Incarnazioni dell’Amore!
Il Ramayana Saptaha (la festività della durata di sette giorni in cui si ripete il Nome di Rama) è stato tenuto con grande gioia e devozione negli ultimi sette giorni. Voi tutti avete partecipato a questo grande evento. I sacerdoti (Purohit), che lo hanno condotto con grande devozione e sincerità e gli oratori provenienti dalle diverse zone che vi hanno partecipato, hanno fatto di questo evento un grande successo. Setty Garu, che ha organizzato questa funzione, ha curato l’accoglienza sia dei sacerdoti che dei devoti, rendendo tutti felici.
Importanza del Ramachinthana
La contemplazione costante del Ramayana ed il canto della Gloria del Nome Divino di Rama conferiscono beatitudine, pace e prosperità a tutti. Ci sono due modi di contemplare il Nome Divino e di cantarNe la Gloria: la sadhana individuale e quella collettiva. Delle due, la migliore è quella collettiva. Fu Guru Nanak a dare inizio alla pratica del canto di gruppo della Gloria del Nome Divino; infatti il canto individuale del Nome Divino non è sufficiente. Quando migliaia di persone si riuniscono cantando all’unisono il Nome, le preghiere di almeno uno o due individui certamente commuoveranno la Divinità; pertanto è meglio seguire il metodo collettivo. Ovunque siate, è meglio che seguiate il metodo collettivo; ovunque vi troviate, è meglio cantare la Gloria del Nome di Rama in gruppo. Contemplare il Nome di Rama (Ramanama) conferisce pace e felicità, è una sadhana universale. Il Nome ‘Rama’ non è limitato ad una forma particolare; esso dimora in ogni individuo come ‘Atma Rama’. All’ Atma che dimora in tutti gli esseri viene dato il Nome Rama. Pertanto tutti, dal bambino all’adulto, devono intraprendere la sadhana della contemplazione costante del Nome di Rama (Ramanama). Vediamo spesso persino delle persone non vedenti che contemplano il Ramanama, dicendo ‘Rama, Rama’!. Solo il Nome Divino può conferire pace e felicità; nient’altro, nemmeno la ricchezza e le proprietà, possono portare pace e felicità. La costante contemplazione del Nome Divino può rimuovere tutte e preoccupazioni.
“Nascere è una preoccupazione, vivere su questa terra è una preoccupazione,
il mondo è fonte di preoccupazione;
anche la morte è una preoccupazione, tutte le azioni e le difficoltà causano preoccupazione.
La devozione per Sri Rama è la panacea per tutte le preoccupazioni.”
Quindi, intraprendete la contemplazione del Nome Divino di Rama (Ramachinthana) ogniqualvolta vi sentite oppressi dalle difficoltà. Il Ramanama è nei cuori da eoni.
Le sacre vicende del Ramayana
Nel Threta Yuga il re Dasaratha di Ayodhya desiderava ardentemente che i suoi figli potessero continuare la dinastia Ikshvaku. Per questo motivo officiò uno yajna chiamato ‘Puthra Kameshtiyaga’, pregando di venir benedetto dalla nascita di un figlio. Il Re Dasaratha aveva tre mogli: Kausalya, Sumithra e Kaikeyi. Aveva anche una figlia di nome Shanta, avuta antecedentemente da Kausalya, che egli aveva dato in adozione ad un suo amico. Questa sposò il Saggio Rishyasringa. Lo yaga Puthra Kameshti venne condotto sotto la guida di questa coppia. Dopo la conclusione dello yaga, Agni Deva, il Dio del Fuoco, emerse dal sacro homakunda (l’altare del fuoco) con una coppa che conteneva un budino sacro (Payasam) che dette a Dasaratha affinché lo distribuisse equamente fra le sue tre mogli. Kausalya e Kaikeyi ricevettero felici la loro parte e la portarono nella puja delle rispettive stanze. Entrambe erano molto contente (nella convinzione) che il proprio figlio sarebbe stato l’erede al trono di Ayodhya. Le pretese di ambedue erano legittime in quanto Kausalya era la regina più anziana ma il padre di Kaikeyi, al tempo del matrimonio della figlia con il Re Dasaratha, aveva strappato a questi la promessa che il figlio di lei sarebbe diventato Re di Ayodhya. Dasaratha, secondo la tradizione della famiglia Ikshvaku, non poteva contravvenire alla parola data. Invece Sumithra non aveva un tale desiderio. Ella portò il suo budino sulla terrazza e lo appoggiò sul parapetto mentre si asciugava i capelli al sole. Era pensosa e rifletteva sul fatto che mangiare il budino non le sarebbe servito a niente, dato che comunque il suo futuro figlio non avrebbe potuto avanzare alcuna pretesa al trono come (quelli di) Kausalya e Kaikeyi. Mentre stava ragionando sull’avvenire, un’aquila scese in picchiata e portò via la coppa contenente il budino sacro. Sumithra rimase scioccata e turbata dall’episodio e, temendo il rimprovero del marito per essere stata così imprudente, corse giù immediatamente ed informò Kausalya e Kaikeyi dell’accaduto. Esse l’abbracciarono e la consolarono dicendole: “Sorella, perché sei così turbata? Noi tre siamo una cosa sola, perciò divideremo la nostra porzione di budino con te!”. Così dicendo portarono le loro coppe e versarono un po’ del loro budino in un’altra coppa che offrirono a Sumithra. A differenza di quanto accade oggi, a quei tempi fra le donne c’era un rapporto perfetto. Così le tre regine presero le loro coppe e le portarono al Saggio Vasishta per ottenerne le benedizioni. Dopo offrirono le loro salutazioni al Re Dasaratha e consumarono felicemente i loro budini. Tutt’e tre le regine rimasero incinte. Kausalya, la regina più anziana, al tempo dovuto partorì un bel bambino a cui venne imposto il nome Rama: l’Atma Universale si era incarnato nel grembo di Kausalya. Il neonato venne chiamato Rama, a significare che era Colui che rende tutti felici. Anche Kaikeyi dette vita ad un figlio che venne chiamato Bharatha. Sumithra, invece, dette i natali a due figli: Lakshmana e Satrughna. Lakshmana era nato dalla parte di budino datale da Kausalya e Satrughna da quella che aveva ricevuto da Kaikeyi. Perciò Lakshmana seguì sempre Rama mentre Satrughna seguì Bharatha. I due figli di Sumithra (Lakshmana e Satrughna) piangevano continuamente, giorno e notte, senza mai assumere cibo. Sumithra non riusciva a sopportare la sofferenza dei due neonati così si recò dal Saggio Vasishta e gli espose la sua difficile situazione. Questi chiuse gli occhi e meditò per qualche tempo; la sua visione yogica gli permise di capire la verità, per cui disse a Sumithra: “Dato che hai mangiato parte del budino sacro destinato a Kausalya, hai dato i natali a Lakshmana che è una parte (amsa) di Rama. Quanto a Satrughna, egli è nato dalla porzione di budino che ti ha dato Kaikeyi, perciò egli è una parte di Bharatha. Metti Lakshmana accanto a Rama e Satrughna accanto a Bharatha e dormiranno pacificamente”. Non appena Sumithra seguì queste istruzioni, i neonati si addormentarono tranquilli. Gli anni trascorsero ed i quattro fratelli crebbero insieme felicemente. Torniamo indietro un attimo alla storia dell’aquila che aveva afferrato la coppa contenente il budino sacro, appoggiato sul parapetto da Sumithra mentre si asciugava i capelli al sole: quell’aquila lasciò poi cadere la coppa in una zona montagnosa, nel luogo in cui stava meditando Anjanadevi, che la raccolse, mangiando poi felicemente il budino sacro in essa contenuto. Come risultato Anjanadevi partorì il grande eroe del Ramayana: Hanuman.
La ricerca di Sita
Mentre Rama e Lakshmana cercavano Sita sulle montagne Rishyamuka, Hanuman per ordine di Sugriva re dei Vanara (letteralmente: esseri umani con la coda di scimmia. La razza di scimmie umanoidi; N.d.T.), rivolse loro la parola e, dopo essersi informato sullo scopo della loro ricerca, li portò da Sugriva, al quale li presentò. Egli persuase Rama a diventare amico di Sugriva e a chiedergli di aiutarlo a cercare Sita. Davanti ad un fuoco rituale venne così solennizzato un voto di eterna amicizia. Sugriva portò quindi dei gioielli avvolti in un pezzo di tessuto, che erano stati gettati via da Sita dalla Pushpaka Vimana (come descritto nel poema epico Ramayana, si trattava di un enorme carro volante che poteva viaggiare alla velocità del pensiero, creato dagli architetti di Dio; N.d.T.) di Ravana che l’aveva condotta a Lanka. Sugriva pose il fagotto davanti a Rama affinché egli potesse riconoscere i gioielli come appartenenti a Sita. Rama chiamò Lakshmana al suo fianco e gli chiese di identificarli. Questi li guardò ma espresse la sua impossibilità a farlo dicendo: “Oh Rama, perdonami! Io non conosco alcun gioiello che Madre Sita abbia indossato; riconosco però le cavigliere perché ogni giorno mi prostravo ai suoi piedi per offrirle i miei omaggi”. Un giorno, mentre Rama e Sita si trovavano nell’eremo costruito da Lakshmana nella regione di Panchavati, il demone Maricha, su ordine di Ravana, assunse la forma di un cervo d’oro e cominciò a mostrarsi nelle vicinanze dell’ Ashram. Sita rimase incantata dall’affascinante animale e persuase Rama a catturarlo e a portarglielo nell’ Ashram per poterci giocare. Secondo il Piano Divino Egli aderì alla sua richiesta, ordinando comunque a Lakshmana di rimanere di guardia all’ Ashram durante la Sua assenza per proteggere Sita dai demoni che sapeva essere molto scaltri. Rama si spinse nel profondo della foresta inseguendo il cervo d’oro finché tese l’arco e scoccò una freccia fatale; così Maricha, che aveva assunto la forma del cervo d’oro, cadde a terra nella sua vera forma. Agonizzante, prima di esalare l’ultimo respiro urlò, imitando la voce di Rama: “Ha! Sita! Ha! Lakshmana!” Questo grido venne udito da Sita e Lakshmana ed ella, sentendo l’urlo, implorò il cognato di andare subito a cercare Rama. Egli le rispose che mai nessun pericolo avrebbe potuto minacciare Rama e che era tutto un piano di quei demoni astuti. Sita non rimase convinta e nell’incitarlo ad andare in soccorso a Rama usò persino parole aspre che ferirono Lakshmana. Naturalmente anche questo accadde in adempimento del Piano Divino, come sarebbe diventato palese in futuro. Lasciato senza via d’uscita, Lakshmana acconsentì ad andare a cercare Rama ma, prima di lasciare l’ Ashram, egli tracciò una linea intorno all’eremo e chiese a Sita di non oltrepassarla per nessun motivo fino a quando lui e suo fratello non fossero tornati. Non appena Lakshmana ebbe lasciato il posto in cerca di Rama, Ravana si avvicinò nella forma di un Rishi e si mise davanti all’ Ashram chiedendo del cibo: “Bhavathi bhiksham dehi” (Oh Madre, dammi del cibo!). Sita lo udì e decise di soddisfare la sua richiesta, gli portò il cibo da dentro l’ Ashram e cercò di darglielo rimanendo dietro la linea tracciata da Lakshmana ma Ravana insistette affinché Sita, per portargli il cibo, gli si avvicinasse ulteriormente e oltrepassasse la linea. Per indurla a farlo, egli finse di non poter più sopportare i morsi della fame così alla fine Sita, per dare l’elemosina a Ravana, capitolò e oltrepassò la linea tracciata da Lakshmana. Subito questi assunse la sua vera forma e la rapì (facendola salire) sul suo carro e la portò a Lanka, dove la confinò sotto un albero nell’ Asokavana (il giardino di Lanka). Sita si lamentò ripensando al suo atto irresponsabile, quando era impazzita per un cervo d’oro, e per le conseguenze che ne erano derivate. Ella pianse: “Oh! Perché quel nefando animale (il cervo d’oro) si è avvicinato al nostro eremo? Perché ne sono rimasta così affascinata? Perché ho chiesto a Rama di catturarlo e di portarmelo?” A che cosa serviva ormai tutto questo pentimento, ora che era prigioniera a Lanka? Ravana mise tre donne a guardia di Sita durante la sua prigionia nell’Asokavana. Una di esse era Sarama, la moglie del fratello minore di Ravana, Vibhishana; le altre due erano Ajata e Trijata, le quali altro non erano che le figlie della stessa Sarama. Esse furono molto premurose ed attente con Sita, le tennero alto il morale tutto il tempo con parole di conforto. Sita si chiese come persone così buone potessero esistere anche a Lanka; fu infatti per merito delle loro parole consolatrici e della loro protezione che ella riuscì a sopportare coraggiosamente quell’orribile esperienza. Sebbene Sita fosse prigioniera a Lanka, Ravana non osò toccarla perché sapeva che, se lo avesse fatto senza il suo consenso, sarebbe stato ridotto in cenere: rimase per tutto il tempo ad implorarla affinché lei lo accettasse. Quando Ravana si abbassò al punto di denigrare Rama e minacciarla, Sita, senza neppure guardarlo in faccia, colse un filo d’erba e glielo tirò addosso dicendo: “Sei un essere malvagio, non vali neppure questo filo d’erba. Come osi denigrare Rama davanti a me, tu, vile e vizioso villano?!” Sita aveva un altro nome, Vaidehi, che significa ‘colei che non ha attaccamenti per il corpo’. Il re Janaka, suo padre putativo, l’aveva allevata amorevolmente e data in sposa a Rama. Nella storia del Ramayana ci sono molti significati reconditi e sottili. Infatti Sita non era la sorella di Rama, come è stato riferito in alcuni testi. Se fosse stata Sua sorella, come avrebbe potuto il re Janaka offrirgliela in sposa? Sfortunatamente la gente non comprende questi significati interiori.
L’eccezionale integrità di Hanuman
Nella storia del Ramayana Hanuman fu una grande eroe; nella sua sacra missione consistente nella ricerca di Sita prigioniera a Lanka egli condusse l’armata dei Vanara (nel Ramayana: uomini con la coda di scimmia che vivevano nella foresta Dandaka; N.d.T.). Egli fu un servitore di Rama intelligente e fedele, una persona dalle qualità nobili e di grande forza fisica; relativamente alle nobili qualità e potenza egli fu impareggiabile. Infatti un intero capitolo del Ramayana, il Sundara Kanda, fu dedicato alla descrizione delle sue qualità di testa e di cuore. Mentre si stava imbarcando nella sacra missione di ritrovare Sita nella città di Lanka, gli vennero date alcune indicazioni su di Lei: gli venne detto che Sita era una donna di nobili qualità e divina bellezza, che non si sarebbe mescolata alle donne demoni (Rakshasa). Egli la cercò in tutti gli angoli di Lanka, incluse le stanze interne del palazzo in cui abitavano le regine di Ravana e le loro governanti. Durante questa ricerca egli incontrò delle donne vestite in modo succinto buttate sui loro letti, intossicate dal bere e dalle danze. Egli rimase totalmente impassibile davanti a tali forme oscene tenendo sempre la mente fissa sulle caratteristiche e sull’eccellenza di Sita descrittegli da Rama. La sua suprema stabilità mentale in un tale ambiente era perfettamente consona al suo Brahmachari (stato di castità). A questo mondo non si possono trovare esseri paragonabili al Signore Rama ed al Suo nobile servitore Hanuman: essi sono unici. Proprio ora è stato cantato un bhajan bellissimo: “Rama Lakshmana Janaki, Jai bolo Hanuman ki”. Durante il canto di questo bhajan, il nome di Hanuman è stato menzionato dopo una piccola pausa tesa ad indicarne l’importanza. È solo quando gente come Hanuman viene venerata e ne vengono emulate le qualità che si riescono a coltivare buoni pensieri, buone abitudini e buoni comportamenti. Viene detto che “il fine dell’istruzione è il carattere”. Un tale carattere nobile lo troviamo solo in Rama ed in Hanuman. Perciò, contemplate costantemente Rama ed Hanuman e le loro nobili qualità. I diversi nomi, quali Rama, Krishna, Hanuman, Shiva, Vishnu, etc. rappresentano l’unica Divinità che tutto pervade: Dio è Uno anche se i nomi e le forme sono diversi.
“L’oro è uno, i gioielli differiscono fra di loro.
Le religioni sono molte, la Divinità è Una.
Le mucche sono di vari colori ma il latte è lo stesso.”
Dio è Uno anche se i nomi e le forme sono diversi
Analogamente, Dio è Uno sebbene ci si riferisca a Lui con nomi e forme diversi. Persone diverse, quando si chiede loro come si chiamano rispondono ‘Io sono Ramaiah’, ‘Io sono Lakshmaiah’, ‘Io sono Govindappa’, etc. ma la risposta giusta sarebbe ‘Aham Brahmasami’ (Io sono Brahman). Non possono esserci altri nomi perché tutti sono incarnazioni del Sé Divino. L’ Atma non ha qualità (guna), è senza forma e senza attributi.
Nityanandam, Parama Sukhadam, Kevalam Jnanamurtim, Dvandwateetam, Gagana Sadrisham, Tattvamasyadi Lakshyam, Ekam,
Nityam, Vimalam, Achalam, Sarvadhee Sakshibhutam, Bhavateetam, Trigunarahitam …
L’ Atma è l’Incarnazione dell’eterna Beatitudine e della Saggezza assoluta, è al di là della coppia degli opposti,
è vasto e pervasivo come il cielo, è la meta indicata dal Maha-vakya Tattwamasi, è l’Uno senza secondo,
eterno, puro, immutabile, testimone di tutte le funzioni dell’intelletto, al di là di tutte le condizioni mentali e dei tre attributi di Sattva, Rajas e Tamas.
A dire il vero, Dio non ha né nome né forma, nonostante si dica che ‘Dio è in forma umana’ (Daivam Manusharupena). Egli non ha nascita né qualità, è senza forma e senza attributi. Quando qualcuno vi chiede ‘Chi sei?’, voi dovete rispondere ‘Io sono Dio’. Nomi come Ramaiah, Lakshmaiah, etc., sono solo appellativi che i vostri genitori vi hanno imposto dopo la nascita ma in realtà voi non avete dei nomi specifici. Tutti sono incarnazioni del Sé Divino: che recitiate il ruolo di Ramaiah o Krishnaiah, essenzialmente voi siete solo lo stesso Divino Sé; solo i ruoli sono diversi. Dio è immanente in tutti gli esseri umani. Anzi, ogni essere vivente è l’Atmasvarupa. L’unico Dio è immanente in tutti gli esseri umani ed in tutti gli esseri viventi (Ekatma Sarvabhuthantharatma). I nomi e le forme possono sembrare diversi. Dovete sviluppare una fede stabile nell’Unicità della Divinità. Offrite i vostri omaggi a chiunque incontriate; dovete offrirli persino ad un mendicante, perché egli può essere tale come entità fisica ma ‘più grande’ come Incarnazione del Sé Divino [Qui Swami fa un gioco di parole intraducibile basato sulla somiglianza fonetica fra le parole beggar (mendicante) e bigger (più grande); N.d.T.]. Non abbiate odio per nessun individuo, non considerate nessuno vostro nemico; di fatto, tutti sono riflessi del vostro stesso Sé Divino. Tutti ripetono ‘io’, ‘io’ ed insistono a dire ‘questi sono il mio corpo, la mia mente, il mio intelletto e la mia chittha’ (sostanza mentale in cui si condensa la pura coscienza, cit; N.d.T.). Ma allora, chi sono Io? In essenza quell’ Io è la Divinità. Allo stesso Io ci si riferisce con molti nomi. Il significato del simbolo del cristianesimo, la Croce, è il taglio dell’ego individuale (Ahamkara). Diciamo Io arrivo, Io vado, Io vengo, etc. ma che cos’è questo Io? Esso rappresenta il Sé Divino.
La vera devozione consiste nel non trovare differenza fra voi e gli altri
Dovete sviluppare il sentimento dell’ Atma Divino che permea l’intero Universo (Ekatmabhava): questa è la vera devozione. Non dovete trovare differenza fra ‘io’ e ‘tu’; coloro che vogliono ottenere la realizzazione del Sé devono eliminare questa differenza, devono liberarsi del sentimento dell’ ‘io’ e del ‘mio’. Siamo tutti Uno. “Siamo tutti Uno, comportatevi allo stesso modo con tutti”. Questa è l’essenza di tutta la filosofia. Siate felici.
Prashânti Nilayam, 28 giugno 2008
Sai Kulwant Hall