26 ottobre 1981 – L’uomo e il demone

26 ottobre 1981

Discorso Divino di Bhagavan Sri Sathya Sai Baba

L’uomo e il demone

[1] Il contadino, occupato nel lavoro dei campi, dimentica persino il cibo e il sonno perché è troppo impegnato ad arare, livellare, semi-nare, innaffiare, sarchiare e proteggere la semina; sa che la sua fa-miglia dovrà sostentarsi con il raccolto che porterà a casa, ma se spreca una stagione così preziosa in occupazioni futili, i suoi fami-liari dovranno patire la fame e una salute precaria. Così abbandona o pospone gli altri interessi per dedicarsi unicamente al lavoro agri-colo. Il contadino affronta le difficoltà e le privazioni, fatica giorno e not-te, vigila sulle messi nascenti e le raccoglie poiché sa che ciò gli con-sentirà di trascorrere lietamente i mesi futuri con la sua famiglia. Gli studenti e gli aspiranti spirituali devono apprendere questa le-zione dal contadino. La gioventù è il periodo di crescita mentale e intellettuale, perciò quegli anni devono essere coltivati intensamen-te e con intelligenza; una volta persi, non potranno più essere recu-perati. È essenziale decidere di usarli per il proprio progresso, a di-spetto di ogni difficoltà. Gli ostacoli vanno superati, bisogna controllare i richiami impetuosi dei sensi, della fame e della sete, e vincere lo stimolo del sonno e
dell’indolenza. Lo scopo, infatti, è raggiungere la Meta. Chi spreca questi anni preziosi per rincorrere piaceri insignificanti, pettegolez-zi futili, banchetti e feste, pigrizia e sonno, è inadatto a ricevere e a custodire la conoscenza spirituale, ovvero il frutto del raccolto. Per questa ragione, in epoche remote, i Saggi abbandonavano casa e famiglia per ritirarsi in eremitaggi nella foresta e ottenere la grazia divina. Senza uno sforzo mirato a raggiungere l’obiettivo, il succes-so non potrà mai essere conseguito. La pigrizia è un demone che possiede l’uomo e lo indebolisce, il cui fratello si chiama ‘presunzione.’ Quando entrambi si uniscono per dominare l’individuo (nara), quest’ultimo si trasforma in demone (naraka). Un individuo può diventare un demone o Dio oppure re-stare uomo. Il fratello di Devakī1 era un demone di nome Kaṁsa; il figlio di Devakī, nipote quindi del demone, era il Signore incarnato: Śrī Kṛṣṇa! [2] Nel corso della sua vita, l’uomo acquisisce tre tipi di visione: la prima è la visione attraverso l’occhio dell’ignoranza (ajñāna dṛṣṭi) che gli consente di vedere solo il proprio corpo e le sue necessità, i suoi parenti e la loro sorte, la classe sociale, la casta, la comunità cui appartiene, la religione e i suoi valori. La seconda visione va oltre queste considerazioni e presta attenzio-ne solo alle virtù e al carattere. L’occhio che vede solo il bene in tut-ti, senza tener conto delle relazioni personali, è detto jñāna dṛṣṭi, l’occhio della saggezza.

La terza visione è vijñāna dṛṣṭi, la Suprema Saggezza Universale, l’occhio dell’Amore Divino, che vede l’intero cosmo come Corpo del Dio Vivente. Al di là di quest’ultimo stadio c’è la completa unione con Dio. L’uomo cerca di conoscere il mistero della creazio-ne, ma esso è qualcosa di unico e indecifrabile, e le capacità umane non sono in grado di sondarlo né di capirlo. Il motivo e il perché del Gioco Divino sono noti solo a Dio; il compito dell’uomo è solo di gioirne e di beneficiarne. Gli esseri umani vengono al mondo e vi vivono fino alla morte. Un cadavere non può essere contattato in alcun luogo o momento; tut-tavia, anche dopo la morte, una persona può essere conosciuta in due modi: attraverso le azioni nobili che ha compiuto mentre era in vita o attraverso i suoi atti ignobili. Rāma è diventato immortale quale Incarnazione della Rettitudine, mentre Rāvaṇa2 ha trovato posto nella memoria dell’umanità come simbolo della malvagità demoniaca. [3] Oggi si celebra la ricorrenza di naraka caturdaśī, che invita ogni individuo a ricordare che il carattere decide il suo destino, determi-na i suoi conseguimenti e indica se un uomo è divino oppure de-moniaco. Naraka, che dà il nome alla festività odierna, era un essere umano, ma divenne un demone e ottenne l’appellativo significativo di Narakāsura3; alla fine, a causa delle sue qualità malvagie si avviò verso l’inferno (naraka).

Egli era un re che con i suoi ammonimenti e con i suoi ordini aveva reso i sudditi simili a lui per malvagità, tanto che si erano lasciati contaminare dal vizio e dalla violenza. Pertanto il Signore decise di eliminare Narakāsura e di salvare il popolo dalla rovina, guidando-lo verso il sentiero sattvico dell’umiltà e della bontà. Ora dovete prestare attenzione alla strana strategia adottata dal Si-gnore. Egli invase il regno di Narakāsura non una volta, ma a più riprese. Naturalmente Egli avrebbe potuto distruggere i demoni (asura) fin dalla prima invasione, ma così non fu. Ogni volta co-stringeva Narakāsura a esplodere di collera e ogni scoppio d’ira lo rendeva sempre più vulnerabile, tanto che la sua resistenza divenne sempre più debole. Gli effetti della collera sono debilitanti: i nervi s’indeboliscono, il sangue si riscalda e la sua composizione si trasforma. Un solo scop-pio d’ira riesce a consumare le riserve d’energia accumulate con tre mesi di cibo! La collera riduce drasticamente il vigore. Il Signore fece ripetutamente avvampare di rabbia Narakāsura e, quando il demone era ormai vacillante e stremato, Kṛṣṇa decise che non meritava di morire per mano Sua, così portò con sé la Sua spo-sa e le ordinò di ucciderlo; Satyabhāmā ci riuscì facilmente poiché i tre quarti della forza del demone gli erano stati sottratti grazie alla strategia adottata dal Signore Kṛṣṇa. La capitale del regno di Narakāsura si chiamava prāk jyotiṣpuram. Questo nome è molto significativo: prāk vuole dire antecedente, an-teriore, mentre jyoti significa luce; quindi prāk jyotiṣpuram indica: ‘la città che un tempo era stata piena di luce’, vale a dire che la città ri-splendeva di saggezza spirituale finché Naraka non salì al trono. [4] Oggi si commemora la distruzione di tale figura demoniaca, e ciò significa che oggi viene eliminata l’oscurità dell’ignoranza, e la

non-consapevolezza del Sé scompare dal cuore dell’uomo. La pre-ghiera recita: ‘Dall’oscurità conducimi alla luce’, ma l’oscurità non ha un luogo proprio, e dove rifulge la luce della consapevolezza at-mica, i cattivi pensieri, le parole e le azioni malvagie fuggono spa-ventati; coltivate quindi la saggezza che vi permetterà di conoscere la vostra Realtà. Molti però ignorano l’insegnamento profondo che questa ricorrenza vuole trasmettere, e ricordano solo la battaglia avvenuta tra la regina Satyabhāmā e il demone. Ecco un altro punto: oggi, da un solo lume vengono accese migliaia di luci; infatti, si possono accendere molte candele con la fiamma di un’unica candela, ma ricordate che solo una candela accesa può ac-cenderne altre, mentre un lume spento non può accendere nulla. Solo chi ha raggiunto la Saggezza può illuminare chi è nell’ignoran-za; chi non è illuminato non può diffondere la luce a chi vive nel-l’ignoranza dell’illusione. Dovete accendere la vostra lampada at-tingendo alla luce universale dell’Amore, e poi potrete trasmettere quella luce a coloro che la cercano e si sforzano di raggiungerla. Tutte le lampade risplendono allo stesso modo perché sono scintille di paramjyoti, la suprema Luce Universale che è Dio. Le lampade sono molte, ma la luce è una. Tutte le pozzanghere d’acqua per terra riflettono il sole, ma il sole originale è uno. Proprio come il sole si riflette in milioni di brocche colme d’acqua, di laghi, pozzi e serbatoi, così paramjyoti, la Luce Universale, rifulge come saggezza in milioni di cuori. Quando l’acqua presente nelle brocche o in altri recipienti evapora, anche l’immagine del sole scompare, ma il sole non ne viene minimamente toccato. Allo stesso modo, l’ātma appare nel corpo, il recipiente che contiene ‘l’acqua’ dei desideri. Quando l’individuo cessa d’identificarsi con il corpo e, di conseguenza, i suoi desideri si asciugano e si seccano,

l’immagine dell’ātma si fonde nel vero Sé. In tal modo il Compi-mento Eterno si realizza. [5] Ecco la disciplina spirituale che dovete intraprendere oggi: di-venite consapevoli che l’ātma che appare nei diversi ‘contenitori’ non è che il riflesso dell’Uno o paramātma (Sé Supremo). Purtroppo l’Uno è frainteso perché erroneamente si ritiene che sia i molti! L’er-rore sta nel dare eccessiva importanza ai desideri insignificanti del piccolo sé. Infatti, come può chi è legato al sé inferiore volgersi al Sé Supremo? Solo il distacco può portare alla consapevolezza del Sé immortale: questo è il prezzo che l’individuo deve pagare per ricevere tale ri-compensa. Rinunciate e otterrete: ecco la regola della Legge Divina! [6] Se desiderate bere del succo di frutta da un bicchiere che contie-ne acqua, dovrete svuotarlo per poi riempirlo di succo. Dice una canzone popolare: “Come possono dei pensieri puliti trovar posto in una testa piena di porcherie? Potrete riempirla di pensieri buoni solo dopo averla ripulita.” Il cervello immagazzina milioni di pensieri, di cui solo alcuni sono utili e di valore. A causa dell’acquisizione indiscriminata di pensieri è difficile concentrarsi su un obiettivo benefico. Molti vengono da Me e lamentano: “Svāmī, medito da dieci anni ma non ho avuto la visione di Dio neppure per un secondo!” Allora Io domando loro: “Ma su cosa hai meditato in tutti questi anni? Se la tua mente con-templa ogni sorta di cose futili e inutili, come può Dio trovarvi po-sto? Inoltre, hai coltivato l’amore? Hai sviluppato la compassione? Questi sono i templi in cui Dio si compiace di dimorare. Invece tu hai incrementato il tuo egoismo, così la visione di Dio diventa per te irraggiungibile.”

Gopala Rao ha appena raccontato di aver rinunciato a uno dei suoi piatti preferiti mentre si trovava a Kāśi [la città di Benares], e a un’al-tra golosità quando si era recato in pellegrinaggio a Gaya. Tuttavia, rinunciare ai piatti preferiti in un luogo sacro non è certo un sacrifi-cio encomiabile. Quando visita un luogo sacro, il pellegrino deve rinunciare alle sue cattive abitudini e tendenze: solo così il pellegri-naggio sarà stato utile e benefico. Anche questa festività, legata all’uccisione del demone Naraka, v’invita a rinunciare al più dannoso dei vizi: l’egoismo o ahaṁkāra. Il termine ahaṁkāra vuol dire affermare l’io considerandolo il fulcro di potere, autorità, forza e ricchezza; non indica la consapevolezza dell’io come jīva o come brahman, ma indica l’errata identificazione ‘io sono il corpo’. [7] ‘Tu sei Quello’, ‘Io sono l’ātma’: dovete realizzare questa verità per liberarvi del senso dell’ego o ahaṁkāra. La sensazione ‘io sono il corpo’ spesso persiste sino alla morte, perciò deve essere superata per mezzo di una continua disciplina spirituale. Il corpo è un abito che avete indossato e non dovete lamentarvi se, dopo essere stato indossato a lungo, si disintegra. La morte è un fatto inevitabile della vita, perciò siatene sempre consapevoli. Finché siete al mondo, impegnatevi nell’azione e attraversate il lago finché la barca è integra. Riempite le cisterne quando piove per po-ter irrigare i campi in tempo di siccità. Praticate un’intensa disciplina spirituale ora, mentre siete giovani e forti, in modo da poter vivere la vostra vita gioiosamente e in pace. Molti rimandano gli esercizi spirituali alla vecchiaia, quando spera-no di ritirarsi dall’attività lavorativa ma, una volta pensionati, le vostre membra saranno troppo stanche per lavorare con efficienza.

Usate in modo proficuo l’attuale periodo della vostra vita, non sprecate ore in cose irrilevanti o irriverenti, e non compiacetevi di condannare gli altri o voi stessi. Le festività sacre devono essere ri-servate all’introspezione e al miglioramento di sé stessi. In questo giorno di dīpāvalī4, la gente ha l’abitudine di indossare abiti nuovi: ebbene, fate in modo che anche il vostro cuore possa gioire, abbigliato di ideali, sentimenti e propositi nuovi. Da oggi, gustate tale dolcezza e trasformate la vostra vita in una dolce canzone d’amore.

Praśānti Nilayam, 26.10.1981