervosismo) agli altri per colpa della loro postura scorretta. Anche questo è uno dei reconditi significati delle Upanishad. Dovrebbero esserci dei buoni sentimenti nei confronti delle Upanishad.

Non si parla mentre si mangia

Le azioni che compiamo dovrebbero essere corrette e adeguate alla situazione. Se parliamo mentre beviamo del latte, lo sputiamo dappertutto. E non solo il latte: anche la nostra gola si rovinerà (ci andrà di traverso). Mentre beviamo o mangiamo, non dovremmo quindi parlare.
Anche tutti i grandi del passato dicevano di non parlare mentre si mangia.

Brahmârpanam brahma havir brahmâgnau brahmanâ hutam
brahmaiva tena gantavyam brahmakarma samâdhinâ
Brahman è l’atto di offrire, Brahman è la cosa offerta.
Dal Brahman, essa viene versata sul fuoco del sacrificio di Brahman;
Brahman verrà veramente raggiunto da colui che vede sempre Brahman nell’azione.
(Bg . 4.24)

Non dovreste parlare con nessuno prima di aver recitato questi due shloka. Perciò, fintantoché non si è finito completamente di mangiare, non si dovrebbe parlare. In caso contrario, ci si rovinerà la digestione. A causa di una cattiva digestione, nascono moltissime malattie. Chiudete gli occhi pacificamente, pregate e poi mangiate. Molti bambini (studenti) non sanno che bisognerebbe mangiare in pace. Mentre si sta mangiando, non si dovrebbe continuare a ridere, o a piangere. Bisognerebbe mangiare in pace, senza ridere né piangere. Dovremmo mangiare nel modo giusto, in accordo col significato di ogni parola (della preghiera).
Prima di mangiare, non bisognerebbe pensare alle preoccupazioni. Se vogliamo vivere una vita quotidiana di Verità, dovremmo mettere in pratica alcune di queste discipline.
Ci sono Vishnutva (la natura della mente), la natura della parola (Brahmatva) e la natura dell’Âtma (Îshvaratva). Âtma, parola e mente. Senza creare conflitti, senza agitazioni, uno dei prossimi giorni vi parlerò dell’ Âtma, un altro giorno parlerò della mente e un altro giorno ancora, vi parlerò della parola.
Domani, dunque, parleremo della parola, che è la natura di Râma, ossia la natura satvica. È grazie al terzo aspetto, Brahmatva, che possiamo parlare. Tuttavia, parlando si soccombe ad ashânti.
Invece di Brahmatva, dovremmo innanzitutto considerare Vishnutva. La mente è altamente sacra. Stanno per svolgersi molti krânta, chiamati “Vishnu Krânta”, “Jaya Krânta” ecc. Domani, quindi, partecipando a tutti questi “krânta”, dovremmo cercare di ottenere la sacralità. Infatti, soltanto ascoltare gli shloka non serve a niente: dovresti anche praticarli nel loro appropriato, intimo significato e, quindi, sperimentarli.

Amicizia e abbandono

Incarnazioni dell’Amore!
Le persone pensano “sâdhanâ, sâdhanâ, sâdhanâ”, mentre la sâdhanâ non è cosa tanto facile. Le vie della devozione sono nove:

Shravanam (l’ascolto delle storie di Dio).
Kîrtanam (il canto della Gloria di Dio).
Vishnu Smaranam (il canto del Nome di Dio).
Pâda Sevanam (il servizio ai Piedi di Loto).
Vandanam (rendere omaggio a Dio).
Archanam (l’adorazione).
Dâsyam (l’essere servo di Dio).
Sneham (l’amicizia con Dio).
Âtma Nivedanam (l’abbandono).

È molto facile ripetere queste cose; tuttavia, quando arriva l’abbandono? Solo dopo sneham, l’amicizia. Prima di aver realizzato l’amicizia con Dio, non ci sarà la minima possibilità che sopraggiunga l’abbandono. Sneham significa “amicizia”. Finché non l’avrai ottenuta, tutti gli sforzi fatti sono inutili, per quanti essi siano. Prima di allora, non esiste affatto “abbandono a Dio”. L’abbandono, infatti, arriva solo dopo l’amicizia.
Molti bambini (studenti) non sanno che cosa sia l’amicizia. Se si chiede loro: “Che cos’è l’amicizia?”, rispondono: “Ciao, ciao! Ciao, ciao! Ciao, ciao!” Che cos’è tutta questa superficialità? Non ha alcun significato! L’amicizia non è quella.
Dovrebbe esserci un unico prâna (due soffi vitali all’unisono – N.d.T.) fra i corpi di due persone: questa è vera amicizia. Quando invece i due corpi hanno due sentimenti separati, non c’è affatto amicizia. Non dovrebbero esserci due pensieri (differenti). È detto:

“Un uomo con una mente duale è mezzo cieco.”

Se quindi hai due pensieri, ci sarà una mente duale. Con una mente simile, come potrai contemplare Dio? I ragazzi aspirano a compiere un’intensa sâdhanâ, ed è perché tengo molto a loro, che ho la tendenza a spiegare così tante cose.
Percorri senza meno la via spirituale. Condurrai una vita sacra solamente se non abbandonerai la retta via. Così facendo potrai conseguire ciò che vuoi. Tutto ciò può infatti essere ottenuto in un attimo.

Non perder tempo

Ma non perdere tempo. Inconsapevolmente, stai perdendo tantissimo tempo. Non dovremmo buttarlo via. Il tempo è la nostra vita.

Kâlâya namah kâlakâlâya namah
kâla pramânâya namah kâlâtîtâya namah
kâla svarûpâya namah kâla nimittâya namah
Omaggi a Colui che è il tempo. Omaggi al Padrone del tempo.
Omaggi a Colui che regola il tempo. Omaggi a Colui che trascende il tempo.
Omaggi all’Incarnazione del tempo. Omaggi a Colui che determina il tempo.

Il tempo è tutto; ma, se lo dissacriamo, come potremo farlo tornare indietro? Dio ha creato il tempo affinché noi santificassimo il corpo. Se lo vogliamo utilizzare in modo giusto, anche ciò che compiamo dovrà essere corretto. Kâla (tempo), karma (azione), kâranam (motivazione) e kartavyam (dovere) dovrebbero essere una sola cosa.
Che cos’è il corpo? Una bolla nell’acqua. Quando se ne andrà? Quando se ne va, se ne va. Un giorno o l’altro se ne va. Se non oggi, domani. Quindi, non ci si dovrebbe preoccupare di ciò che prima o poi sparisce. Se arriva, non si può evitare che se ne vada, e, ciò che se ne va, non si può evitare che ritorni. Non dobbiamo dunque preoccuparci di ciò che viene e va, ma riconoscere quella natura non soggetta a questi due aspetti.

Aspirare alle difficoltà

Che cosa è sacro e che cosa non lo è? Alcuni affermano che, per loro, è un bene la felicità, mentre altri preferiscono il dolore. La Mia opinione è che le difficoltà sono sicuramente migliori della felicità. Le difficoltà, infatti, ci portano molta felicità.
È un grosso errore affermare: “Vogliamo la felicità, vogliamo la felicità.” Si dovrebbe aspirare alle difficoltà. La Jñâna (Conoscenza Suprema), che deriva dai problemi, non può essere ottenuta con la felicità.
Andate da qualunque jñâni (saggio) o da qualsiasi santo rishi (asceta) e chiedete: “Signore, come avete acquisito questa Conoscenza?” Vi risponderanno: “Signore, le difficoltà che ho sperimentato, non sono da poco. Ho provato così tanto dolore! È grazie a tali difficoltà che ho ottenuto questa felicità. I problemi sono la causa della mia Jñâna.” Le difficoltà portano a dei risultati. Quando, perciò, sperimentiamo delle difficoltà, otteniamo il risultato giusto. Con niente altro, infatti, possiamo ottenere la Beatitudine che otteniamo grazie alle difficoltà.
I bambini (studenti) di oggi, invece, pensano che non dovrebbero affrontare nessun problema, che non dovrebbero spendere neanche un soldo e neppure mettere piede fuori di casa. Secondo loro, la Liberazione dovrebbe piovere dal cielo! Ma come potrebbe? È impossibile.
Dovremmo piegare la schiena e lavorare. Dovremmo sudare. Se semplicemente ci adagiamo e sperimentiamo felicità, alla fine le difficoltà ci faranno soffrire addirittura di più. Dovresti sperimentare tanta Beatitudine quante sono le difficoltà che vivi. Un giorno Kuntî chiese a Krishna: “Mio caro, quando sei arrivato? Come sta la nostra gente che sta combattendo? La guerra sta procedendo bene?”
Krishna rispose: “Nei momenti di guerra bene e male capitano da entrambe le parti. Nascita e morte avvengono per tutti. Non preoccuparti di questo. Dovresti smettere di preoccuparti.” Poi aggiunse: “Madre, che cosa vuoi?”
Kuntî rispose: “Non voglio niente, Figliolo! Fino a quando non abbandono la vita, fino a quando non cado ai Tuoi Piedi, dammi difficoltà.”
“Madre”, esclamò Krishna. “Non è forse abbastanza ciò che hai sperimentato fino adesso? Persino ai tempi di Pându Râju (suo marito – N.d.T.) sperimentasti moltissimi problemi. Perché ne vuoi ancora? Perché li desideri?”
“Krishna, Tu non conosci la gioia che le difficoltà portano, mentre io sì. Ho tutta questa felicità proprio perché sperimento quelle difficoltà”, disse Kuntî.
“Che felicità?”, chiese Krishna.
“La mia felicità è ottenere la Tua vicinanza. Tutti i miei figli si stanno meritando la Tua grazia. Tutti i figli nati dal mio grembo, si stanno meritando la grazia di Krishna. Questa è la mia Beatitudine, senza la quale a che serve mettere al mondo tanti figli (i 100 Kaurava – N.d.T.)?”, rispose Kuntî.

“I figli Kaurava erano numerosi.
Grazie a loro, si sperimentò gioia?
(Il Saggio) Shuka, che non ebbe figli,
non fu forse felice?”

Perciò, non fu sperimentata alcuna gioia nonostante i molti figli, mentre, proprio a causa della mancanza di figli, non ci fu alcuna perdita. I figli dovrebbero guadagnare una buona reputazione, adottare una buona condotta e frequentare buone compagnie.
Kuntî affermò: “I miei figli hanno ottenuto la compagnia di Krishna e stanno contemplando il Suo Nome. Da quando si alzano al mattino, fino al momento di andare a letto, la sera, costantemente ripetono: ‘Krishna, Krishna, Krishna.’ Questa è la mia Beatitudine.” Ella, dunque, Lo pregò di continuare a concederle quella Beatitudine.

Ottenere la vicinanza di Dio

Le madri, ai giorni nostri, chiedono una cosa simile? Non lo fanno. Vogliono che i figli stiano senz’altro bene, ma non vorranno che essi ottengano la vicinanza di Dio. Anzi, temeranno una cosa del genere, pensando: “Se mio figlio si avvicina a Dio, che cosa gli accadrà?” Se succede qualcosa… E allora? Che accada! I figli dovrebbero conseguire la vicinanza di Dio; se non ottengono la Sua presenza e stanno altrove, a che serve (la loro vita)? Perciò, giacché sono nati, il luogo che dovrebbero raggiungere è quello. È detto:

“Hai già deciso ciò che vuoi: non mollare finché non ti sia concesso.
Hai già richiesto ciò che desideri: non cedere finché non venga esaudito.
Hai già domandato ciò che volevi chiedere: non desistere finché non ti sia dato.
Hai già pensato a ciò che doveva esser pensato: non arrenderti finché non lo avrai realizzato.
O, essendo tu incapace di reggere la pressione, Io dovrei proteggerti;
o, essendo tu incapace di sopportare ciò, potresti crollare.
Tutto qui; ma, indietreggiare, non è certo la qualità di un devoto.” (Applausi)

Questa vita è piena di difficoltà, perdite e sofferenze: non preoccuparti di esse. Dovresti considerare la sannidhi (vicinanza) di Dio, come il tuo pennidhi (tesoro). Non si dovrebbe sviluppare una fede vacillante; non dovrebbero pertanto sorgere pensieri miscredenti. Bisogna avere una fede incrollabile nei confronti della Divinità vera ed eterna. Questo è ciò di cui hai bisogno. Perciò, è necessaria una devozione incrollabile, pura, altruistica e stabile.
La gente, invece, desidera di tutto. Vuole questo, vuole quello… Come lo si ottiene? C’è una sola bocca, attraverso la quale si vuole bere del latte e, contemporaneamente, anche dell’acqua; ma, se acqua e latte verranno mischiati (messi in bocca insieme), si confonderanno.
Allo stesso modo, poiché esiste un solo cuore, dovremmo richiedere una sola cosa: il Divino. Se desideriamo Dio, otterremo anche tutti i tattva (tutto il resto – N.d.T.) ed Egli si prenderà cura di noi sotto tutti gli aspetti.

Nessun dolore vicino a Dio

Ieri vi ho detto: qual è l’aspetto importante della vittoria dei Pândava? Qual è l’elemento di gioia? Qual è l’aspetto permanente? Che cosa dà Beatitudine? Se ci si pensa, si scopre che la Beatitudine è data dalla vicinanza di Dio. Ciò che dà Beatitudine, è la Beatitudine di Dio. Dio infatti non soffre, non ha alcuna ashânti, non ha nessuna preoccupazione; di conseguenza, quando ci si avvicina a Lui, non esiste assolutamente alcun dolore, nessuna preoccupazione e nessun tipo di sofferenza.
Una volta, qualcuno venne e disse: “Swami, io sono devoto di Dio; tuttavia, non sperimento altro che sofferenza.” Se tu fossi un vero devoto, perché mai la sofferenza ti si dovrebbe avvicinare? Da Dio ricevi gioia e non dolore, non è vero? Se dunque stai facendo esperienze con Dio, giammai Egli ti creerà sofferenza. Dio non ha alcuna sofferenza: perché tu sì? Che cos’è quello che provi? Il dolore che sperimenti e ricevi, non è certo quello di Dio: l’hai preso da qualcun altro. Stai prendendo le cose di qualcun altro e dici: “Me le ha date Dio”, mentre Egli non farà mai una cosa simile! Dio dona esclusivamente gioia.

Mamaivâmsho jîvaloke jîvabhûta sanâtanah
Tutti gli esseri sono scintille della Mia eterna Realtà.

“A colui che è parte di Me, arriveranno solo i Miei sentimenti. Il Mio prasâd (dono) arriva con dolcezza a colui che è parte di Me.” Potrà mai esserci amarezza nel prasâd ricevuto da Dio? Mai, mai, mai! Tuttavia, alcune persone sentono così. Sono degli ignoranti.
Tempo fa, nello stato del Kannada (Karnâtaka), visse Madhvâchârya. Egli era un sincero devoto di Krishna e aveva un discepolo. Poiché ripetendo: “Krishna, Krishna, Krishna, Krishna, Krishna”, Madhvâchârya con la purezza del suo cuore trasmetteva sentimenti sacri, il suo discepolo lo adorava. Krishna non darà mai difficoltà; tutto ciò che dà, non è altro che felicità.
Bene. Domani sarà Bhîshma Ekâdashî, che durerà tre giorni, durante i quali si dice si debba contemplare Dio e digiunare senza nemmeno bere un sorso d’acqua. Durante questi tre giorni, il discepolo (di Madhvâchârya) digiunò senza nemmeno deglutire la saliva, poverino! Ma tutto ciò è una follia! Perciò, di notte, Krishna gli andò in sogno: “Mio caro, questa non è sâdhanâ.
(Swami canta in lingua kannada – N.d.T.:)

“Non abbandonare le regole e le disposizioni della filosofia di Madhvâchârya.”

Egli disse in kannada (Swami canta nuovamente – N.d.T.):

“Abbandonandola, ti rovinerai.”

“Non abbandonare mai il Principio di questa ideologia. Non riprendere ciò che è stato abbandonato e non abbandonare ciò che è stato preso. Lasciare e prendere, lasciare e prendere… Se si continua in questo modo, quand’è che avrà un senso? Se lo afferri, non lasciarlo, qualunque cosa accada. Questo è ciò che ho sperimentato.” Così disse Madhvâchârya.
(Swami canta ancora in lingua kannada – N.d.T.:)

“Oggi abbiamo osservato Ekâdashî;
perciò, rientrati (dal tempio),
abbiamo mangiato 40 dosa!”

“Signore, dicendo ‘Ekâdashî, Ekâdashî, Ekâdashî’, le persone digiunano tre giorni, per poi preparare, il quarto giorno, la pastella per 40 dosa! È, questa, Ekâdashî?” (Risate).
Nonostante, dunque, si digiuni per tre giorni, il quarto giorno si mangiano 40 dosa. Affermando che Ekâdashî è terminato, non ci si dovrebbe riempire con tutti quei dosa, ma del Suo Amore. Se in noi entra l’Amore divino, non si sentirà la fame. È proprio per dimenticare fame e sete che è stata citata la sacra natura di Soham.
Vishvâmitra stava conducendo Râma e Lakshmana (nel suo âshram) per far loro proteggere lo yajña (rituale vedico) che stava compiendo. Ma i figli di re Dasharatha erano delicati; non avevano mai affrontato delle difficoltà, né mai avevano mangiato altro cibo (se non quello di casa). “Se Vishvâmitra li porta nella foresta, che cosa darà loro da mangiare?” Con questa preoccupazione, Dasharatha aveva sofferto molto. Quando arrivarono sulle rive del fiume Yamunâ (Sarayu), Vishvâmitra disse: “Râma, Lakshmana: venite qui.” I due ragazzi si avvicinarono con il cuore colmo di gioia e Vishvâmitra insegnò loro due mantra, chiamati Bala e Atibala.
Molte persone contestano: “Perché ha dato loro l’iniziazione al mantra, ben sapendo che Râma era un Avatâr?” Nonostante sia Dio, il corpo di un Avatâr necessita di âhâra (cibo) e vihâra (movimento), non è vero? Per questo motivo, esiste un mantra che non fa sentire la fame, mentre, per non avere sonno, ne esiste un altro. Senza fame né sonno, si può compiere tantissima sâdhanâ, si può vincere qualsiasi battaglia e qualunque demone. Perciò, quando furono sulle rive dello Yamunâ, Vishvâmitra iniziò i due ragazzi ai mantra Bala e Atibala. Allontanandosi un po’, Lakshmana chiese: “Swami, perché ci hai iniziato a questi mantra?”
“Figlio, siete così delicati! La fame è jatharâgni (il fuoco digestivo) e voi non dovreste provarla, perché, se vi sedete a mangiare, da dove potrebbe sbucare il demone femmina Tatakî? Oppure potrebbe arrivare mentre state dormendo. La vostra completa attenzione dovrebbe dunque essere concentrata sul demone. Inoltre, tutti i vostri sentimenti dovrebbero essere colmi di beatitudine. Di conseguenza, ripetendo i due mantra, chiamati Bala e Atibala, voi, Râma e Lakshmana, non avrete necessità né di mangiare né di dormire.”
Questa è la ragione per la quale le grandi anime, (quali Vishvâmitra), danno iniziazioni. Perciò, quando queste iniziazioni vengono date, non dovrebbe sorgere la contestazione: “Perché Mi ha iniziato al mantra pur sapendo che sono Krishna, pur sapendo che sono Râma?” Che si tratti di Dio o di un uomo ordinario, non è questo il punto. L’iniziazione al mantra viene data secondo il momento e la situazione.

“Ho parlato molto”

Perciò, studenti!
Vi sto facendo soffrire. Ho parlato molto. Domani vi parlerò senz’altro della mente, Vishnutva. Sarà un Discorso semplice, leggero e confortevole. Non avrete questo mal di testa.
La natura di questi due aspetti… o meglio: la natura delle Upanishad è formata da Âtma (Îshvaratva), mente (Vishnutva) e parola (Brahmatva). L’unione di questi tre aspetti, forma l’essenza delle Upanishad. Domani conoscerai la natura di tutto questo.

(Baba conclude il Suo Discorso cantando il bhajan: “Prema Mudita Mana Se Kaho….”).

Prashânti Nilayam, 12 ottobre 2002
Sai Kulwant Hall
Festività di Dasara
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