21 Aprile 2002 (Ramanavami) – Rama, principio di equità

21 Aprile 2002 (Ramanavami)

Discorso Divino di Bhagavan Sri Sathya Sai Baba

Rama, principio di equità

“Più dolce dello zucchero, più assortito del curd, molto più gustoso del miele è il Nome di Râma.
La ripetizione costante di questo soave Nome dona il sapore del nettare divino.
Contemplate incessantemente il supremo ed eterno Nome di Râma.
O mente! O mente! Ricorda il supremo ed eterno Nome di Râma!”

Incarnazioni dell’Amore!
Ayodhyâ era la capitale del regno di Kosala. Nessun nemico era in grado di accedervi; per questo fu chiamata “Ayodhyâ”. Era stata fondata dall’imperatore Manu . Il fiume Sarayu, che nasce dal Mânasasarovar, le scorreva vicino. Il lago Mânasasarovar ( profondo e placido “lago della mente” – N.d.T. ) è la manifestazione terrena della volontà divina. Questa città sacra era governata dall’imperatore Dasharatha. Nonostante tutte le ricchezze e le comodità, la sua vita non era felice poiché non aveva figli.
Dasharatha aveva un ministro di nome Sumantha, virtuoso, puro, altruista e di nobile cuore. Un giorno, questi si recò da Dasharatha e gli disse: “O re! Ho un’idea che dovrebbe risolvere i vostri problemi e dare gioia a voi e a tutti i cittadini; il paese avrà prosperità e abbondanza se compirete il “Sacrificio del Cavallo”, Ashvamedha Yâga. C’è poi un secondo rito, denominato Putrakâmeshti Yâga, compiendo il quale potrete soddisfare il vostro desiderio di avere figli.” Dasharatha fu contento del suggerimento, e gli diede ordine di compiere i preparativi necessari. Sumantha chiese a Dasharatha: “Sire, dovete scegliere il primo sacerdote. Molti sono i sacerdoti che officiano questi rituali, ma per il Putrakâmeshti Yâga, uno ha particolari capacità, ed è il Saggio Rishyashringa. Invitate lui quale sacerdote principale per quel rito.”
Rishyashringa viveva nel regno di Anga, dove a quel tempo governava Padmapâda. Il regno di Anga era colpito da una carestia e, quindi, anche il re pensava di chiedere l’aiuto del saggio per superare la grave crisi. Un giorno, Dasharatha, Sumantha e Padmapâda si recarono insieme al romitaggio di Rishyashringa. Acconsentendo alla richiesta di Dasharatha, Rishyashringa andò ad Ayodhyâ per celebrare i due riti sacrificali, l’ Ashvamedha Yâga e il Putrakâmeshti Yâga. Nel corso della celebrazione, un essere splendente emerse dal fuoco sacrificale con una coppa contenente della dolce crema di riso (pâyasam); diede la coppa al Saggio Vashishta, che la passò a Dasharatha, istruendolo di dividerne equamente il contenuto tra le sue tre mogli.
Poiché ci sono stati diversi compositori del Râmâyana , come Vâlmîki, Kamba, Tulsidas ecc., ognuno di essi diede una diversa versione delle proporzioni riguardanti la distribuzione del cibo divino, ma nessuno fornì quella esatta. Del resto, nella vita umana, le decisioni e le relative azioni devono conformarsi alle varie circostanze. Di fatto, Dasharatha diede la stessa quantità di pâyasam a ognuna delle sue tre regine in tre diverse tazze. Allora come oggi, il principio dell’equità è essenziale per l’uomo.
Dasharatha disse poi alle sue mogli di compiere un’abluzione rituale, e di mangiare la crema di riso alla presenza del Saggio Rishyashringa. Kaushalyâ era assai felice, come pure Kaikeyî. Solo Sumitrâ non era contenta, anche se non intendeva disobbedire al comando di suo marito Dasharatha e del Saggio Rishyashringa. Dopo il bagno rituale, ella andò sulla terrazza ad asciugarsi i capelli al sole, tenendo vicino a sé la tazza con la crema di riso. Mentre si asciugava i capelli, cominciò a pensare: “Kaushalyâ è la prima regina, e suo figlio sarà il legittimo erede al trono; se invece, considerando la promessa fatta da Dasharatha al re di Kekaya, padre di Kaikeyî, sarà il figlio di quest’ultima a essere incoronato re, mio figlio non avrà diritto al trono; stando così le cose, che senso ha che io abbia un figlio?” Abbattuta e depressa, Sumitrâ posò la tazza e, dopo essersi seduta, cominciò a pettinarsi i capelli.
Un’ancella arrivò di corsa a informarla che il re Dasharatha chiedeva che andasse subito da lui. Sumitrâ s’intrecciò i capelli, e stava per prendere la tazza, quando un’aquila piombò giù e in un istante volò via con la tazza. Sumitrâ era già triste, e questo incidente aumentò la sua angoscia mille volte. Temeva che il marito e il Saggio Vashishta si sarebbero arrabbiati con lei, e tremò all’idea di essere maledetta dal Saggio Rishyashringa. Tutti questi pensieri si accavallarono nella sua mente, facendola soffrire. Allora corse da Kaushalyâ e Kaikeyî per spiegare loro in quale difficile situazione si trovasse. “Sorelle, un’aquila mi ha rubato la tazza per mia negligenza. È stato certamente un mio errore, anche se commesso non di proposito.”
A quei tempi, anche le diverse mogli convivevano in amicizia, sentendosi come figlie della stessa madre. Kaushalyâ la consolò, e le portò un’altra tazza uguale, nella quale versò metà della sua crema di riso. Kaikeyî fece lo stesso. Le tre donne, con le loro porzioni divise in parti uguali, presero le tazze e si ritirarono nella stanza della preghiera. Sumitrâ si rallegrò dell’aiuto e della comprensione mostratale: “Le mie due sorelle sono state così gentili ad aiutarmi. Come sono fortunata, e come sono fortunate anche loro!” Tutto ciò avvenne semplicemente e in modo naturale, senza tanti conti su quanto fosse il pâyasam da ripartire e senza calcoli matematici.

La nascita di Râma e dei Suoi fratelli

Esse mangiarono la crema di riso. Passarono nove mesi. In un giorno propizio, Kaushalyâ diede alla luce un bambino. Era il momento in cui tutti i cinque elementi si trovavano in armonia, e Kaushalyâ era desiderosa di render felice il suo bambino. Prima che la buona notizia fosse comunicata a Sumitrâ e Kaikeyî, anch’esse avvertirono le prime doglie. Da Sumitrâ nacque per primo Lakshmana, e dopo qualche istante Shatrughna, ed ella ne fu felice. Da Kaikeyî nacque Bharata. I quattro Veda avevano assunto la forma dei quattro figli di Dasharatha. La cosa fu resa pubblica, e il decimo giorno ebbe luogo la cerimonia dell’assegnazione del nome. Il figlio di Kaushalyâ fu chiamato Rama, poiché attraeva e deliziava chiunque. Come si vede la propria immagine in uno specchio, così Rama vedeva lo splendore dell’ Âtma nel cuore di ognuno; Egli vedeva quello splendore come una luna nel cuore di tutti, perciò fu chiamato Râmachandra.
I due figli di Sumitrâ erano irrequieti e continuavano a piangere come era avvenuto fin dal momento della nascita. Non prendevano il latte, non mangiavano nulla e non volevano dormire. Sumitrâ era addolorata dalla condizione dei suoi bambini, e pensava: “Io piango per la mia sfortuna, e anche i miei figli piangono sin dalla nascita. Come sono disgraziata!” e si sentiva depressa.
In un momento in cui non c’era in vista nessuno, ella avvicinò il Saggio Vashishta e gli spiegò la triste situazione dei suoi figli: “Maestro, non mi aspetto nulla dai miei figli; mi basta che essi abbiano una vita sana e felice. Non sembra che abbiano delle malattie fisiche, e non capisco perché siano così irrequieti e piangano senza sosta fin dal primo istante. Qual è il problema?”
Vashishta chiuse gli occhi ed entrò in meditazione per conoscere il motivo dello strano comportamento dei due bimbi. Quando riaprì gli occhi, le disse: “Madre Sumitrâ, tu sei molto fortunata, sei dotata della nobile virtù dell’equanimità. Come dice il tuo nome, sei una “buona amica” per tutti. Non preoccuparti. Fa’ una cosa molto semplice: col permesso di Kaushalyâ, metti Lakshmana nella stessa culla di Râma, e allo stesso modo col permesso di Kaikeyî metti Shatrughna al fianco di Bharata nella stessa culla. Essi mangeranno, dormiranno e si comporteranno normalmente.”
Kaushalyâ e Kaikeyî furono felici della richiesta di Sumitrâ. Dissero: “Sorella, porta subito Lakshmana e Shatrughna. Essi sono come i nostri figli. È una gioia per noi vedere i quattro fratelli sviluppare l’unità e crescere insieme.”
Sumitrâ seguì l’indicazione del Saggio Vashishta. Appena Lakshmana si trovò nella culla vicino a Râma, smise di piangere. Lo stesso accadde per Shatrughna: cessò di piangere non appena fu messo vicino a Bharata. Lakshmana e Shatrughna erano felicissimi in compagnia di Râma e Bharata. Essi erano sorridenti e cominciarono a emettere suoni gioiosi, a sgambettare e a muovere le manine. Sumitrâ ebbe grande sollievo nel vedere i suoi bambini così contenti, e pensò: “Come sono stata fortunata! Non mi interessa altro: mi basta vederli contenti.” Quando poi un giorno Sumitrâ incontrò Vashishta da solo, gli chiese: “Swami, per quale motivo i miei due bimbi hanno dovuto essere messi vicino ai fratelli? Come mai Lakshmana doveva essere messo nella culla di Râma e Shatrughna vicino a Bharata?”
Vashishta spiegò: “O Sumitrâ! Tu sei un’anima nobile, sincera; hai una buona condotta e buone qualità, e non conosci sotterfugio. Il tuo cuore è puro, retto e per niente egoista. Non deve quindi esser difficile per te comprendere la ragione di ciò.” Poi, lodandola in questo modo, aggiunse: “Quando la tua parte di pâyasam fu portato via dall’aquila, Kaushalyâ e Kaikeyî vennero in tuo aiuto, dividendo la loro parte con te. Come risultato hai avuto due figli. Lakshmana è nato dalla porzione ricevuta da Kaushalyâ, e Shatrughna è nato da quella di Kaikeyî. Ciò significa che Lakshmana è un frammento di Râma, mentre Shatrughna lo è di Bharata. Perciò, è naturale che Lakshmana sia felice in compagnia di Râma, come pure che Shatrughna lo sia in compagnia di Bharata.”

La Bhagavad Gîtâ asserisce:

“Tutti gli esseri, nella creazione, sono manifestazioni di un frammento di Me Stesso.”

Tutti sono Mie Forme.
Lakshmana, essendo una parte di Râma, si riunì a Râma, come Shatrughna si riunì a Bharata. Da quel giorno i ragazzi giocarono e cantarono sempre insieme.

L’entrata in scena di Vishvâmitra

Gli anni passarono e i quattro fratelli erano diventati dei giovanotti. Dasharatha aveva deciso di celebrare il loro matrimonio. Un giorno, mentre pensava a questo argomento, arrivò un messaggero a informarlo dell’arrivo del Saggio Vishvâmitra.
Ogni cosa accade sempre al momento giusto. Dio crea le circostanze necessarie in base al momento e alla situazione. Dasharatha si recò personalmente all’entrata a ricevere il saggio, per porgergli il benvenuto: “Swami, è una grande fortuna che tu sia arrivato oggi. Ho deciso di organizzare il matrimonio dei miei figli. Mi sento estremamente felice e benedetto che tu sia oggi fra noi. Per quale motivo ci onori della tua visita?”
Vishvâmitra rispose: “Non c’è molto da dire. Sono venuto per la protezione del mio rito sacrificale (yajña). Devo prendere Râma con me e ripartire.”
A Dasharatha sembrò che una bomba gli fosse scoppiata nel cuore. “Ho avuto questo figlio come risultato di riti e sacrifici celebrati per molti anni, e ora mi dice che lo porta via per proteggere un rituale. Râma non è mai stato in una foresta, né ha alcuna esperienza al riguardo; che cosa potrà fare? Non ha mai visto demoni, non ha mai combattuto, non porta odio a nessuno, è pieno d’amore e di tolleranza, ha un cuore sacro. Come posso mandare una persona siffatta in una foresta così pericolosa?”
Questi erano i suoi sentimenti. Allora il re disse a Vishvâmitra: “O venerabile saggio, mio figlio è molto giovane; non è che un ragazzo. Come posso mandarlo nella foresta?”
Vishvâmitra, che aveva una sola parola, rispose: “O re! Hai promesso di soddisfare qualsiasi mio desiderio, e ora ritiri la tua parola. I re appartenenti alla dinastia Ikshvâku non sono mai venuti meno alle promesse fatte; se vai contro le tue parole porterai disonore al tuo clan. Decidi dunque se vuoi esporre la tua famiglia alla vergogna, o mantenere la tua parola e mandare tuo figlio con me.“
Dasharatha rifletté a lungo, ma non fu in grado di decidere. Chiamò allora il Saggio Vashishta per chiedergli consiglio. “Vishvâmitra mi ha fatto questa richiesta. Che debbo fare?” Vashishta disse: “Dasharatha, i tuoi figli non sono dei comuni mortali. Essi sono nati come doni della Volontà Divina. Sono come quattro ‘ Soli di Saggezza’ nati dal fuoco. Pertanto, nessun male, nessun pericolo può colpirli. Mantieni la promessa fatta a Vishvâmitra e mandali con lui.”
C’è un piccolo dettaglio da notare. Vishvâmitra era venuto per prendere con sé solo un ragazzo, Râma, il quale era disposto ad andare con lui, ma nessuno chiese a Lakshmana di accompagnarlo. Né il padre, né la madre, né il precettore Vashishta avevano chiesto a Lakshmana di andare con Râma; egli seguì Râma di propria iniziativa, perché era una parte di Râma. Proprio come il riflesso segue un oggetto, Lakshmana accompagnò Râma.
Osservando questo fatto, Vishvâmitra pensò che ogni cosa accade secondo la Volontà Divina. Prima di partire disse a Dasharatha: “O re! Non c’è potere al mondo che non sia in me. Io sono dotato di tutti i poteri e di tutta la conoscenza relativa agli aspetti morali, fisici, dharmici e spirituali, ma quando prendo la consacrazione per celebrare un rito sacrificale e ne inizio l’esecuzione, non posso lasciarmi coinvolgere in un atto di violenza. Questa è la disciplina prescritta per chi esegue uno yajña. Dunque, non posso uccidere io stesso i demoni. Ecco perché prendo Râma con me; altrimenti non ne avrei bisogno.”

La protezione del Sacrificio

Partirono dunque per la protezione del rito sacrificale. Raggiunte le rive del fiume Sarayu, Vishvâmitra disse: “Râma, vieni qua.” Chiamò solo Râma e non Lakshmana. Râma andò a sedersi vicino a lui. Sebbene non fosse stato chiamato, anche Lakshmana andò a sedersi al fianco di Râma. Vishvâmitra disse: “Miei cari, questo yajña viene celebrato nella foresta. Nel nostro âshram non c’è nessuno che prepari il cibo; ci sono solo dei saggi, le loro mogli, e degli allievi. Voi siete i figli del re, abituati alle comodità reali e a cibi prelibati, ma siete venuti per proteggere lo yajña : perciò vi insegnerò un mantra.” Perché dare un mantra a Râma e Lakshmana che sono in grado di proteggere un rito sacrificale? Ciò significa che quelle parole di Vishvâmitra avevano a che fare con azioni legate al mondo. “Vi insegnerò due mantra: Bala e Atibala. Col potere di questi mantra, potrete fare a meno di mangiare e di dormire. Non so per quanti giorni dovrete proteggere il rito, ma per tutto il tempo dovrete stare svegli e non aver bisogno di cibo.” Râma e Lakshmana recitarono questi mantra, e di conseguenza non sentirono fame, né sete, né sonno.
Mentre il rito sacrificale era in corso, arrivò il demone Mârîcha. Râma lo uccise subito e, per l’impatto, il suo corpo fu scagliato a grande distanza. Tâdakâ, la madre di Mârîcha, accorse immediatamente. Si udì allora un rumore tonante. Râma domandò a Vishvâmitra: “Swami, che cos’è questo rumore? Sembra che le montagne stiano andando a pezzi.” Il saggio rispose: “Le montagne non c’entrano; questa è la voce della demone Tâdakâ. Ella fa tremare chiunque con la sua voce. Preparati ad affrontarla: sta per arrivare.”
A Râma venne un dubbio: “Swami, non si possono uccidere le donne, non è vero? Questa è una donna; come posso ucciderla? Per uno Kshatriya non è corretto uccidere una donna. Mio padre non mi ha ordinato di fare questo; solo tu me lo ordini. Come posso agire così?” Vishvâmitra affermò: “Râma, quando si tratta di proteggere uno yajña, non c’è differenza se chi lo ostacola sia un uomo o una donna.”

Raggiunto Quello, Si ottiene la completa soddisfazione, l’ebbrezza, l’estasi del Sé.

Vishvâmitra aggiunse: “Tutti sono Âtmarâma (la bellezza del Sé). Non esistono più preoccupazioni per chi lo capisce. Perciò non pensare alle differenze tra uomini e donne.” Pensando: “Questo è l’ordine del Guru”, Râma uccise l’orchessa. Questa però non si lasciò uccidere facilmente, e ci fu una battaglia feroce, ma qui non è necessario entrare nei dettagli.

L’arco di Shiva

Uccisa Tâdakâ, i dintorni del siddhâshrama ritornarono pacifici e tutti se ne rallegrarono, tanto che creature celesti gettarono dall’alto petali di fiori.
A quel punto arrivò un messaggero dalla città di Mithilâ e consegnò una lettera a Vishvâmitra da parte del re Janaka. Era un invito che diceva: “Abbiamo iniziato un rito nel corso del quale dovrà essere sollevato l’arco di Shiva. Vi invitiamo a prendervi parte.”
Vishvâmitra si mise subito in viaggio per Mithilâ. Râma e Laksmana erano rinuncianti, non erano sposati e non avevano quindi bagagli da portare con sé. Vishvâmitra (che era pure un rinunciante – N.d.T.) indossò una veste e domandò a Râma e Lakshmana: “Venite anche voi?” Râma osservò: “Per quale motivo? Mio padre mi ha mandato per proteggere il vostro yajña. Non so nulla del rito che vuole celebrare il re Janaka.”
Per sollevare in loro interesse ed entusiasmo, Vishvâmitra spiegò: “Questo rituale non è una cerimonia ordinaria. Nel palazzo del re Janaka c’è lo Shiva Dhanus, l’arco di Shiva, che nessuno ha la capacità di sollevare e neppure di smuovere. Un giorno accadde che Sîtâ, la figlia di Janaka, sollevasse l’arco senza alcuno sforzo. Quel giorno, Janaka decise che avrebbe dato sua figlia Sîtâ in sposa a chi fosse riuscito a sollevare l’arco. Questa è quindi la cerimonia indetta a tale proposito.”
C’era tutta la gente di Mithilâ e i re di tutti gli stati. Pertanto, anche Râvana andò alla cerimonia. Râvana aveva una figura possente e un corpo robusto. Si fece avanti per primo per sollevare l’arco di Shiva. Nel vedere i movimenti delle sue braccia e delle sue gambe, tutti i re rimasero sorpresi e pensarono: “Come potrebbe Janaka dare la gentile Sîtâ a questo tipo così grossolano?” Anche la sua faccia era disgustosa e il suo aspetto veniva giudicato terrifico. Essi pensarono: “Stiamo a vedere che cosa succede”, e ognuno rimase al proprio posto.
Râvana mise la mano sinistra sull’arco; questo non si mosse. Lo afferrò allora con entrambe le mani, ma non riuscì a smuoverlo. Impiegò tutta la sua forza, e ancora quello non si mosse. Infine Râvana perse l’equilibrio e cadde. Conscio della brutta figura fatta, non riuscì a reggere l’umiliazione. Chi ha ego è destinato a subire umiliazioni nella società. Si afferma:

“L’ego porta alla rovina.”

La gente stessa umilierà chi ha tanto ego, e questi non riceverà mai né rispetto né ossequi. Il risultato consono all’ego è l’umiliazione. Dunque Râvana cadde. Vedendo fallire il tentativo di Râvana, furono tutti sconcertati e pensarono: “Certo nessun altro sarà in grado di farcela”, ed erano restii ad alzarsi dal proprio posto.”
Vishvâmitra con gli occhi fece un segno a Râma. Râma si alzò. Era un giovanetto: aveva solo quindici anni. Mentre camminava, il Suo movimento stesso appariva tanto gioioso. Nella Sua radiosità si percepiva un intenso potere. Sembrava che tutti i poteri lo seguissero come un’ombra, mentre Egli avanzava tranquillo. Tutta la gente e i re che si erano lì riuniti, erano incantati dallo splendore di quel ragazzo, e non pensavano neppure che cosa stesse per fare.
Râma, sorridente, si aggiustò la veste. Prese l’arco di Shiva con la sinistra e lo sollevò. Ora doveva piegarlo per fissargli la corda, e se sollevarlo era difficile, piegarlo lo era ancora di più.
Lo piegò con la sinistra, e, nel fare così, lo spezzò. Quando l’arco di Shiva si spezzò, si udì un enorme boato. Tutti tremarono e si chiesero sbalorditi: “Quale incredibile potere ha Râma?”
Immediatamente Sîtâ si fece avanti con le sue ancelle, stringendo una ghirlanda (porre la ghirlanda al collo di Râma avrebbe significato accettare che Egli aveva conquistato la sua mano – N.d.T.). Vishvâmitra disse: “Sei pronto?” Râma rispose: “Swami, mio padre mi ha mandato a proteggere il vostro yajña e Io l’ho fatto al siddhâshram, ma non avevo il suo permesso per venire a questa cerimonia. Io non sono pronto finché non ho il permesso di mio padre.”
Vishvâmitra andò dal re Janaka e gli disse qualcosa all’orecchio. Janaka era persona rispettosa dell’etichetta, e accettò. Mandò i suoi messaggeri ad Ayodhyâ, ed essi narrarono a Dasharatha tutti i dettagli di quanto accaduto e lo invitarono alla corte del re Janaka.

Massaggio al piede

Il viaggio richiese tre giorni, durante i quali Râma e Lakshmana restarono in una stanza, ma in quel periodo accadde un fatto. Râma aveva appoggiato una gamba sull’altra e si stava massaggiando delicatamente un piede. Nârada lo vide attraverso un pertugio, e pensò: “Peccato! Un principe, un ragazzo così delicato, è venuto a piedi fin qui. Non s’era mai affaticato tanto. Forse Gli fanno male i piedi, e se li massaggia per allontanare il dolore.”
Così pensando, Nârada chiamò Lakshmana, il quale aprì la porta e vide la scena. Nessuno fece obiezioni al fatto che Lakshmana andasse dal Fratello: così egli si sedette e prese a massaggiare i piedi di Râma. Râma gli disse: “Lakshmana, non provo alcun dolore. Questa è una parte che interpreto per fornire un esempio all’umanità.” Anche Lakshmana sapeva che Râma non aveva alcun dolore e che nessuna sofferenza poteva colpirLo.
Dall’arrivo a Mithilâ del re Dasharatha e della sua famiglia trascorsero tre giorni, durante i quali Râma e Lakshmana non si mossero dalla loro stanza. Oltre ai membri della famiglia, amici e parenti, Dasharatha arrivò accompagnato da un battaglione di soldati e dai cittadini di Ayodhyâ. Complessivamente migliaia di persone arrivarono nella capitale del re Janaka, ed erano tutti così felici che si baciavano l’un l’altro sulla sommità del capo (in segno di affetto – N.d.T.). I quattro fratelli Bharata, Shatrughna, Râma e Lakshmana si sistemarono tutti insieme in una sola stanza. Il quarto giorno venne celebrato il matrimonio, e di ciò Io vi ho già parlato in dettaglio molte volte.
Innanzitutto la sposa era destinata al figlio maggiore. Sîtâ, nata dalla Madre Terra, era la figlia maggiore del re Janaka; era stata trovata mentre si aravano i campi. Ûrmilâ era invece la figlia naturale di Janaka. Il re portò entrambe le sue figlie, perché Râma e Lakshmana si presentarono insieme (Sîtâ era destinata a Râma, mentre Ûrmilâ sarebbe andata in sposa a Lakshmana – N.d.T.). Il giorno successivo si presentarono anche Bharata e Shatrughna. Vedendo i suoi quattro figli, il re Dasharatha, giubilante di gioia, pensò: “Come sono fortunato!” Infatti, c’erano due spose anche per Bharata e Shatrughna, cioè Mandavi e Shrutakîrti, le due figlie del fratello del re Janaka. Sembrava proprio che tutto si adattasse perfettamente: le quattro figlie per i quattro fratelli.
Nel corso della cerimonia nuziale, gli sposi dovevano reciprocamente porsi una ghirlanda di fiori intorno al collo. Râma, in piedi, pose la ghirlanda al collo di Sîtâ, la quale, essendo piccola di statura, non era in grado a sua volta di farlo, perché Râma era molto alto. Egli avrebbe dovuto abbassare la testa, per consentire a Sîtâ di metterGli la ghirlanda al collo; tuttavia, Egli pensò: “Sono Colui che ha piegato l’arco di Shiva: sarebbe umiliante abbassare la testa di fronte a tanti coraggiosi guerrieri; non è il dharma di un re chinare la testa. Abbassare la testa davanti a una donna, in mezzo a tutta questa folla, sarebbe umiliante.” Così Râma se ne stava in piedi eretto, e il tempo trascorreva. Anche la virilità di Râma viene qui messa in luce. Poiché in quei giorni le donne non usavano guardare in faccia gli uomini, Sîtâ teneva gli occhi bassi, e allo stesso tempo cercava di inghirlandare Râma, senza vedere però la Sua testa, e senza riuscirci. Râma con la testa fece un segno a Lakshmana per dirgli: “Questo è un lavoro per te.” (Lakshmana era l’incarnazione di Âdishesha, il serpente che porta la Madre Terra sulla testa. Râma, quindi, gli diede un’occhiata per suggerirgli di sollevare quella parte di terra dove si trovava Sîtâ, in modo che ella potesse metterGli la ghirlanda – N.d.T.). Lakshmana gli rispose con un segno, osservando che non era possibile alzare solo una particolare zona, perché se avesse sollevato la parte di terra su cui si trovava Sîtâ, contemporaneamente anche Râma e gli altri sarebbero stati sollevati.
Tutti i presenti che osservavano la scena cominciarono a diventare ansiosi, e si chiedevano come mai Râma non abbassasse la testa, in modo che Sîtâ potesse metterGli la ghirlanda di fiori.
Lakshmana, per risolvere quella insolita situazione, improvvisamente si buttò ai piedi di Râma e vi rimase immobile. Vedendo che il fratello non si rialzava, Râma si curvò in avanti per sollevarlo; tempestivamente, Sîtâ colse l’occasione e inghirlandò Râma. (Applausi). Tale fu l’intelligenza di Lakshmana. Anche il Santo Tyâgarâja cantò:

“Se non fosse per la potenza di Râma, potrebbe una scimmia attraversare il vasto oceano?
Potrebbe una donna legarlo a una macina?
Lakshmana lo servirebbe? Lakshmî Devî lo amerebbe?
L’arguto Bharata s’inchinerebbe davanti a Lui? Quanto è grande la devozione per Râma.”

Nessuno può comprendere il potere di questa suprema devozione.

Terminata la celebrazione dei quattro matrimoni, avvenuta in modo glorioso, tutti fecero ritorno ad Ayodhyâ. Sulla strada per Ayodhyâ ci fu una sfida (il riferimento è rivolto alla comparsa di Parashurâma su quella strada. Egli chiese a Râma di mostrare la Sua forza, e quest’Ultimo ne uscì vittorioso – N.d.T.)

Il piacere è un intervallo fra due dolori.

Anche in mezzo a due gioie c’è il dolore.

Râma deve essere incoronato re

Dopo che Râma uscì vincitore dalla sfida, raggiunse, assieme agli altri, Ayodhyâ.
Alcuni giorni trascorsero. Una mattina alle tre, il re Dasharatha fece un sogno; egli credeva che i sogni fatti alle tre del mattino sarebbero poi diventati realtà. Egli sognò di essere vecchio, con mani e gambe tremanti, e vide che c’erano numerosi segni di malaugurio; si svegliò molto turbato a causa di quel brutto sogno, e pensò: “Non vivrò ancora a lungo; Râma deve essere incoronato re.” E in quell’istante prese quella decisione. Quando un re decide di fare qualcosa, chi lo può fermare?
Egli pensò che non c’era tempo d’organizzare cose molto elaborate per l’incoronazione; perciò mandò a chiamare il Saggio Vashishta e ottenne il suo consenso. Chiamò poi Râma e Lo informò della sua decisione. A partire da quel momento Râma cominciò a sviluppare un profondo senso di equità e di uguaglianza sociale, e pensò: “Tutti devono essere uguali, non devono esserci livelli alti o bassi, non si devono creare differenze. Tutti devono condurre una vita di equità. Tutti gli esseri sono Uno. Dio è Uno. Dio è Uno, ma le forme della vita sono molte.” Râma sentì che il Suo obiettivo più importante era di evidenziare l’unità nella diversità.
Poiché il Saggio Vashishta aveva approvato la sua decisione, Dasharatha chiamò Râma vicino a sé: “Râma, ho deciso di incoronarTi principe ereditario; preparaTi per domani.” Râma, che è onnisciente, onnipotente, onnipresente, e pieno di pensieri sacri, rimase in silenzio per qualche tempo.
Essendo un figlio obbediente, non voleva contrastare il desiderio del padre; rifletté per un po’ e poi osservò: “Padre, Bharata e Shatrughna non sono qui; non sarebbe opportuno aspettare il loro arrivo?” Il re, tuttavia, era fermo nella sua decisione: “Non devi preoccuparti di questo; devi obbedire al mio ordine.”
Râma rispose di essere pronto a farlo, ma cercava solo una spiegazione; perciò aggiunse: “Noi quattro fratelli siamo nati lo stesso giorno, sotto la stessa stella; siamo nati dalla stessa coppa di cibo divino durante il medesimo rito sacrificale. Le cerimonie dell’imposizione del nome, dell’iniziazione all’apprendere, dell’iniziazione da parte del guru con l’investitura del cordone sacro, nonché quelle dei nostri matrimoni, furono celebrate in modo uguale per tutti e quattro. Allora, perché l’incoronazione deve essere fatta solo per Me? Lascia che tutti e quattro siano incoronati contemporaneamente!”
Dasharatha fu davvero contrariato nell’udire le osservazioni di Râma, e aggiunse: “Caro figlio, il regno è uno, il re è uno. Non ci possono essere quattro re che governano un solo regno.” Râma allora suggerì: “Dividi il regno in quattro parti, e dà una parte a ognuno dei quattro fratelli. Fa’ in modo che le nostre incoronazioni avvengano nello stesso momento. Non creare delle differenze.” Dasharatha rimase molto colpito e meravigliato nel sentire le argomentazioni di Râma, tanto che non seppe darGli alcuna risposta. Mandò via il figlio e consultò il Saggio Vashishta, il quale disse che avrebbe cercato di convincere Râma. Dasharatha poi aggiunse: “Per generazioni e generazioni il nostro regno è rimasto unito sotto un unico re; ora Râma vorrebbe dividerlo.”
In realtà, non si trattava di dividerlo, ma di consentire a ogni fratello di governare una parte del regno. Quando infine si decise che non era possibile suddividere il regno, Râma non accettò.
Il fatto era anche che Dasharatha stava invecchiando; quando l’età avanza, le facoltà mentali non sono più così lucide, e Dasharatha non riusciva a comprendere il vero significato di tutti i pensieri di Râma. Allora Râma li ripeté in modo che il padre potesse capire: “Aspettiamo che Bharata e Shatrughna facciano ritorno.” Ci avrebbero impiegato ancora quindici giorni per arrivare ad Ayodhyâ; così, intanto, tutti potevano riflettere tranquillamente sulla questione. In questo modo Râma riuscì a ritardare l’incoronazione.
Il piano di Râma, i Suoi poteri e il Suo disegno erano misteriosi e straordinari. “Tutti devono essere uguali.” Il principale insegnamento della cultura indiana è che deve esserci equità nella società.

Possano tutti i mondi essere felici.
Possano tutti essere felici.

Tutti devono essere felici, e Râma sosteneva così i princìpi dell’antica cultura.

L’incoronazione è sospesa

L’incoronazione fu per il momento sospesa, e Bharata e Shatrughna vennero invitati a far ritorno.
Anche in ciò, che genere di sacre scene c’erano?
Molti leggono e rileggono il Râmâyana, possiedono pile di libri sull’argomento, e imparano i versi a memoria; ma a che scopo? Essi non ne capiscono l’essenza, e poi ne rimangono sorpresi!
La gente afferma che Kaushalyâ era una donna molto virtuosa. Ella era la prima regina e la più anziana, possedeva molte buone qualità, e tutti dovevano obbedire ai suoi comandi.
Kaikeyî era invece la regina più giovane, ma nessuno poteva contrastare i suoi ordini, tanto che Dasharatha era come un burattino nelle sue mani, che danzava al suono della sua musica; perciò Kaikâ deteneva il potere, svolgendo questo tipo di recita.
A Sumitrâ invece non veniva attribuita molta importanza, ma le nobili qualità di Sumitrâ e Shatrughna non possono essere descritte a parole. Successivamente, a causa di diversi eventi, accadde che l’incoronazione di Râma non avesse luogo; anzi, per volontà di Kaikâ, Egli dovette andare in esilio nella foresta per quattordici anni. Prima di partire per la foresta, Râma si recò da madre Kaushalyâ per ricevere la sua benedizione, ma ella piangeva sconsolata. Non soltanto lei, ma tutti a palazzo erano in lacrime. La gioia era sparita ovunque.
Quando Lakshmana, senza proferire parola con nessuno, andò da sua madre Sumitrâ per accomiatarsi, ella gli disse soltanto una cosa: “Caro figlio, non credere di andare nella foresta. Ayodhyâ, senza Sîtâ e Râma, è la vera foresta per noi; mentre la foresta, in cui Sîtâ e Râma vivranno, sarà Ayodhyâ per te. Perciò, anche se vivrai nella foresta, pensa che vivi ad Ayodhyâ. Râma è tuo padre, e Sîtâ è tua madre. Non permettere che nulla ti sia d’intralcio nel servirLi.”
Quale madre avrebbe parlato in tal modo? Un’altra si sarebbe avvalsa di varie argomentazioni per impedirgli di andare: “Secondo la promessa fatta a Kaikeyî, solo Râma deve recarsi in esilio nella foresta. Non è quindi necessario che tu lo segua.” Sumitrâ, invece, non pensava in quei termini e possedeva tutte le virtù degne di una madre ideale. Lakshmana andò poi dalla moglie, Ûrmilâ, per informarla della sua decisione di accompagnare Râma in esilio per quattordici anni. Ûrmilâ era la figlia del re Janaka, ed era molto virtuosa; il suo spirito di sacrificio e la sua generosità non trovavano uguali. Essendo all’oscuro degli ultimi avvenimenti, stava dipingendo un quadro dell’incoronazione, prevista per il giorno successivo, che voleva rappresentare la stretta relazione esistente fra Râma e Sîtâ. Ella voleva inviare quel quadro a suo padre Janaka.
Quando Lakshmana entrò inaspettatamente, chiamandola a voce alta, ella era così concentrata sul suo lavoro che si spaventò e balzò in piedi di scatto. Nell’alzarsi, inavvertitamente versò del colore sul quadro che stava dipingendo, e si rattristò molto per averlo sciupato. “Mio Dio, l’ho rovinato!” ella esclamò. Allora Lakshmana le disse: “Non rattristarti! L’incoronazione di Râma è annullata a causa di Kaikeyî, e il quadro dell’incoronazione che stavi dipingendo è rovinato a causa mia, ma non preoccupartene.” La informò inoltre che avrebbe accompagnato Râma e Sîtâ nella foresta per servirLi.
Ûrmilâ fu contenta della sua decisione, e non tentò di ostacolarlo, né gli chiese di poterlo seguire, ma aggiunse: “Caro marito, mia suocera Sumitrâ diede alla luce te e tuo fratello Shatrughna per seguire il sentiero del servizio. Tu devi servire Râma, mentre Shatrughna deve servire Bharata. Adempi quindi con dedizione il tuo servizio e i tuoi doveri. Per nessun motivo devi pensare a me durante i quattordici anni che starai nella foresta. Se tu pensassi a me anche per un solo istante, non potresti servire Sîtâ e Râma con tutto il cuore. Pensa sempre soltanto al Loro benessere, e proteggiLi da ogni avversità. Dimenticati di me per i prossimi quattordici anni.”
Quale moglie avrebbe parlato in modo così determinato e disinteressato? La sua magnanimità e il suo altruismo indussero Lakshmana alle lacrime: “Ûrmilâ, non immaginavo che tu avessi un cuore così grande. Serberò sempre in me i tuoi nobili propositi.” Ûrmilâ rispose: “Non pensare ai miei nobili propositi. Pensa alla nobiltà di Sîtâ, e obbedisci agli ordini di Râma.”
Con queste parole, ella aiutò Lakshmana a servire Sîtâ e Râma, senza frapporre il benché minimo ostacolo.
Anche se si facessero ricerche non solo in questo, ma anche in tutti gli altri mondi, non si potrebbero mai trovare madri così nobili come Sumitrâ, né mogli così virtuose come Ûrmilâ.
Così essi partirono per la foresta.

L’arrivo di Hanuman

Durante la guerra fra Râma e Râvana, un giorno Lakshmana cadde svenuto sul campo di battaglia. Vedendo il suo amato fratello in quelle condizioni, Râma, molto sconsolato, versò lacrime di dolore. “Anche se dovessi cercare in tutto il mondo, potrei trovare un’altra moglie come Sîtâ, ma certamente non un altro fratello come Lakshmana. Come posso vivere senza di lui?” Egli esclamò.
Un dottore presente sul posto disse: “Lakshmana potrebbe riprendersi con l’aiuto di un’erba medicamentosa, chiamata sanjîvini , che si trova su una particolare montagna.” Allora Hanuman immediatamente volò verso quella montagna; non sapendo, però, riconoscere l’erba, sradicò l’intera montagna e fece ritorno portandola con sé.
Mentre volava sul villaggio di Nandi, trasportando la montagna, Bharata lo scambiò per un demone e gli lanciò contro una freccia. Colpito, Hanuman precipitò giù assieme alla montagna.
Avendo visto la scena, tutta la gente di Nandi e di Ayodhyâ accorse e lo circondò. Hanuman offrì i suoi rispetti a tutti i presenti, poi si rivolse a Bharata e gli disse: “Tuo fratello Lakshmana è caduto sul campo di battaglia e ha perso conoscenza. I dottori della città di Lankâ hanno richiesto l’erba sanjîvini per farlo rinvenire. C’è una pianta sul Monte Sanjîva , ma non sono stato in grado di identificarla esattamente e, perciò, ho portato con me l’intera montagna.” Nell’apprendere che Lakshmana era svenuto, e che Râma era affranto dal dolore, tutti coloro che si erano riuniti piansero desolati, specialmente le donne che erano inconsolabili. Hanuman, guardandosi intorno, vide tutti i presenti in lacrime, ad eccezione di una donna, Sumitrâ, la madre di Lakshmana, la quale osservò: “Perché piangere così? Râma non avrà mai sofferenza, e neppure mio figlio, Lakshmana, che recita incessantemente il Suo Nome. Lakshmana ripete costantemente ‘Râma, Râma, Râma, Râma, Râma.’ Ogni cellula e ogni atomo del suo corpo sono saturi del Suo Divino Nome; perciò non potrà mai esserci dolore per mio figlio o per Râma.” Ferma in questa convinzione, ella dimostrò di essere molto coraggiosa.

La determinazione di Ûrmilâ

Vedendo quel coraggio, Bharata portò Hanuman da Ûrmilâ. Ella non uscì mai dalla sua stanza: per ben quattordici anni rimase infatti nella stessa stanza in cui si trovava al momento della partenza di Lakshmana per la foresta; Ûrmilâ fece il voto di non muoversi da quella stanza, finché il marito non fosse tornato. Tale era la sua determinazione. Bharata andò, quindi, da Ûrmilâ: “Cognata! Guarda, è Hanuman!” Ella teneva la testa china e ascoltava; poi chiese a Hanuman da dove provenisse. Hanuman raccontò: “C’è una guerra in corso tra Râma e Râvana; Lakshmana è svenuto sul campo di battaglia, e Râma soffre molto, sta male e ripete: ‘Lakshmana, Lakshmana, Lakshmana! Come posso vivere senza di te?’e io, per proteggere la vita di Lakshmana, sto portando là la Montagna Sanjîva.”
Alle parole di Hanuman, Ûrmilâ rise e disse: “Hanuman, tu sei il figlio di Vâyu (il Dio Vento), e puoi risolvere ogni cosa. Ma non capisci? Anche il respiro di Lakshmana è saturo del Nome Divino di Râma. Come può accadere qualcosa di pericoloso a lui, che pensa sempre a quel Nome? Non è possibile, non può esserci pericolo alcuno per Lakshmana.” Ella gli fece una domanda: “Che cosa fa Râma, e che cosa fa Lakshmana?” Hanuman rispose: “Râma soffre e piange, mentre Lakshmana tiene gli occhi chiusi ed è sereno e pacifico.” Ûrmilâ, allora, osservò: “Poiché mio marito non ha alcun dolore, ha gli occhi chiusi ed è perfettamente tranquillo. Tutte le armi e le frecce che Râvana e i demoni scagliano, vanno a colpire Râma; per questo Râma è abbattuto.”
Alla devozione e al senso d’abbandono di Ûrmilâ e Sumitrâ non viene dato rilievo in nessuna parte del Râmâyana ; poiché a quei tempi c’erano delle donne così sacre e virtuose, la Madre era considerata l’incarnazione della Rettitudine, l’incarnazione dell’Amore e della Verità. Ûrmilâ e Sumitrâ, con i loro nobili ideali, protessero il mondo intero.
Ognuno di voi deve diventare su-mitra, un buon amico, avere un carattere amichevole, ed essere un figlio ideale. Oggi il paese ha bisogno di uomini e donne ideali.
Nei tempi antichi, non c’era nessuno in India che non avesse ascoltato la storia del Râmâyana; e, sebbene siano trascorsi migliaia di anni, la gloria del Râmâyana non è diminuita, tanto che esso continua a rimanere nuovo e fresco nel cuore della gente.
Chi recita il Nome di Râma ed ha la visione della Sua Forma Divina non avrà rinascita. Ecco perché il Saggio Vâlmîki ha tanto esaltato la grandezza del potere di Râma e del Suo Nome. Li ha descritti così bene!

(Swami intona il bhajan “Râma Kodanda Râma….” Poi continua il Discorso – N.d.T.)

Non esiste nettare più dolce del Nome di Râma

Incarnazioni del Divino Amore!
Non c’è nettare più dolce del Nome di Râma. Oggi la gente ha dimenticato la contemplazione del Nome Divino; ripete i nomi degli attori del cinema, ma non quello di Dio. No, no! Ecco perché la nazione incontra così numerose difficoltà. Qualsiasi individuo, per quanto grande sia, non pensa mai a “Râma”, “Krishna”. I dotti, gli intellettuali e i grandi scienziati considerano indegno mettere la vibhûti (la cenere sacra) sulla fronte. Se la mettono quando sono in casa, ma poi la strofinano via quando devono uscire! Ora ciò è diventato una moda! Questa moda uccide l’uomo.
Perché vergognarsi di cantare il Nome di Dio? Lasciate che la gente dica ciò che vuole; non dovete averne paura. Diffondete la gloria del Nome di Râma in ogni angolo, in ogni via e in ogni città del mondo. Râma, Krishna, Govinda, Nârâyana, Shiva e Vishnu; cantate qualsiasi Nome di vostra scelta.
Oggi quel ricordo è negletto. Da quando la gente ha dimenticato il Nome Divino, ogni casa è priva di pace, e ci sono conflitti persino tra fratelli. Qual è la causa di tutto ciò? Mancando la purezza interiore, s’infiltrano sentimenti peccaminosi.
La gente, oggi, corre dietro solo al denaro: soldi, soldi, soldi, soldi, soldi e alle posizioni di prestigio: posizioni, posizioni, posizioni, posizioni, posizioni. Ma che cosa sono queste alte cariche? Che cosa sono questi soldi? Denaro e potere possono forse proteggervi? C’è tanta gente al mondo che ha una quantità di soldi e occupa posizioni autorevoli. Godono forse costoro di pace e tranquillità? No, no! Solo il Nome Divino e il ricordo di Dio possono donarvi felicità, beatitudine e pace. Chi trascura il Nome di Dio va incontro alla rovina. Non dimenticatevene mai! Contemplate sempre il Nome di Dio.

Shiva è la Personificazione del sacro mantra pentasillabico “Namah Shivâya”.
Vishnu è la Personificazione del sacro mantra di otto sillabe “Namo Nârâyanâya”.

La sillaba “Ma” è la forza vitale del mantra di cinque sillabe:
Om Namah Shivâya .
Se si toglie ”Ma”, diventa Na Shivâya, che ha un significato negativo, non auspicale.
Allo stesso modo, la sillaba “Râ” è la forza vitale del mantra di otto sillabe:

Om Namo Nârâyanâya.

Il Nome Divino di Râma è formato, quindi, dalla forza vitale del sacro suono “Ma” del mantra “Namah
Shivâya”, nonché dalla sacra sillaba “Râ ” di “Namo Nârâyanâya”.

Studenti! Anziani! Devoti!
Non esiste nulla che possa proteggervi più del Nome Divino! Denaro e potere arrivano oggi, e se ne vanno domani: sono come nuvole passeggere, nuvole passeggere, nuvole passeggere. Non lottate per conseguirli.
Vi possono arrivare alte cariche. Con quale mezzo? Attraverso la politica! Per quanto tempo dureranno queste posizioni prestigiose ottenute con la politica? In qualsiasi momento vi potete trovare sloggiati e privati di tali cariche. Non lottate per ottenere il potere che proviene dalla politica: esso deve provenire dal cuore. Prendete rifugio nel Nome Divino: benedetto e veramente meritevole è solo chi ha il cuore pieno del Nome del Signore.
Quelli che non apprezzano il Nome Divino possono divertirsi alle vostre spalle, e qualcuno potrà anche dirvi che non c’è nessun Dio; ma quale deve essere la vostra risposta? “Può non esistere per te, ma Dio esiste per me. Chi sei tu per negare l’esistenza del mio Dio? Chi sei tu? Io ho il mio Râma. Io ho il mio Shiva. Tu dici che Dio non esiste? Può non esistere per te, ma Dio esiste per me.” Nessuno ha il diritto di negare il vostro Dio, e voi dovete lottare per mantenere tale diritto. Ovunque vi troviate, e in qualsiasi situazione siate, non dimenticate mai il Nome di Dio.
Sempre, ovunque, e in ogni circostanza vi sia la contemplazione di Dio.

(Baghavân ha concluso il Suo Discorso cantando il bhajan : “Râma Râma Râma Sîtâ …” ).

Whitefield, 21 Aprile 2002
Sai Ramesh Krishan Hall,
Anniversario dell’avvento di Râma

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