21 Ottobre 1982
Discorso Divino di Bhagavan Sri Sathya Sai Baba
Il Fuoco sacrificale
Un uomo può essere un illustre erudito che ha appreso i Veda e le Scritture e li sa recitare; può essere esperto nell’officiare i riti, ed essere un predicatore capace di persuadere i pellegrini a visitare i luoghi sacri, ed egli stesso può compiere vari pellegrinaggi in quei luoghi; può insegnare ai suoi discepoli come acquisire gli otto poteri e dimostrare a tutti di possederli; ma non sarà in grado di dominare i cinque sensi né di volgere la mente all’interno e tanto meno di stabilirsi nello stato di beatitudine del samādhi, immergendosi nella sola consapevolezza del Sé.
[1] I Veda sono il fondamento della cultura bhāratīya. Se nella società moderna è possibile scorgere un barlume d’illuminazione spiritua-le, questo avviene grazie a quelle basi vediche e allo stile di vita da loro tracciato: infatti tutti i codici morali (dharma) sono emanati dai Veda.
Veda mūlam idam jagat Tutto l’universo è sostenuto dai Veda.
Lo Yajurveda riguarda l’importanza dei riti sacrificali che hanno lo scopo di promuovere il benessere e la pace nel mondo, che è l’obiet-tivo primario di tutti i Veda. Gli inni contenuti nello Yajurveda ma-gnificano la gloria delle Divinità e propiziano le Forze Divine. Co-me risultato, ne deriva abbondanza, messi generose, ricchezza, be-nessere e progresso per l’umanità intera. I riti sacrificali, detti yajña, sono centrati sull’adorazione del fuoco. Per tutta la sua vita l’uomo è strettamente legato al fuoco perché è una creatura a sangue caldo, e il calore promuove le facoltà dell’in-telletto e dell’intuizione. Invocare Dio e dedicargli diverse offerte nel fuoco sono atti che portano piogge abbondanti e ricchi raccolti. Il fuoco, dunque, è un mezzo prezioso per ottenere benessere e si-curezza e per preservare anche la moralità e la bontà. Perfino l’oceano ha il fuoco latente nei suoi abissi. [2] Il fuoco è latente anche nello stomaco di ogni uomo e ne digeri-sce il cibo. Dio risiede nell’uomo sotto forma di fuoco. Aham vaiśvānaro bhūtvā prāṇināṁ deham āśritaḥ |prāṇāpānasamāyuktaḥ pacāmy annaṁ caturvidham ||Io, divenendo il fuoco della digestione che ha sede nel corpo degli esseri viventi, unito al soffio ascendente e discendente, digerisco i quattro tipi di cibo.Così afferma Kṛṣṇa nella Bhagavad Gītā al verso 15.14. È Dio che mantiene funzionanti le membra del corpo e consente di acquisire acutezza mentale e conoscenza. Il fuoco latente favorisce otto funzioni: fortifica i muscoli, sviluppa l’energia, garantisce una sana progenie, dona la pazienza, aumenta la durata della vita, po-tenzia la memoria e conferisce coraggio nei pensieri e nelle azioni.
Per accendere il fuoco sacro nel braciere si utilizza un bastone di le-gno e della legna della stessa durezza, che deve essere di banyan o pipal. La legna rappresenta la madre e il bastone utilizzato per ac-cendere è il padre. Agni1, il fuoco, è il figlio che quando nasce con-suma sia la madre sia il padre, che vengono ridotti in cenere. Ciò significa che il figlio diventa uno con loro ed essi diventano uno con il figlio. Tutti e tre sono legati in modo inscindibile. Infatti Gesù, il Figlio di Dio, dichiarò: “Io e il Padre Mio siamo Uno.” Anche la re-ligione Parsi ritiene che le massime ‘Io sono la Luce’ e ‘La Luce è in me’ siano la suprema verità.Lo Yajurveda attribuisce ad Agni un nome: ‘Tigre’! Se Agni viene trattato senza rispetto e fede, distrugge la persona stessa che lo ali-menta, proprio come la tigre squarcia i suoi stessi cuccioli con i suoi artigli mortali. Un’altra caratteristica di Agni è la sua presenza ovunque. Oggi gli scienziati si vantano d’aver compreso i segreti dei cinque elementi, ma ancora ignorano la relazione intima che in-tercorre fra questi, l’uomo e la sua vita. I saggi dell’antichità hanno invece indagato a fondo e hanno svelato questo mistero. Per esem-pio, di notte gli uccelli non riposano a terra ma preferiscono rifu-giarsi sugli alti rami degli alberi. Perché? I saggi veggenti del perio-do vedico sapevano che gli uccelli cercano di evitare il calore latente della terra, il quale è per loro ben percettibile. L’uomo non ne è con-sapevole, ma gli uccelli lo sanno. [3] Le regole comportamentali degli abitanti di questa terra, siano essi senzienti o meno, sono tutte in accordo con i Veda, i quali han-no compenetrato la natura degli individui in modo così profondo che nessuno può trasgredirle. Dall’alba al tramonto, tutte le loro at-
tività avvengono come prescritto dai Veda. In realtà, il vivere stesso è un vero sacrificio vedico, indipendentemente dal fatto che ne si sia consapevoli o no. Nello yajña2 che oggi viene celebrato qui, ogni mantra recitato e ogni offerta fatta devono essere pervasi dal sentimento di rinuncia e dal-la consapevolezza del Divino. Da una parte si eseguirà il saluto al Sole (sūryanamaskār), le prostrazioni rituali al Sole nascente; dall’al-tra si verserà l’offerta nel fuoco dedicata a Rudra; in un certo ango-lo, si eseguirà il vedapārāyaṇa, la lettura dei Veda; in un altro, l’ado-razione dei mille Śiva liṅga e l’adorazione della Madre Divina, men-tre i paṇḍit reciteranno gli inni del Bhāgavatam, del Rāmāyaṇa, ecc. Di tutti i preti che officiano il rito, il capo bramino è chiamato Brahma; uno di loro reciterà il Ṛgveda, un altro canterà inni del Sāmaveda e un terzo reciterà l’Yajurveda. Poiché l’Atharvaveda comprende l’essenza dei tre Veda, sarà recitato dal bramino desi-gnato come Brahma. Le Divinità glorificate nei Veda vengono invocate e invitate a river-sare la loro grazia su tutta l’umanità. Il capo bramino ha il compito di vigilare e rettificare eventuali errori o imperfezioni, di controllare che il fuoco sacrificale sia ben alimentato e venerato, ed è il respon-sabile dello svolgimento corretto di tutti i riti. [4] Nel fuoco sacrificale si cela un piccolo mistero che è bene svela-re, in modo che possiate comprendere come l’offerta dedicata alla Divinità invocata con i mantra recitati mentre l’offerta è deposta nel fuoco, possa raggiungere quella Divinità. Nello Yajurveda, le fiam-
me del fuoco sacro sono definite ‘le lingue di Dio.’ Quando si versa l’offerta nel fuoco, bisogna pronunciare il nome della Divinità e contemporaneamente il luogo in cui risiede: ciò è paragonabile alla ‘buca delle lettere.’ Se mettete nella cassetta delle lettere di Praśānti Nilayam una lettera ben indirizzata e affrancata, essa potrà rag-giungere qualsiasi destinazione, anche oltre oceano. L’indirizzo, pe-rò, deve essere corretto e preciso e il francobollo del giusto valore.Alcune persone si limitano a osservare solo l’esteriorità del rito, e criticano i bramini di sprecare il burro che versano nel fuoco mentre tanta gente è denutrita e soffre la fame; li accusano anche di sciupa-re stupidamente del denaro per fini non remunerativi. Persino per-sone istruite condividono una simile accusa ignorante. Il contadino prima ara il terreno, poi prepara i solchi, li irriga e, in-fine, semina quattro sacchi di sementi. Un uomo ignorante di agri-coltura lo deride dicendo: “Tu sei pazzo! Molti soffrono la fame e tu invece getti nel terreno dei semi che mangerebbero così volentieri!” Quell’uomo ‘pazzo’ però ricaverà da quei quattro sacchi di sementi quaranta sacchi di raccolto. Allo stesso modo, quando durante il ri-to si versano due vasi di burro chiarificato nel fuoco sacro, la gente ne otterrà poi duecento! Quello che è offerto a Dio non va mai perduto; tutti possono trarre enormi benefici anche offrendo solo piccole cose al Signore: se i do-ni sono offerti con devozione, basterà un frutto, un fiore o solo un po’ di acqua. Draupadī offrì a Śrī Kṛṣṇa un pezzetto di foglia che era rimasta attaccata all’interno di una pentola, e Dio le conferì una fortuna infinita. Kuchela offrì al Signore una manciata di riso fritto e secco e ottenne da Dio la consapevolezza della Sua Gloria infinita. I riti sacrificali (yajña) sono la prova evidente di tale profonda im-plicazione.
[5] Offrite amore e riceverete amore. Date e prenderete. Tuttavia, il sistema scolastico moderno attribuisce importanza solo all’acquisi-zione: ma questa è un’attitudine a senso unico! Infatti il ‘dare’ è vie-tato e del tutto assente. Il fatto è che se voi non guardate Dio, Dio non guarderà voi. Se mi guardate, la vostra forma comparirà nel Mio occhio e contemporaneamente la Mia forma apparirà nel vo-stro. Se, invece, non mi guardate ciò non potrà accadere. Pertanto, un’attitudine a senso unico non vi sarà d’aiuto. Il Ṛgveda recitato dal sommo sacerdote della cerimonia è composto da inni che onorano Dio. Un secondo sacerdote musica gli inni e li canta, mentre un terzo bramino ripete strofe dello Yajurveda. Tutti e tre propiziano solo l’Uno. Il Governatore Govind Narain ha citato nel suo discorso la massima vedica:
ekaṃ sat viprā bahudhā vadanti
La verità è una, i saggi ne parlano in modi diversi.
(Ṛgveda 1.164.46)
[L’Uno] è come un capo famiglia che sarà chiamato papà dal figlio, suocero dalla nuora, nonno dal nipote e marito dalla moglie. Nono-stante quattro persone distinte lo chiamino con nomi diversi, egli resta sempre il medesimo. Analogamente, gli asceti, i materialisti, i rinuncianti, gli afflitti, i promotori di ricchezza, gli aspiranti spiri-tuali e i realizzati usano nomi diversi per l’Uno senza secondo; ma sia che voi offriate ad Agni, il Dio Fuoco, o ad Āditya, il Dio Sole, la vostra offerta raggiungerà il medesimo Uno. [6] Sia i teisti sia gli atei, sia gli agnostici sia i politeisti si accostano a Dio con nomi diversi, ma in verità tutti si rivolgono solo all’Uno. In questo rito sacrificale si fanno offerte a varie Divinità, come Rudra, Varuṇa, Indra e Vayu, che sono rispettivamente il Distruttore co
smico, il Dio delle piogge, il Dio dei sensi e il Dio del vento. In pas-sato, i saggi visualizzarono il Signore in quelle forme. Dopo che il terreno è stato arato e seminato, si attende la pioggia che possa favorire una messe abbondante, perciò bisogna rivolgere la preghiera a Varuṇa e al luogo in cui risiede. Supponiamo, ad esempio, che qualcuno di voi abbia bisogno di parlare con Kasturi ma chiami invece Kutumba Rao, come pensate di riuscire a parlare con il primo? Se desiderate la pioggia dovete pregare Varuṇa e non Agni, che è il Dio Fuoco! Ciò significa che bisogna recitare il mantra adeguato alla circostanza, il quale deve però scaturire dal cuore. I saggi e i santi dell’antichità non erano degli ignoranti, e i riti e i mantra che hanno elaborato e prescritto non erano frutto di un sem-plice dilettantismo, bensì derivavano dalla loro saggezza ed espe-rienza diretta. Chi recita gli inni e i mantra ignorando questa verità lo fa in modo alquanto superficiale; invece, chi riflette sul loro signi-ficato e prova le emozioni di estasi e di supplica, ne trarrà grande gioia. Recitare i mantra senza averne compreso il significato può da-re una piccola soddisfazione superficiale, ma l’inno emergerà dal cuore solo se il suo vero significato è ben compreso. Il significato profondo del termine yajña è ‘rinuncia, sacrificio.’ Per chi si deve rinunciare? Per Dio. “Signore, il cuore che Tu mi hai do-nato, lo offro a Te.” Questo è spirito di rinuncia! Il cuore che ci ha donato, i sentimenti che ha evocato, la ricchezza conferita, la fama concessa, devono essere a Lui restituiti con gioia. In determinati riti sacrificali è prescritto che un animale, un cavallo o una pecora, debba essere sacrificato. Molti si domandano se ciò non costituisca un atto crudele. Si afferma che le Scritture che si occupano dei riti sacrificali siano paragonabili ad araṇya, alla ‘giungla’, infatti sono dette āraṇyaka. I
termini utilizzati nelle Scritture hanno numerosi significati ed è as-sai arduo risalire al significato corretto e quindi preferirlo a quello sbagliato e ingannevole. Per esempio, il sacrificio del cavallo è detto aśvamedha3 che però non implica l’uccisione rituale di un cavallo. Il termine ‘aśva’ indica una qualità tipica del cavallo che è sempre irrequieto e che, simbolicamente, rappresenta la mente che è agitata sia durante lo stato di veglia sia durante lo stato di sogno. Il cavallo non riesce mai a essere calmo e quieto; infatti, le sue gambe, la coda e le orecchie non stanno mai ferme. Anche le foglie dell’albero di banyan sono sempre ondeggianti, che ci sia vento o no, e per tale motivo la pianta è chiamata anch’essa ‘aśvattha’ (ficus religiosa, det-to anche Pippala o Pipal).Il sacrificio vivamente raccomandato, dunque, è quello della mente caparbia e capricciosa che va offerta a Dio così che possa placarsi e stabilizzarsi; non significa certo sacrificare un animale vivo e ucci-derlo. Questo vuol dire seguire il significato letterale esteriore del-l’ingiunzione, senza tener conto dell’importante significato interio-re. Riflettete quindi sugli aforismi vedici e osservate le ingiunzioni delle Scritture, animati da una concentrazione pura, altruistica e gioiosa. Custodite quei sacri precetti nel cuore, praticateli nella vita quotidiana e condivideteli con altre anime ferventi.
Inaugurazione del Veda puruṣa saptāha jñāna yajña,
Praśānti Nilayam, 21.10.1982