[1] Mi è stato detto che siete dei sādhaka, degli aspiranti spirituali, perciò vi dirò qualcosa su sādhanā, la disciplina spirituale. Bene, cos’è fondamentalmente questa disciplina? È upavāsam, upāsana. Upa significa ‘vicino’, āsana vuol dire ‘sedersi’ e vāsam ‘risiedere’. Ci sediamo vicino a qualcosa di freddo per sentirci più freschi; sediamo vicino a Dio per trarne qualità divine e liberarci di certi tratti malvagi. Dio non è un marchingegno esteriore, un’utile apparecchiatura come un condizionatore d’aria; Egli è Antaryāmin, il Residente interiore, la suprema Realtà, la base invisibile su cui si regge tutto l’universo visibile. È come il fuoco latente nel legno che si manifesta sfregando vigorosamente due pezzi l’uno contro l’altro; il calore che si sprigiona consuma il legno nel fuoco. Il Satsang, la compagnia dei buoni e dei virtuosi, vi porta ad incontrare altre anime affini e crea il contatto che manifesta il fuoco interiore. Satsang significa incontrare Sat, il Sat cui ci si riferisce nel venerare Dio come Sat-Cit-Ānanda. Sat è il Principio dell’Essere, ciò che È, la Verità fondamentale dell’universo. Sintonizzatevi con Satya, la Verità, il Sat che è in voi, la Realtà assoluta su cui la mente non illuminata sovrappone la realtà apparente di Mithyā. Concentrandovi su Sat, la fiamma si accende, la luce albeggia, l’oscurità svanisce e sorge il sole della conoscenza e della saggezza.
[2] Per attingere l’acqua pura e perenne dalla falda profonda occorre trivellare oltre lo strato roccioso; più teneri sono gli strati sotterranei, prima si vedrà il risultato. Intenerite il cuore e otterrete un rapido successo nella disciplina. Parlate dolcemente, amabilmente, parlate solo di Dio; questo è il modo per ammorbidire il sottosuolo. Sviluppate la compassione, impegnatevi nel servizio, comprendete la sofferenza della povertà, della malattia, dell’angoscia e della disperazione, condividete le lacrime e la gioia altrui; ecco il modo per intenerire il cuore e facilitare il successo della disciplina spirituale. Il Satsang è come dissetarsi con acqua purissima; frequentare persone malvagie ed impure è come bere acqua salmastra: fa aumentare la sete e non c’è zucchero che possa renderla gradevole.
[3] Nella Gītā, Krishna è detto Yogīshvara, il Signore degli Yogi. Cosa significa? Patañjali definisce lo Yoga ‘Citta vritti nirodhah’ ‘Estinzione dei moti della coscienza’. Se la mente è ferma, esente dalle perturbazioni prodotte dalle folate del desiderio, l’uomo diventa uno Yogi ed il Signore è il sommo tra gli Yogi, poiché Egli è l’oceano che non è turbato dalle onde che agitano la superficie. Si narra che Krishna danzò sulla testa del serpente Kaliya e lo costrinse a vomitare il suo veleno; è solo un altro modo per dire che Egli obbligò i desideri sensoriali ad abbandonare i loro perniciosi effetti. Questa disciplina è il mezzo migliore per raggiungere Yogīshvara, il Signore degli Yogi; la ricetta non prescrive il controllo del respiro, bensì il controllo dei sensi.
[4] Trascendete la coscienza dei molti e coltivate la coscienza dell’Uno, così avrà termine il conflitto, il dolore, la pena, l’orgoglio. Vedete tutti come espressioni dello stesso Dio, come apparizioni sullo stesso schermo, come lampadine accese con la stessa corrente, sebbene di diverso colore e potenza. Considerate che tutti voi siete in grado di parlare, camminare, pensare ed agire per effetto del Dio interiore. Le differenze che vi colpiscono quando posate lo sguardo sono illusorie; non avete ancora sviluppato la visione che vi fa percepire l’unità che è la verità di tutta quest’apparente diversità, ecco tutto! L’errore è in voi, non nel mondo. Il mondo è Uno, ma ognuno gli attribuisce il significato che più gli aggrada. Il mondo è Uno, ma ognuno lo vede dal proprio punto di vista e così sembra che abbia molte sfaccettature.
[5] Il japamālā v’insegna l’Unità sebbene abbia 108 grani. Se i grani sono di cristallo, potrete vedere il filo che attraversa ciascun grano, ovvero la Realtà interiore a cui tutto è legato. Se i grani non sono trasparenti, comunque sapete che c’è un filo che li attraversa, li tiene uniti e che è la base della corona. Perché 108 grani? 108 è il prodotto di 12 x 9. Dodici è il numero degli Āditya, i Luminari che rendono manifesto il mondo oggettivo, ovvero il mondo dei nomi e delle forme, della molteplicità, della varietà apparente e delle immagini effimere, e che simboleggiano l’aspetto di Dio dotato di forma (Sākāra). Nove è lo schermo sul quale le immagini appaiono, la base, la corda che nel buio vi sembra un serpente, il Brahman, l’Innominato, privo di forma, Eterno, Assoluto. Nove è il numero del Brahman perché porta sempre a nove, è immutabile; per qual si voglia numero lo si moltiplichi, la somma delle cifre del risultato è sempre nove. Dunque, mentre fate scorrere i grani del rosario, riflettete sul fatto che nel mondo c’è sia la verità sia la finzione; quest’ultima attrae, distrae, si diletta nell’ingannarvi e vi dirotta su strade sbagliate; la verità, invece, vi libera! Parliamo ora dei grani. Prima di tutto dovete conoscere il simbolismo delle dita. Il pollice rappresenta il Brahman Eterno, Assoluto, Immanente. L’indice, il dito che punta verso questo e quello, che indica voi e gli altri, rappresenta il Jīvi, l’anima individuale, che si sente separato e distinto. Quando queste due dita si uniscono alla punta e mantengono quella posizione, formano il Jñāna mudrā, il gesto della saggezza o gnosi, e significa che il Jīvi diventa Uno con il Brahman: è l’immergersi di ‘quello’ che credeva di essere emerso. Le altre tre dita rappresentano Prakriti, il mondo oggettivo che viene negato quando l’unione è raggiunta; esse simboleggiano i tre guna che con la loro interazione creano il mondo fenomenico. Reggete il rosario sul dito medio tenendo le tre dita dei guna unite. Questo significa che state trascendendo il mondo delle qualità e degli attributi, del nome e della forma, della molteplicità che è la conseguenza di tutta questa mutazione, e che state procedendo verso la conoscenza dell’Unità. Il dito del Jīvi (l’indice) fa lentamente scivolare ogni grano verso il pollice (Brahman) toccandone la punta appena il grano passa, in modo che la fusione venga convalidata ad ogni grano e ad ogni respiro perché, mentre le dita apprendono ed insegnano la lezione, anche la lingua ripete il mantra o il Nome e l’OM.
[6] Il rosario è utile per i principianti ma, progredendo, la recitazione del Nome deve diventare il respiro vero della vostra vita, quindi far scorrere il rosario diverrà un esercizio superfluo nel quale non troverete più alcun interesse. Sarvadā sarva kāleshu sarvatra Hari cintanam Ovunque e sempre meditate sul Signore. Tale è la condizione alla quale il rosario deve condurvi, tuttavia non dovete sentirvi legati al rosario per sempre perché è solo un mezzo per aiutare la concentrazione e la contemplazione sistematica. Il salvagente verrà eliminato quando avrete imparato a nuotare, come pure le stampelle quando riuscirete a camminare. All’inizio, mantenete con regolarità gli orari nei quali vi dedicate alla ripetizione del Nome divino. La domenica, quando non dovete pensare all’ufficio o a fare la spesa, riservate più tempo alla recitazione del Nome fino alle nove del mattino. Fatelo con amore ed entusiasmo; dovrebbe diventare naturale farlo sempre così. Certamente la grazia del Maestro spirituale è di grande aiuto. Vivekānanda, più libri leggeva, più regrediva nell’ateismo e nell’agnosticismo, ma un tocco della mano di Rāmakrishna Paramahamsa lo trasformò completamente. Anche voi potrete conquistare questa grazia con lo sforzo e con la fervente preghiera.
[7] Prima d’iniziare la meditazione, recitate So-ham, inspirando con So ed espirando con Ham. So-ham significa ‘Io sono Quello’, vi identifica con l’Infinito ed espande la vostra coscienza. Armonizzate il respiro e il pensiero; respirate tranquillamente, naturalmente, non in modo artificiale e forzato. Il respiro deve fluire lieve e silenzioso; se avete della farina sul palmo della mano e la tenete davanti alle narici, il respiro deve essere così leggero che non ne deve volare via nemmeno un granello! Più veloce sarà il respiro, prima vi consumerete, più breve sarà la vostra vita! Il respiro lento placa le emozioni. Lo stato di quiete indotto dalla ripetizione di So-ham determina una condizione favorevole per una proficua sessione di meditazione. Occorrono però anche altre cose per ottenere tale stato di calma: non abbiate tormento né odio nella mente, sviluppate amore verso tutti. Il desiderio è una tempesta, l’avidità è un vortice, l’orgoglio è un precipizio, l’attaccamento è una valanga, l’egoismo è un vulcano. Tenete alla larga tutto ciò in modo che, quando vi dedichiate alla preghiera o alla meditazione, la vostra equanimità non ne sia turbata. Insediate l’amore sul trono del vostro cuore; allora lo splendore del sole, la fresca brezza e le gorgoglianti acque della soddisfazione alimenteranno le radici della fede.
Bombay, Dharmakshetra, 10.05.1969