20 Ottobre 2002 (Declaration Day) – A qualunque costo, vicini a Swami

20 Ottobre 2002 (Declaration Day)

Discorso Divino di Bhagavan Sri Sathya Sai Baba

A qualunque costo, vicini a Swami

“La domenica del 20 ottobre (1940),
la spilla da colletto cadde e non fu più ritrovata.
La spilla delle relazioni col mondo era stata rimossa.
Vedendo il sacro suolo di Hampi, mâyâ (l’illusione) fu cancellata,
e Io lasciai la casa.”

“Vai a portare Sathya”

Incarnazioni dell’Amore!
Mentre ero a Uravakonda, il sovrintendente comunale si trovava a Bellary. Una notte, fece un sogno, in cui qualcuno gli disse: “Vai alla tal casa, al tale numero e porta Sathya.”
Anche sua moglie, Lakshmi Devî, proprio nello stesso momento, sognò qualcuno che le diceva: “Madre, andate entrambi. Andate a portare Sathya!”
Essi arrivarono. Pensavano che Sathya fosse un uomo grande e grosso e una grande personalità.
Ora sono alto (circa) un metro e cinquantatré, ma, allora, ero anche più piccolo! Indossavo un paio di pantaloncini alla zuava e una camicia, e avevo dodici anni.
Non appena uscii fuori e Mi videro, sia il commissario sia sua moglie esclamarono: “È quello che abbiamo visto in sogno!” Erano molto felici e fecero shashthânga namaskâr sulla strada.
Andando a scuola, stavo portando con Me due libri: a quel tempo frequentavo la quarta classe.
Bene. Essi arrivarono e trovarono il fratello di questo Corpo, Sheshama Râju, al quale dissero: “Qualunque cosa comporti, oggi dovete prendervi una vacanza e portare Sathya a Bellary.” Così, egli fece tutti i preparativi.
“Dato che a chiedermi questo è un sovrintendente comunale, un importante pubblico ufficiale, non mi è possibile rifiutare”; pensando ciò, Sheshama Râju accettò la proposta e immediatamente andò dal preside e gli disse: “Il sovrintendente mi ha chiesto di portare Sathya a Bellary. Bisogna concederGli, senza meno, un permesso.” A quel tempo, Kameshvara Rao era preside della scuola elementare. Rispose in questo modo: “Sathya deve esser portato non solo a Bellary, ma anche da ogni altra parte. Non occorre chiedermelo.” Egli offrì anche la sua auto, con la quale arrivai a Bellary. Qui il sovrintendente e sua moglie Mi tennero a casa loro per tre giorni.

Un grande Potere Divino

Pensando che era molto vicino da dove ci trovavamo, essi Mi portarono al tempio di Virûpâksha (nella città di Hampi – N.d.T.). Poi Sheshama Râju e sua moglie vi entrarono. Dissero: “Entriamo per avere il darshan di Virûpâksha. Tu rimani vicino ai bagagli.” Io acconsentii, dicendo: “Va bene, rimarrò qui.” Così entrarono nel tempio. Quando giunsero al sancta sanctorum, videro che Io, in persona, Mi trovavo lì! (Applausi).
Sheshama Râju non riusciva a capacitarsi: “Che cosa significa questo? Sebbene a Sathya sia stato detto di restare fuori, come mai è qui?” (Risate).
Tornò fuori a guardare. Io ero seduto là. Allora tornò all’interno del tempio. Io ero là dentro. (Applausi). Tuttavia, la sua perplessità non scomparve; quindi, disse alla moglie di uscire (suggerendole): “Rimani vicino a Sathya e vedi che non si muova. Io starò dentro.” Così dicendo, tornò vicino al sacrario, e, ancora una volta, Io ero là, sorridente!
Anche il sovrintendente e sua moglie erano venuti con noi; assistettero alla scena, e, dopo che il sovrintendente fu uscito, prese le mani di Sheshama Râju e disse: “Râju, stai commettendo un grosso errore. Egli non è tuo fratello; non è un comune individuo. Stai sbagliando a causa del tuo sentimento personale. Abbiamo a che fare con un grande Potere Divino.” (Applausi).
Così, tornammo a casa, mangiammo e partimmo alla volta di Uravakonda.

La scomparsa della spilla

“Di ritorno da Hampi, Baba andò a scuola.
La spilla fermacolletto cadde strada facendo
e non fu più trovata.”

Il sovrintendente domandò: “Che cosa diamo a Râju?” Dissi che non avrei preso nulla. Egli, però, replicò che Mi avrebbe fatto fare quattro camicie e quattro paia di pantaloncini.
“Non quattro: non ne accetterò neppure uno”, (dissi).
Sua moglie intervenne: “Basta! Non è giusto forzarLo.”
I ragazzi di allora erano soliti appuntarsi delle spille sui colletti. Se qualcuno ne indossava una, veniva considerato una persona importante (giacché quella spilla denotava una persona di prestigio – N.d.T.). Egli, rapidamente, andò a prendere una spilla d’oro e Me l’appuntò sul colletto. Io non toccherò mai le cose di qualcun altro.
Bene. Dopo esser giunto lì, Sheshama Râju disse: “Te l’ha donata. Non essere scortese. Tienila addosso!” La tenni e andai a scuola.

“Baba tornò da Hampi.
Mentre andava a scuola,
la spilla fermacolletto cadde
e non fu più ritrovata.
Quel giorno qualcosa cambiò:
fu rimossa la spilla delle relazioni col mondo.”

Ogni relazione col mondo è simile a una spilla, per Me. (Applausi). Essa fu rimossa.
Dissi: “Devo andare ad alleviare le sofferenze dei devoti.” Quindi, gettai da parte i libri.
Un giorno andai nel giardino di Hanumantha Rao, l’Ispettore dell’Ufficio delle Imposte. Egli era un ardente devoto. “Oh! È venuto Râju! È venuto Râju!” – disse alla moglie; poi prepararono qualcosa da mangiare. Nessuno, però, toccò quel cibo. Nulla fu toccato! Arrivò Sheshama Râju che, facendo una certa premura, disse: “Sathya, andiamo a casa! Andiamo a casa!”
Io risposi: “Non verrò!” Non ero solito replicare, e, quando gli risposi in quel modo, rimase molto sorpreso (e pensò): “Dove mai avrà trovato, Sathya, tanto coraggio?”
Io, intanto, sorridevo e continuai a sorridere, tanto che lo splendore che irradiava dal Mio viso, lo coprì completamente. Immediatamente tornò a casa, per spedire un telegramma a Puttaparthi.
A quei tempi, perché un telegramma arrivasse a Puttaparthi ci voleva una settimana. Perciò, mandò un ragazzo della scuola perché lo recapitasse. Nel telegramma c’era scritto che entrambi avrebbero dovuto recarsi lì immediatamente. Ma chi doveva andar lì? Îshvarâmmâ e Pedda Venkappa Râju (i genitori di Sai Baba – N.d.T.). Esso diceva: “Dovete partire entrambi e venire qui!”
Così, essi arrivarono, e, il secondo giorno, la gente del villaggio notò che i genitori di Swami erano nella casa di Sheshama Râju. Egli, poi, li condusse alla casa di Anjaneyulu (altro nome di Hanumantha Rao – N.d.T.).
Qui Îshvarâmmâ, piangendo copiosamente, Mi disse: “Figlio, torniamo a casa di tuo fratello. Su, andiamo!”
Io, però, risposi: “Non ci andrò. Se vuoi che venga via di qui, verrò solo per tornare con te a Puttaparthi. Ci andrò e renderò felici gli abitanti. E lo farò spontaneamente.”

Tutti piangevano

Il giorno successivo, si doveva condurre la preghiera, cosa che, a scuola, avevano pensato di affidare quotidianamente a Me. Lakshmipati soleva dire: “Anche se sei molto giovane, non importa. Le Tue preghiere penetrano nel cuore.” Così, ogni giorno, ero Io a condurla. Quel giorno, i Miei genitori, dicendo: “Devi tornare a Puttaparthi”, decisero di farMi partire in corriera.
Tutti gli studenti rimasero seduti, esclamando: “Vogliamo venire con Te!” (Swami continua a parlare con la voce rotta dall’emozione – N.d.T.).
Tutti restarono seduti in lacrime e nessuno si alzò per andare alla preghiera. C’era un ragazzo, Ramesh, che era compagno di banco di Swami. Conosceva le Mie canzoni (i canti-preghiera che Swami componeva – N.d.T.); quindi salì i gradini del palco e cominciò a cantare la preghiera, ma scoppiò subito in lacrime. (La voce di Swami è ancora rotta dalla commozione – N.d.T.).
Piangevano tutti. Ciò era dovuto al fatto che Râju non era più con loro. “Non sappiamo che farcene di questa preghiera”, (essi dissero). Tutti volevano andare a Puttaparthi; ma come si sarebbe potuta sistemare tutta quella gente in quel piccolo villaggio? Sarebbe stato molto difficile. Quindi, con fermezza, dissi a Kâmeshvara Rao di convincere in qualche modo i ragazzi a non seguirMi. Così essi se ne andarono.

“Scrissi tutte le risposte”

Ai tempi della scuola, seduto al centro, dividevo il banco con Ramesh e Suresh. Essi Mi sedevano accanto: uno da una parte e uno dall’altra. Venne il momento dell’E.S.L.C. (l’esame di stato, ovvero l’Elementary School Learning Certificate – N.d.T.).
Quando eravamo in classe, ero solito suggerir loro tutte le risposte. Essi, perciò, in quell’occasione, erano molto preoccupati. Uno di noi ebbe il numero di registro 108, uno il 95 e l’altro il 5. Eravamo quindi separati e distanti di posto.
“Che cosa sarà di noi?” – essi pensavano provando grande ansia. Dissi loro: “Non c’è bisogno che scriviate nulla. Lo farò Io per voi. Anche se non scrivete niente, fingete d’impegnarvi nel compito; poi uscite.” (Applausi). Scrissi tutte le risposte sul Mio foglio in dieci minuti. Il tempo a disposizione per il compito era di due ore. Su un altro foglio scrissi tutte le risposte di Ramesh con la sua scrittura, e, in fondo al foglio, firmai ”Ramesh”. Feci altrettanto su un nuovo foglio per Suresh, imitando la sua scrittura, firma compresa.
Secondo l’uso di quei tempi, i risultati venivano comunicati il giorno successivo alla fine degli esami.
I compiti non venivano mandati lontano, come a Delhi o Hyderabad. Il giorno dopo, dunque, arrivarono gli esiti. Tutti e tre ottenemmo il massimo dei voti. Un grande stupore subentrò fra gli insegnanti, giacché non avevano modo di pensare: “Hanno copiato fra loro”, dato che uno di noi sedeva al posto 108, uno al 95 e l’altro al 5.
I nostri posti erano infatti ben distanti, e non sarebbe stato possibile copiare. Era impossibile. E poi c’erano anche le loro firme. Così, a Uravakonda, fummo portati tutti e tre in processione per le strade. C’era una tale intima amicizia fra Me e quei ragazzi! Essi avevano 12 e 14 anni.
Quando lasciai Uravakonda, Suresh impazzì; continuava a ripetere: “Râju, Râju, Râju, Râju!” Ramesh andò vicino a un pozzo, vi cadde e perse la vita. Aveva detto: “Senza Râju, non tornerò più a scuola.” Anche per Suresh fu lo stesso: essendo impazzito e continuando a ripetere: “Râju, Râju, Râju, Râju”, i genitori lo fecero ricoverare in un ospedale psichiatrico. Egli, tuttavia, non migliorò.
Allora, i suoi genitori vennero da Me e Mi pregarono: “Se vedrà il Tuo volto sarà felice. Vieni a trovarlo almeno una volta!”
Mi condussero all’ospedale psichiatrico di Bellary. Quando fui in presenza di Suresh, lo sentii ripetere: “Râju, Râju, Râju, Râju!” VedendoMi, cominciò a urlare, a piangere e cadde ai Miei piedi, ove esalò l’ultimo respiro.
Ramesh e Suresh si erano arresi a Me. Erano soliti dire: “Dobbiamo sempre stare con Te. Non sopravviveremmo neppure un istante lontani da Te!”

Jack e Jill

Dopo il Mio ritorno a Puttaparthi, Subbâmmâ mise a disposizione un acro di terra (pari a mq.4.046 – N.d.T.) vicino al tempio di Satyammâ (altro nome di Satyabhâmâ – N.d.T.). Su quel terreno fu costruita una piccola casa. Fu in quel periodo che Ramesh e Suresh tornarono da Me sotto forma di due cuccioli. La sorella minore del râja (sovrano) di Mysore trovò i due cuccioli molto graziosi e li chiamò “Jack” e “Jill”. La gente era solita chiamarli: “Jack e Jill, Jack e Jill, Jack e Jill!” La mahâranî (regina) di Mysore aveva una sua vita del tutto personale. La si vedeva sempre fare la pûjâ. Prima, sulla pianta (da cui traeva i fiori), spruzzava acqua, poi latte. Indi, coglieva i fiori, e, con quelli, preparava la pûjâ. Volendo vedere Swami, questa signora arrivava in auto fino a Karnatanagapalli; poi, non essendoci strade asfaltate per Puttaparthi, da lì copriva la distanza a piedi fino al Vecchio Mandir, che ora è diventato il Kalyâna Mandapam (salone da matrimoni). Precedentemente, in quel luogo, c’era un capannone di modeste dimensioni.
Un lavandaio di nome Subbanna, uomo molto leale, che amava Baba al pari della sua stessa vita, era colui che si prendeva cura, giorno e notte, del Patha Mandir (il Vecchio Mandir).
La mahâranî arrivò, fece namaskâr a Swami e affermò di doversene andare. Io le dissi: “Rimani una notte. L’autista deve tornare alla macchina (parcheggiata a Karnatanagapalli) e ripararla, non è vero?” L’autista consumò un pasto, poi tornò a Karnatanagapalli. Dissi a Jack: “Quell’uomo se ne sta andando, Jack. Va’ con lui.” Il cane obbedì e dormì tutta la notte sotto la macchina. Il giorno dopo, di buon mattino, quando l’autista si svegliò, pensò: “La mahâranî deve partire!” Così mise in moto e partì, senza rendersi conto che Jack era sotto l’auto. La ruota gli passò sopra e gli ruppe l’osso del collo. Urlando e gemendo, si trascinò da quel luogo per giungere fin qua, poverino!
Subbanna venne da Me e disse: “Swami, Jack sta soffrendo molto. Deve essergli successo qualcosa di brutto.”
In quel mentre, il cane arrivò, e Io uscii fuori. (La voce di Swami è rotta dalla commozione – N.d.T.).
Stava arrivando, continuando a guaire. Pian piano giunse ai Miei piedi, vi si lasciò cadere ed esalò l’ultimo respiro! Quella piccola costruzione (brindavan) dietro al Vecchio Mandir, è la tomba di Jack. Non fu eretta al centro. Avevo infatti detto: “Costruitela di lato. Dovrà esserci posto per un’altra tomba.”
Bene. Dopo alcuni giorni, a causa della morte di Jack, Jill smise di mangiare, e continuò sempre a guaire. Poi, anch’essa morì. La tomba di entrambi fu il brindavan sul retro del Vecchio Mandir.
Queste furono le penitenze a cui si sottoposero Ramesh e Suresh: pur di stare vicini a Swami, si reincarnarono come cani e vissero a Prashânti Nilayam.
Prima la scomparsa della spilla fermacolletto, poi il ritiro dalla scuola e in seguito l’arrivo dei Miei genitori per portarMi qui: questi furono gli avvenimenti che si susseguirono a Uravakonda, a causa dei quali lasciai quei luoghi. Da allora (una volta che fui giunto qui), molte persone di Bangalore e Mysore cominciarono a venire in macchina in visita in questo luogo.

“Non lascerò mai Puttaparthi”

Sakâmmâ, detta “Sakâmmâ del caffè” (una signora proprietaria di piantagioni di caffè – N.d.T.), la mahâranî di Mysore e altre regine, Dasaraj Arasu, lo zio materno del mahârâja di Mysore, erano fra quelli che venivano qui. Un giorno dissero: “Swami, è così difficile arrivare fin qui. Vieni (a stabilirTi) a Mysore. Ti daremo una grande casa.” Io risposi: “Per Me non sono importanti i palazzi. Devo stare qui.” Quella notte Îshvarâmmâ venne da Me in lacrime e disse: “Swami, la gente viene e vuole portarTi via. Vogliono farlo per scopi egoistici, e dicono: ‘Vieni, vieni!’ Se lasci Puttaparthi, io non potrò vivere. Promettimi, quindi, che resterai qui.” Le detti la Mia parola: “Non lascerò mai Puttaparthi.” (Applausi).
È per tale motivo che ho fatto costruire tanti edifici nell’âshram, dando comodità e servizi a tutti i devoti che vengono.
A quelle parole, Desaraj Arasu e Sakâmmâ pensarono che non fosse bene ci fosse solo quel piccolo tugurio, ed ebbero l’idea di erigere un piccolo edificio, un po’ fuori del villaggio. Lo zio materno del Mahârâja e Sakâmmâ si recarono in quella zona e presero le misure. Dissero che volevano acquistare dieci acri di terra.

La famiglia di Jayâmmâ

Quando fu costruito l’âshram di Prashânti Nilayam, c’era qui un uomo di profonda devozione e fede: Vittal Rao. Non solo era un ardente devoto, ma anche un importante ufficiale. Era ufficiale forestale durante il dominio britannico. Egli disse: “Swami, me ne occuperò io.” Jayâmmâ (professoressa Jayalakshmi Gopinath – N.d.T.) ha appena parlato diffusamente (esponendo i suoi ricordi di quel periodo). Vittal Rao era suo padre. (Applausi). Egli si offrì volontario per sovrintendere ai lavori di costruzione del mandir. In seguito, anche R.N. Rao di Madras, Nîladri Rao, il genero di Pithapuram mahârâja, e il genero di Boroda mahârâja presero parte attiva ai lavori di edificazione.
Grazie all’intervento di tutte queste persone, il mandir fu portato a termine in brevissimo tempo. Inoltre, c’è da dire che, nonostante si fosse in tempo di guerra e non fosse per nulla facile trovare del ferro (per i lavori di costruzione), essi, in qualche modo, con tanta fede, riuscirono a procurarselo e il lavoro riuscì ottimamente.
Detti loro la Mia parola che non sarei andato là finché la costruzione non fosse ultimata. Mi comporto sempre in armonia con le promesse che faccio alle persone, ai devoti. A Me, non occorre nulla. Non ho bramosie né desideri. Dalla testa ai piedi, non sono ancorato ad alcun desiderio.
Dunque, entrambi (Vittal Rao e Jayâmmâ) lavorarono intensamente notte e giorno, pagarono i muratori e alla fine tutto fu portato a termine. A quei tempi, Jayâmmâ era una ragazzina. Suo padre si metteva in macchina dicendo: “Devo andare a Puttaparthi perché oggi i muratori devono essere pagati.” Erano soliti venire ogni domenica per pagarli. Jayâmmâ insisteva per accompagnarlo (dicendo): “Voglio venire anch’io! Voglio venire anch’io!”
Vittal Rao era molto affezionato alla figlia. Erano soliti portarsi in macchina del cibo preparato a Bangalore.
Il rapporto con Swami è tuttora vivo. Sono stati con Me per 55 anni. La famiglia di Jayâmmâ ha fatto servizio durante gli ultimi 60 anni. Vennero qui quando questo Corpo aveva 17 anni. Ora ne ha (quasi) 77. Quindi, sono passati sessant’anni.
Jayâmmâ, venendo qui e imparando a cantare i bhajan di Swami, sviluppò sentimenti profondamente nobili. Dato che le cose andarono avanti in questo modo, nacque con Swami un rapporto molto intenso.
Comunque, nulla si ottiene senza merito. Nessuna cosa arriva semplicemente perché la si desidera, né (avendola meritata) se ne va perché non la si vuole. Tutto è il risultato dei meriti maturati nelle vite passate.
La famiglia di Jayâmmâ ha dunque ottenuto tanti meriti e tanta buona sorte.

Venkâmmâ e Parvatâmmâ

Quando Jayâmmâ (nel suo discorso) ha parlato tanto di Venkâmmâ, ripetendo: “Venkâmmâ Garu, Venkâmmâ Garu, Venkâmmâ Garu”, sono rimasto molto toccato. Venkâmmâ Garu Mi portava sempre il cibo. Jayâmmâ Garu stava sempre con lei per imparare a cucinare. Fra loro esisteva un’intima amicizia.
Più tardi, si aggiunse anche Parvatâmmâ, sorella minore di Venkâmmâ. Anche Parvatâmmâ cominciò a portarMi il cibo. Si alternavano in questo compito: una al mattino e una la sera. Il loro desiderio era: “Swami non deve consumare il cibo preparato da chicchessia. Deve mangiare solo quello che Gli cuciniamo noi. Dati i tempi che corrono, non è bene farlo preparare da altri.”
Così, Mi strapparono la promessa che avrei mangiato solo il cibo cucinato da loro. Finché ebbero vita, Mi offrirono il loro servizio. Entrambe lasciarono le spoglie mortali a Bangalore, all’ospedale Manipal. Vi furono portate da qui. Venkâmmâ, quando fu trasportata all’ospedale, era in stato d’incoscienza. Non aveva mai aperto gli occhi. Mi recai là e la chiamai: “Venkâmmâ!” Aprì gli occhi e vide Swami. Mi prese le mani e fece namaskâr ponendosele sugli occhi. Versò qualche lacrima e abbandonò la vita.
Successe lo stesso anche per Parvatâmmâ, sempre a Bangalore. Anch’ella fu portata all’ospedale in stato d’incoscienza. Mi recai in quel luogo e la chiamai. “Parvatâmmâ, Parvatâmmâ!”
La sua reazione fu identica (a quella della sorella). Aprì gli occhi, pianse ed esalò l’ultimo respiro.
Fintantoché furono in vita, servirono Swami portandoGli in cibo ogni giorno, una al mattino e l’altra la sera.
Questa intima relazione col Signore è il risultato dei meriti delle vite passate; non è qualcosa che si possa ottenere attraverso uno sforzo umano. Non si curarono mai delle loro precarie condizioni di salute e continuarono a servire Swami. La loro vita è stata santificata.

Karnam Subbâmmâ

Anche per Karnam Subbâmmâ è stata la stessa cosa. Sebbene fra lei e Swami non ci fossero legami di parentela, ella, emozionalmente, si sentiva molto attaccata a Swami.
“Swami, Swami, Swami”, ripeteva sempre. “Swami, Swami, Swami.” A un certo punto, Mi chiese di abitare a casa sua. Disse di esser pronta a sgombrare la casa da qualunque cosa pur di far posto a Me. Molti parenti andarono a dirle: “Tu sei una bramina (la casta sacerdotale – N.d.T.), mentre essi (nella famiglia di Swami) sono kshatrya (la casta dei guerrieri – N.d.T.). Come puoi permettere a uno kshatrya di stare a casa tua?” Furono in molti a dirle ciò, ma ella, con tono deciso, rispondeva: “A me non occorre nessuno: mi basta avere Swami. Non c’è bisogno che nessuno mi porti dei bambini, perché io ho Swami, e non c’è neppure necessità che io mi occupi dei figli, dato che non li ho. Non andrò a casa di nessuno, e nessuno è obbligato a venire da me. Mi basta avere Swami con Me.”
Chiese un’unica cosa: “Swami, alla fine della mia vita, vorrei vedere il Tuo bellissimo volto.” Dissi che l’avrei accontentata.
I devoti (una volta) Mi portarono a Madras per assolvere un certo compito. Subbâmmâ, dal canto suo, andò a Bukkapatnam a casa della madre. A quei tempi, era molto complicato spostarsi da un posto all’altro.
Ebbene, quando tornai a Madras, Subbâmmâ aveva esalato l’ultimo respiro, mentre noi eravamo per strada, e già stavano preparando la legna (per la cremazione). Quando (i devoti di Puttaparthi) Mi videro, esclamarono: “Swami, Swami, Swami, la tua Subbâmmâ è trapassata la notte scorsa.”
Allora Io, che ero appena arrivato, feci subito girare la macchina per recarMi a Bukkapatnam.
Il suo corpo era steso nella veranda, coperto da un lenzuolo. Tutta la famiglia era molto addolorata. Andai da lei, come le avevo promesso. Quali che siano le circostanze, una promessa fatta va sempre mantenuta. Andai là, e le tolsi il lenzuolo: una miriade di formiche brulicavano su quel corpo morto. La chiamai: “Subbâmmâ!” ed ella aprì gli occhi. (Applausi).
La gente di Bukkapatnam cominciò a urlare per il villaggio: “Subbâmmâ è viva! È viva! È viva!” A quel tempo, sua madre aveva cento anni ed era molto afflitta. Le dissi: “PortaMi un bicchier d’acqua con dentro una foglia di tulsî.” Versai un po’ di quell’acqua in bocca a Subbâmmâ, facendogliela bere. Poi le dissi: “Subbâmmâ, ho mantenuto la Mia promessa. Ora puoi chiudere gli occhi in pace.”
Ella rispose: “Che altro potrei desiderare, Swami? Me ne vado felice!” Mentre versava lacrime e sorrideva, Mi prese le mani e disse. “Me ne sto andando, me ne sto andando, me ne sto andando!” Fu questo il modo in cui Subbâmmâ spirò.
Io non verrò mai meno alle promesse fatte. Subbâmmâ aveva speso la sua vita nel servizio.
Ai tempi dell’Incarnazione di Krishna, Yashodâ (la madre adottiva – N.d.T.) nutrì più amore per Lui di quanto non ne avesse nutrito Devakî (la madre naturale – N.d.T.).
In passato Îshvarâmmâ e Subbâmmâ solevano conversare fra loro dalle finestre (delle loro rispettive case).
Poiché fra i loro mariti non intercorrevano buoni rapporti, non potevano farsi visita l’un l’altra. Perciò, si parlavano dalla finestra. Esse si volevano molto bene.

Padda Venkappa Râju

Fui Io a scegliere i genitori di questo corpo. Pedda Venkappa Râju (il padre di Baba – N.d.T.) viveva a Puttaparthi ed era solito aiutare i devoti. Se a qualcuno servivano una noce di cocco o delle lenticchie, correva a Bukkapatnam per trovarle. Anch’egli svolse tanto servizio. Prima che arrivasse il momento della sua morte, venne nell’âshram di Prashânti Nilayam.
Avevo già chiamato delle persone per un’”interview” e le avevo fatte accomodare dentro (la saletta). Quando ero già seduto sulla sedia, egli arrivò (al mandir). “Perché sei venuto?” – gli chiesi. Rispose: “C’è un lavoretto da fare.” Replicai: “Entra! Di che tipo di lavoretto si tratta?” “Swami, non voglio aver debiti con nessuno. Non voglio lasciarmi dietro alcun debito. I debiti devono esser pagati. Quando lavoravo, potrei aver dimenticato di restituire qualche moneta a qualcuno. Perciò; per ovviare a questa mancanza, ho lavorato duramente e messo da parte questo.” Dicendo ciò, Mi mise in mano 500 rupie. Poi aggiunse: “Ho messo da parte anche cinque sacchi di riso e due sacchi di zucchero. Dai tutto questo ai poveri il dodicesimo giorno che seguirà la mia morte. Dopo aver pronunciato queste sagge parole, andò a casa, si addormentò e morì.

Îshvarâmmâ

Poi (parliamo) di Îshvarâmmâ. Si stava svolgendo il Corso Estivo a Bangalore (Brindavan). Ella arrivò e disse: “Ovunque sia Swami, ci sarò anch’io.” Infatti, assistette al Corso Estivo. Fu felice di vedere, lì riuniti, tanti studenti di varie età, poverina! Durante il pranzo, servì loro dell’acqua. Era sempre molto felice di dire: “Non si sono avuti mai eventi come questo. È per merito di Swami che abbiamo tanta buona sorte. Siamo davvero molto fortunati!”
Un giorno, si stava servendo la colazione agli studenti; anche Îshvarâmmâ mangiò e bevve del caffè.
Venkâmmâ era con lei, poiché era solita occuparsene.
Îshvarâmmâ aveva l’abitudine di schiacciare delle noci di betel, per poi mangiarle, poverina!
Anche quel giorno si mise all’opera, e Io potevo udire il rumore di quell’operazione anche dal piano di sopra. All’improvviso gridò: “Swami, Swami, Swami!”
Risposi. “Vengo! Vengo!” Le dissi che stavo arrivando. Appena arrivai giù, ella esalò l’ultimo respiro. Non provò alcuna sofferenza. Non ebbe dolore né agli occhi, né alle gambe e neppure mal di testa. Entrambi (i genitori di Swami) se ne andarono in questo modo.
Tutti costoro erano stati scelti da Swami: la loro vita fu, dunque, davvero sacra e fu santificata.

Il nostro rapporto è da cuore a cuore

Anche per Ramesh e Suresh fu così. Furono molto vicini a Swami. Avevano 11 e 13 anni. Anche se erano solo dei ragazzini, amavano Swami intensamente. I loro genitori avevano fatto confezionare per loro dei vestiti. Io non avevo denaro e non ne chiedevo a nessuno.
Una volta Ramesh portò due vestiti, ne mise uno sotto il Mio banco e se ne andò. Lasciò un biglietto in cui c’era scritto: “Râju, se non li accetti mi ucciderò.”
Io però gli dissi: “L’affetto che ci lega non deve basarsi su tale rapporto. La nostra relazione è cuore a cuore. Cuore a cuore e amore ad amore. Le relazioni basate sul dare e avere non sono affatto durature”. Questo è sempre stato il Mio modo di comportarMi.
Da allora, fino ad oggi, non ho mai accettato niente da nessuno. Per quanto riguarda il cibo, ancora oggi, esso parte dalla loro casa (cioè dalla casa dei parenti di Swami – N.d.T.). Qui vive il figlio di Sheshama Râju, e, come sapete, anche l’altro nipote di Îshvarâmmâ, Janakiramayya.
C’è anche sua moglie, che prepara il cibo per Me e Me lo porta, come fa pure la figlia di Parvatâmmâ.
È così che ogni giorno servono Swami. La sera Io non mangio. Quando al mattino si alzano, preparano il cibo per poi portarlo da casa loro. Mantengo molto salda l’intima relazione che essi hanno con Me. Io non farò mai del male a nessuno. Infatti, affermo:

“Aiutare sempre, mai fare del male.”

Io non farò mai soffrire nessuno. Ecco, dunque, l’intima relazione che esiste fra Me e la Mia famiglia.
Alcune Incarnazioni sono avvenute grazie all’amore e all’anelito (di alcuni genitori affinché il Divino si incarnasse nella loro famiglia). Nel Mio caso, però, non è stato così.
Io ho scelto (i genitori) e li ho fatti nascere come Miei congiunti. (Applausi). “Quella” doveva essere Mia madre e “quello” doveva essere Mio padre. Volendo questo personalmente, li ho fatti nascere. Questo Corpo non è nato in un comune modo mortale e con parenti ordinari.
Non è mai accaduto che Io abbia, in qualche modo, danneggiato qualcuno. Infatti, quando faccio del bene agli altri, sono felice. Ecco perché ai devoti dico sempre:

Lokâssamastâh sukhino bhavantu
“Possano tutti, al mondo, essere felici.”

Tutti dovrebbero stare bene, essere felici, essere sereni. Nessuno deve far soffrire gli altri. In questo modo (con queste sacre motivazioni), ho diffuso il messaggio dell’Amore in tutto il mondo.
I Miei studenti sono la Mia più grande proprietà. (Applausi). Gli studenti delle scuole elementari, delle scuole medie inferiori e superiori, e dell’università sono sempre con Me. Essi non possono stare senza di Me e Io non posso stare senza di loro. Tutto il Mio Amore è per il bene della gente. La felicità dell’umanità è la Mia vita (la Mia felicità – N.d.T.).
Dunque, vi voglio informare pienamente circa la Mia natura. Per tale ragione, la domenica del 20 ottobre 1940, annunciai la Mia Incarnazione come Avatâr. Io farei a meno di celebrare il Mio compleanno, ma i devoti non Mi lasciano stare (non vogliono rinunciarvi – N.d.T.). Essi dicono: “Swami, è il Tuo compleanno! È il Tuo compleanno! Deve esser celebrato!”
Non voglio nulla per me. Il Mio (vero) compleanno è la felicità di tutti.
Io non ho un particolare compleanno: il vostro compleanno è il Mio compleanno. (Applausi).
Sebbene i corpi siano diversi, non si deve lasciare spazio a sentimenti duali.

“Tutti sono uno. Siate equanimi con tutti.”

L’intima relazione che ho con i Miei devoti non ha radici umane. È una relazione basata sull’Amore divino.

(Baba ha concluso il discorso con il bhajan: “Prema Muditâ Manase Kaho…”).

Prashânti Nilayam, 20 ottobre 2002
Sai Kulwant Hall
Giorno dell’ Avatâr
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