21 Maggio 1973
Discorso Divino di Bhagavan Sri Sathya Sai Baba
La scala e i suoi gradini
[1] L’India è stata la culla di molti eroi che si sono avventurati nei
reami dello spirito e hanno riportato la vittoria contro le forze del
male; essi hanno aperto le vie verso Dio che sono descritte nei testi
del sanātana dharma, l’eterna Legge universale.
L’India è la sacra terra da cui è sorta la voce dei Veda per risuonare
in tutto il mondo; è la terra che ancora custodisce lo splendore
dello yoga e la gloria della rinuncia. Ma oggi ogni indiano deve
chiedersi se sia consapevole di questo fatto e se, con i suoi pensieri,
parole e azioni, contribuisca a promuovere quella gloria e quello
splendore.
In realtà, bisogna ammettere che oggi la gloria è offuscata e lo
splendore si sta smorzando velocemente. Il gāyatrī mantra, che
viene consigliato a tutti perché è il mantra vedico essenziale, è diventato
un rito in cui si mormorano suoni incomprensibili. Il controllo
del respiro (prāṇāyāma) e la sua evoluzione, cioè il ritiro dell’attenzione
nella coscienza interiore (pratyāhāra) si trovano ormai
solo nei dizionari. Yama (controllo dei sensi interni) e niyama (controllo
dei sensi esterni), che sono i primi gradini della disciplina
spirituale, non vengono praticati neppure da chi pretende di insegnare
e di essere una guida. I membri degli ordini monastici, che
hanno fatto voto di distaccarsi completamente da ogni attaccamento
al mondo, si agitano come spiritati per accumulare e investire
denaro ancor più freneticamente dei laici. C’è da domandarsi
se questa sia la stessa terra di cui si parla, quella che tenne alti gli
ideali dello spirito!
[2] Dopo il ritorno di Kṛṣṇa alla Sua dimora, al termine del Suo
periodo d’Incarnazione, l’era di kali1 oscurò il mondo. In seguito,
molti santi e saggi tentarono di ricordare alla popolazione il suo
retaggio e di guidarla lungo gli antichi sentieri. Tra questi, il maggior
esponente fu Śaṅkara2, il quale comprese i punti deboli dell’interpretazione
dualistica dell’universo e la necessità di una filosofia
unificante.
Egli nacque nel villaggio di Kāladi, nello Stato del Kerala. Iniziato
al gāyatrī mantra a cinque anni, acquisì presto la padronanza dei
Veda e dei testi supplementari di grammatica, logica, prosodia,
astrologia, ecc.; all’età di quattordici anni intraprese con coraggio
la sua missione di contrastare le forze del dubbio, del dissenso, del
diniego e di consolidare nel Paese la fede, la saggezza e la devozione.
Egli incontrò numerosi studiosi di riconosciuta abilità dialettica
e li convinse della validità del principio non-dualistico del
mondo oggettivo e soggettivo. Scrisse commentari alle Upaniṣad,
alla Bhagavad Gītā e al Brahma Sūtra, generalmente accettati co-
me i testi fondamentali della fede indù, e dedicò la sua breve vita
di trentadue anni a rivitalizzare il sanātana dharma, l’eterna Legge
universale.
[3] Quando Śaṅkara risiedeva a Varanasi (Benares), dove spesso
andava lungo le sponde del Gange con i suoi allievi, era solito
rendere visita ai paṇḍit per indurli a partecipare a proficue discussioni
su determinati temi filosofici. Un giorno, recatosi da un
paṇḍit, lo trovò immerso in complicate regole grammaticali; alla
domanda perché avesse intrapreso uno studio così complesso, il
paṇḍit rispose che ne avrebbe ricavato qualche pezzo d’argento e
aggiunse: “Se vengo riconosciuto come paṇḍit, posso presentarmi
presso qualche importante feudatario nella speranza di ricevere
delle elargizioni con cui mantenere la mia numerosa famiglia.”
Śaṅkara gli diede dei buoni consigli e lo incitò a coltivare il coraggio
e la fiducia in sé. Tornato poi al suo romitaggio, Śaṅkara scrisse
alcuni versi nei quali riassunse il suggerimento che aveva dato
a quel povero bramino alle prese con gli obblighi del capofamiglia.
bhaja govindam, bhaja govindam
govindam bhaja mūda māte
samprāpte sannihite kale
nahi nahi rakṣati dukṛnkaraṇe
Oh stolto! Canta il Nome di Govinda!
Le regole della grammatica
non verranno in tuo soccorso,
quando la fine si avvicinerà.
[4] Śaṅkara invitò quindi i suoi allievi a diffondere l’ideale espresso
da tali versi, così essi concepirono versi nuovi seguendo la stessa
falsariga del Maestro, e ognuno dei quattordici allievi aggiunse
una strofa. Dal canto suo, Śaṅkara ne introdusse altri dodici più
quattro sulla trasformazione che tale insegnamento avrebbe determinato.
Così, complessivamente furono formulati trentuno versi,
e tale composizione è nota con il nome ‘bhaja govindam’ o ‘moha
mudgaram’; quest’ultimo titolo significa ‘L’arma con cui si può
vincere l’illusione’. Ogni verso è un gradino della scala che innalza
l’uomo a Dio.
Lo studio di questi versi e l’ispirazione che ne deriva promuovono
la discriminazione e il distacco, e preparano così la mente alla visione
del Supremo. Dovete essere iniziati a queste discipline proprio
ora che siete giovani, mentre cominciate ad addentrarvi nell’avventura
della vita; pertanto, durante questo Corso Estivo, ho
deciso d’illustrarvi un verso al giorno.
[5] Śaṅkara rivolse questi versi al ‘mūda māthi’, cioè ‘allo stolto’.
Ma chi sono gli stolti? Egli ha dato la risposta in un altro contesto:
‘nāstiko mūda ucyate’, ‘Coloro che negano l’ātma sono stolti’. Pochi
davvero sono quelli che credono e affermano: “Non sono questo
corpo deperibile né il debole intelletto; io sono l’immortale, eterno,
onnisciente, onnicomprensivo ātma.” La grande maggioranza
crede e afferma: “Io sono l’artefice del mio destino, il capitano della
mia nave; scelgo quello che mi piace e non mi piace e soddisfo i
miei desideri mediante i miei sforzi.” Questi sono gli stolti!
Eppure anche questa grande maggioranza, nella vita quotidiana,
paga le tasse per il consumo dell’acqua e dell’elettricità, per le case
che occupa e per la professione che svolge. Ma che tasse paga a
Colui che fornisce loro gli elementi indispensabili alla vita, cioè il
sole, la luna, il fuoco, l’acqua, l’aria, lo spazio, ecc.? Quelli che non
riconoscono il Donatore, il Dispensatore, il Principio, la Persona,
ebbene quelli sono folli e insensati.
[6] Gli scienziati sanno pesare, misurare e analizzare i materiali
che già esistono; possono escogitare forme inedite combinando e
trasformando la materia esistente, ma non riescono a creare dal
nulla l’ossigeno, l’idrogeno né qualsiasi altra cosa, perché questo
avviene soltanto per Volontà divina.
Se la materia non è inizialmente disponibile, gli scienziati non riescono
a elaborare o a trattare alcun materiale poiché sono incapaci
di operare nella sfera che trascende gli elementi, cioè al di là di
terra, acqua, fuoco, aria e spazio, ovvero al di fuori della materia
oggetto dei sensi. Le loro attività sono limitate alla natura, che è
solo una manifestazione parziale del Divino.
La poesia con la quale Śaṅkara compose il moha mudgaram parla
del momento in cui si avvicina la fine della vita; di tutte le paure
umane, la paura della morte è la più intensa ma anche la più stupida,
perché nessuno può sfuggire alla morte dopo avere commesso
l’errore di nascere. Per liberarsi del ciclo delle nascite e delle
morti, l’unico metodo disponibile all’uomo è la consapevolezza
del Sé immortale, non-nato, che costituisce la sua Realtà.
Pertanto, Śaṅkara invita gli uomini a pregare Govinda; si riferisce
a Dio con il nome Govinda che significa ‘mandriano’. L’uomo è un
essere sia animale sia divino; si è innalzato dal livello animale e
ora si appresta a rivelare la sua divinità, perciò deve stare ben attento
a non scivolare indietro nuovamente nello stato animale. Solo
l’uomo può elevarsi fino al Divino, poiché è dotato dei talenti
necessari a raggiungere quel traguardo.
Bṛndavan, 21.05.1973