“La sacra sillaba Om risiede nel Principio Divino.
La Verità è sotto il controllo delle persone nobili.
Una persona nobile è il Dio Supremo.
L’intero universo è sotto il controllo del Divino.
Il Divino è governato dalla Verità.
La Verità è tutelata dalle persone nobili.
Una persona nobile è il Dio Supremo.”
Il Râmâyana è essenziale nella società moderna
Incarnazioni dell’Amore Divino!
Il Râmâyana è essenziale nella società moderna. Oggi non c’è figlio che rispetti suo padre. Non c’è padre che dia amore paterno a suo figlio. Non c’è discepolo che rispetti il proprio maestro. Non c’è maestro che doni amore paterno ai propri studenti. In una condizione simile, il Râmâyana è una sacra storia che fornisce un esempio ideale sotto ogni punto di vista. Come si devono comportare i genitori a casa? Che ideali devono trasmettere ai figli? Oggi non si tiene affatto conto di ciò. Come si devono comportare i fratelli fra loro? Che cosa devono fare per mantenere il rispetto e il buon nome della famiglia? Oggi tali ideali non sono minimamente presi in considerazione. Come si deve comportare il marito nei confronti della moglie, e quale condotta deve mantenere la moglie verso il marito, al fine di rappresentare un esempio ideale per la società? Oggi tutto ciò non accade, tanto che il rispetto, il pudore e la buona creanza sono in grave declino, mentre la licenza ha superato il limite. Questo è contrario alla spiritualità. In una situazione del genere, l’antica e sacra storia del Râmâyana serve da esempio, e indica la via ideale da seguire in ogni circostanza. Come si deve allevare un figlio? Come deve essere educato e tenuto sotto controllo? Quali ideali trasmettergli? Oggi, i genitori neppure si pongono queste domande; essi pensano che la loro responsabilità sia esaurita quando iscrivono il bambino a una scuola elementare, al suo quinto (o sesto) anno d’età. Innanzitutto, per il bambino la casa dei genitori è la prima scuola, e qui deve imparare a rispettare i più grandi. In che modo dire la Verità ? Come si devono praticare la Verità e il Dharma? Se un bambino inizia ad andare a scuola, come si deve comportare? Che rispetto deve portare agli insegnanti? Come deve comportarsi con i suoi compagni? Oggi, nessuno pensa minimamente a queste cose! Come devono comportarsi i bambini con gli altri scolari? Non solo: anche la disciplina e le regole della scuola devono essere seguite, e tali norme disciplinari applicate nella scuola devono essere messe in pratica. Solo se riconoscerete questi princìpi di Verità nella vostra vita quotidiana, potrete diventare degli studenti modello. Il nome indica la persona; la persona, che porta il nome e la forma, esprime il comportamento; attraverso il comportamento dobbiamo mettere in pratica gli insegnamenti ricevuti, e fornire un esempio ideale per gli altri.
Una volta, nei villaggi, al primo canto del gallo, i ragazzi s’alzavano dal letto, ben riposati dopo un buon sonno. Si lavavano i denti, si occupavano dei bisogni naturali, facevano un bagno, si vestivano e facevano colazione. Consumavano moderatamente del buon cibo sano, masticando a lungo, il che è un bene. Poi andavano a scuola, e seguivano con interesse le lezioni. Erano dei ragazzi giudiziosi e obbedivano: “Non andare in luoghi dove c’è dell’acqua! Non avvicinarti a fosse d’immondizia, o a cumuli di rifiuti, perché possono esser pericolosi!” Poi andavano a giocare, partecipavano a gare di corsa e a partite di calcio. Se agite al momento opportuno, e se soprattutto osservate le regole di condotta, otterrete con certezza benessere e salute.
Studenti!
Prima di occuparci dell’istruzione, dobbiamo prenderci cura della nostra salute! Dopo essere rimasto per molti anni senza prole, il re Dasharatha ebbe quattro figli; egli rappresentò per tutti un modello esemplare per il modo in cui li educò e li seppe controllare. Gli studenti d’oggi, invece, dimenticano che al padre deve essere tributato il dovuto rispetto. Come comportarsi, nel seguire le ingiunzioni della madre? Come seguire i suoi insegnamenti? Tutto ciò non viene ricordato, né praticato.
Il rito sacrificale di Vishvâmitra
Il Saggio Vishvâmitra si recò alla corte del re Dasharatha per essere assistito nell’esecuzione del suo rito sacrificale. Il re gli porse i suoi rispetti, lo invitò ad accomodarsi su un seggio adeguato al suo stato, e gli chiese: “Ti prego, comunicami il motivo della tua visita.” Dobbiamo fare del nostro meglio per offrire rispetto, ospitalità e gioia a chiunque arrivi nella nostra casa. Il saggio replicò: “Dasharatha! Mi sono proposto di compiere una cerimonia sacrificale per il bene del mondo; tuttavia, numerosi demoni ne ostacolano l’esecuzione. Non che io non abbia i poteri o le capacità di combattere i demoni. In realtà, posseggo armi e poteri; tuttavia, a colui che officia un rituale, non è consentito usare armi o esercitare violenza. Avendo accolto le prescrizioni imposte da tale rituale, non mi è permesso punire i demoni in alcun modo. Per questo motivo sono venuto a chiedere che tuo figlio protegga questo rito, inteso per il benessere e la difesa del mondo.” A quelle parole, Dasharatha ebbe un tracollo. Râma era ancora in tenera età, non si era mai allontanato da casa né dai genitori, non aveva mai visto i demoni né eseguito un sacrificio; non gli sembrava quindi appropriato mandarLo in un luogo così pericoloso. “Swami, perdonami! Sarò io a proteggere l’intero rito, e invierò molte migliaia di soldati. Non è necessario che tu prenda questi ragazzi ancora così giovani, che non ne sanno niente e non hanno esperienza nell’uso delle armi. Essi hanno appena compiuto il dodicesimo anno d’età: come posso mandare dei bambini così piccoli a proteggere un sacrificio?” Allora il s aggio finse di arrabbiarsi, e osservò: “Nella dinastia degli Ikshvâku, nessuno è mai venuto meno alla parola data. Quando sono arrivato, tu mi hai promesso: ‘Senz’altro esaudirò il motivo per cui sei venuto.’ Come puoi ora ritirare la promessa fatta? Se tu pensi che ciò possa esser giustificato, me ne andrò!” A quelle parole, Dasharatha pensò che era meglio essere prudenti con i saggi, e stare attenti agli swami e ai serpenti, perché poteva capitare qualche maledizione! Così il re convocò Vashishta, il quale porse i suoi rispetti a Vishvâmitra e conversò con lui. Dasharatha si sentì così un po’ più rassicurato. Poi Vashishta, rivolgendosi al re, gli disse: “Caro Dasharatha, i nostri bambini non sono certo di stampo comune; tu sei preoccupato a causa dell’affetto paterno che nutri per loro, perché ai tuoi occhi essi sono solo i tuoi figli, ma in realtà essi sono potenti quanto il tuono, e tu non fai alcuno sforzo per riconoscere i loro poteri straordinari.” Dicendo così, Vashishta chiamò Râma. Ovviamente, dove andava Râma c’era anche Lakshmana; così i due fratelli s’inchinarono davanti al padre, Dasharatha, e poi davanti al Maestro, Vashishta. Il re li presentò, quindi, al Saggio Vishvâmitra; essi s’inchinarono anche davanti a lui, e rimasero tranquilli in attesa. Vishvâmitra si sedette e li osservò; tale era la radiosità che emanavano, che dimenticò se stesso, e pensò di inchinarsi davanti a loro. Tuttavia, non essendo usuale inchinarsi davanti a dei bambini, il saggio lo fece mentalmente, continuando a guardarli in estasi. Che abitudini avevano i quattro fratelli? Ovunque andassero, Lakshmana era sempre al fianco di Râma, e Shatrughna era accanto a Bharata, come ombre. Se s’indaga nella storia passata, si può capire il perché.
Le tre regine e il dolce benedetto
Dopo aver completato il rito propiziatorio per avere figli, Vashishta diede al re il pâyasam (la crema di riso), ricevuto come cibo consacrato al termine del rito. Dasharatha consegnò il cibo benedetto a Kaushalyâ, dicendole di condividerlo con le altre due regine. Kaushalyâ, essendo la prima regina, era fiduciosa che il figlio che sarebbe nato da lei, avrebbe ottenuto il regno. Tuttavia, prima di sposare la terza moglie, Kaikâ, Dasharatha aveva fatto una promessa a suo padre, il re Kekeyî: “Coronerò re il figlio nato da tua figlia, Kaikâ.” Per questo motivo, le due regine, Kaushalyâ e Kaikâ, erano ben felici di assumere il cibo benedetto. Sumitrâ, la terza regina, era molto virtuosa e aveva un cuore puro. Pur avendo ricevuto il dolce consacrato, ella pensava fra sé: “A che cosa serve questo cibo benedetto e i figli nati da me? Essi potranno solo servire, ma non potranno mai regnare.” Tuttavia, senza proferire parola, prese la tazza contenente il dolce consacrato, e andò sulla terrazza del tetto per asciugarsi i capelli, appena lavati. Il sole splendeva alto nel cielo, e, dato che a quell’epoca non esistevano gli asciugacapelli elettrici, ella si mise al sole per asciugarsi i capelli naturalmente, e depose la tazza sul tetto. Improvvisamente, un’aquila piombò giù, afferrò la tazza con il becco, e volò via. Sumitrâ, molto spaventata, pensò: “Questo è successo a causa della mia negligenza. Che cosa mi dirà adesso mio marito? Chissà come ne soffrirà! Non si deve mai far soffrire il marito!” Con questi pensieri nella mente, corse giù dalle altre due regine, e comunicò loro l’accaduto. Kaushalyâ e Kaikâ erano molto virtuose, e godevano di gran reputazione. Kaikâ aveva acquisito una vasta conoscenza nell’esecuzione dei riti sacrificali, e aveva imparato tutto circa l’uso delle armi. Fu proprio Kaikâ a insegnare a Râma e a Bharata l’arte del tiro con l’arco, quand’erano ancora in tenera età. Kaikâ era, quindi, molto virtuosa e possedeva grandi qualità. Ella disse a Sumitrâ: “Non preoccuparti. Noi tre siamo uno, perciò condivideremo equamente il cibo benedetto.” Esiste oggi questo tipo d’unità? No! Potrete ben notare quanto fosse sacro l’amore, il senso d’unità e la totale assenza d’egoismo di quelle tre donne. Kaikâ versò metà del contenuto della sua tazza in quella di Sumitrâ. Anche Kaushalyâ fece lo stesso, dicendo: “Noi tre siamo uguali; anch’io te ne do metà.” Poi le tre regine con le loro tazze andarono da Vashishta, s’inchinarono davanti alla Divinità sull’altare che presiedeva al sacrificio, e Vashishta accordò loro il permesso di assumere il dolce benedetto. Le tre donne s’inchinarono, chiusero gli occhi e lo consumarono.
Il dono dei figli
I mesi trascorsero ed esse seppero di attendere un figlio, cosa che le rese molto felici. Sumitrâ, che aveva una gran fede, voleva mostrare la sua gratitudine alle altre due regine, e diede alla luce due bambini gemelli. Nonostante ella si prendesse la massima cura dei figlioletti, essi non dormivano né prendevano il latte; anzi, continuavano a piangere. ncapace di capirne il motivo, andò da Vashishta e lo supplicò: “Maestro! Ti prego, dimmi perché soffrono così questi bambini. Manca loro forse la protezione divina? Ti prego, elargisci su di loro la tua grazia.” Vashishta chiuse gli occhi e, con la divina visione interiore, vide il motivo di quell’insolito comportamento. “Madre! Lakshmana è una parte di Râma, essendo nato dalla metà porzione di cibo consacrato di Kaushalyâ. Shatrughna, invece, è nato dalla metà porzione destinata a Kaikâ; perciò, Shatrughna è una parte di Bharata, e Lakshmana è parte di Râma. Metti Lakshmana nella culla vicino a Râma, e Shatrughna accanto a Bharata; vedrai che dormiranno bene e non piangeranno più.” Ella seguì le istruzioni ricevute dal precettore, e i bambini, senza alcuna difficoltà, s’addormentarono serenamente. (Da quel momento stettero bene). Giocavano e sorridevano. Vedendo che erano contenti, Sumitrâ si sentì immensamente felice; andò, quindi, dalle altre due regine e disse loro: “Sorella maggiore (riferendosi a Kaushalyâ – N.d.T.) e sorella minore (rivolgendosi a Kaikâ – N.d.T.)! Grazie al vostro aiuto, ho ricevuto come dono questi due bambini, altrimenti come avrei potuto avere figli? Pertanto mio figlio Lakshmana servirà Râma, e Shatrughna servirà Bharata. Questi bambini sono vostri, sono un vostro regalo, sono nati dal mio grembo per servire; io sono solo uno strumento. Oh, come sono fortunata di poter offrire al mondo tali creature che renderanno servizio!” Ella era molto felice, e offrì Shatrughna perché restasse al fianco di Bharata, e Lakshmana affinché rimanesse vicino a Râma. Così fu: ovunque andasse Râma, Lakshmana lo seguiva. Ovunque fosse Bharata, c’era anche Shatrughna. Essi passarono così tutta la loro vita. Non solo: ma persino Râma e Bharata non potevano vivere un solo istante senza i loro due fratelli.
L’unità tra i fratelli
Se Râma riceveva un dolce, non lo toccava finché non fosse arrivato anche Lakshmana. Se la madre faceva grandi preparativi per il Suo compleanno, Râma non li accettava e non toccava nulla finché Lakshmana non fosse stato presente. Anche per Bharata era lo stesso: non mangiava nulla se Shatrughna non era presente. Dopo il matrimonio, lo zio materno Kekeya, re del Kashmir, invitò Bharata nella sua casa. Egli invitò soltanto Bharata, non chiamò Shatrughna, e Bharata non disse al fratello di accompagnarlo; tuttavia, Shatrughna andò con Bharata, e lo seguì come un’ombra. Quando Râma fu mandato in esilio nella foresta, Lakshmana andò con Lui, nonostante Râma tentasse di convincerlo a rimanere: “La madre e il padre sono anziani, e soffrono molto perché devono separarsi da Me. Rimani almeno tu a casa per confortarli e consolarli.” Lakshmana rispose: “Fratello, mia madre mi ha destinato al Tuo servizio. Tu segui i comandi di Tuo padre, ma io devo obbedire agli ordini di mia madre.”
Considera la madre come Dio.
Considera il padre come Dio.
“Entrambi questi dettami sono regole importanti per noi.”
Dicendo queste parole, Lakshmana seguì Râma e non si lasciò influenzare da nient’altro. Shatrughna era uguale; le sue innumerevoli buone qualità non sono menzionate in nessuna parte del Râmâyana, ma egli è colui che annienta i nemici. Infatti, ovunque ci fossero nemici di Râma o Bharata, egli non li lasciava in vita. Shatrughna, le cui virtù sono veramente incomparabili, seguì Bharata, e non portò con sé neppure sua moglie. Egli accompagnò Bharata e la moglie di quest’ultimo nella residenza dello zio materno. I quattro fratelli celebrarono i loro matrimoni a Mithilâ, e poi fecero ritorno ad Ayodhyâ. Dasharatha osservò: “Vedere gli occhi di questi quattro figli mi rende così felice; i loro occhi sono come gli otto pianeti”; si presentarono poi anche le loro rispettive mogli. “Anch’esse sono come gli otto pianeti. Sono proprio felice nel vedere questi sedici occhi. Io ho quattro figli, ma considero le mie nuore come le mie stesse figlie.” Poi il re aggiunse: “Oh, come sono fortunato! Le penitenze e le austerità eseguite mi hanno ricompensato con una gioia così grande. L’unione fra le mie figlie di Mithilâ e i miei figli di Ayodhyâ è frutto della grazia di Dio. Non incontrerò più nessun altro che abbia tali sacre virtù e qualità.”
Le mogli devono obbedire agli ordini dei loro mariti.
Sîtâ e Ûrmilâ (rispettivamente moglie di Râma e di Lakshmana – N.d.T.) erano donne nobili e virtuose; e Mândavi e Shrutakîrti (rispettivamente mogli di Bharata e di Shatrughna – N.d.T.) lo erano altrettanto. Le ultime due erano le figlie del fratello minore del re Janaka, mentre la sua figlia maggiore era Sîtâ, e la sua seconda figlia era Ûrmilâ: esse furono date in moglie a Râma e Lakshmana. Esse non contrastarono mai gli ordini dei loro mariti. Poiché le figlie, le nuore e le suocere erano donne nobili e virtuose, quella casa divenne una residenza ideale in cui vivere.
Iniziazione al mantra
Facendo un passo indietro, Vishvâmitra chiese al re che suo figlio, Râma, andasse con lui per proteggere il rito sacrificale; ottenne, quindi, il permesso di Vashishta e disse a Râma di seguirlo. Nessuno, però, disse a Lakshmana di accompagnarli, ma egli ricevette l’ordine di sua madre e partì quindi con Râma. Mentre camminavano lungo le sponde del fiume Sarayu, Vishvâmitra esclamò: “Cari figlioli, fra poco saremo arrivati all’ âshram, e io vi inizierò a un mantra.” Tutto ciò fu solo il gioco di mâyâ (l’illusione). Pur sapendo che Râma era onnipresente e possedeva ogni potere, Vishvâmitra lo volle iniziare a un mantra. Persino i grandi saggi cadono in questo tipo di illusione. Perché lo fece? “Caro figlio! Non Ti sarà possibile toccare cibo né potrai dormire finché tutti i demoni intorno all’ âshram non saranno uccisi.” Così, per vincere la fame e il sonno, egli iniziò entrambi ai mantra “Bala-Atibal”. Bala vince il sonno, mentre Atibala vince la fame. Pertanto il saggio elargì loro il potere di essere liberi dalla fame, dalla sete, dal sonno e dal cibo per tutta la vita. Naturalmente, Lakshmana seguì Râma.
Il Disegno di Dio
Oggi, in ogni casa ci sono figli, ma fra loro non esiste nessuna intima relazione. Nella casa del re Dasharatha, invece, i suoi quattro figli vissero come un unico prâna, un unico principio vitale; essi mangiavano, giocavano, cantavano insieme, e non potevano rimanere divisi neppure per un momento. Se uno dei quattro dava il minimo segno di sofferenza, gli altri condividevano con lui la sua pena. Tutti seguivano Râma, e vivevano uniti nella stessa casa; così l’intera famiglia rappresentò un esempio ideale per tutti. Oggi, se nella casa c’è una moglie, ci sono dispiaceri intollerabili. Se ci sono due mogli, non c’è neanche bisogno di parlarne! Se ci sono tre mogli, tutto diventa un gran groviglio, e ci sono solo litigi e lotte. Nella casa di Dasharatha, invece, tutto ciò non esisteva. Avendo richiesto i due premi che le spettavano, voi potreste pensare che Kaikâ avesse voluto mandare Râma in esilio e avesse provocato gravi conflitti. Kaikâ, invece, si comportò in tal modo solo per permettere che i demoni venissero uccisi, obbedendo agli ordini di suo marito. “Râma deve uccidere i demoni; se non mi avvalgo dei due premi, andrò contro i comandi di mio marito, e non voglio che questo accada.” Così ella richiese i due premi. Molti pensano che Kaikâ fosse stata rovinata dall’influenza di Mantharâ; ma ella non prestò ascolto alle parole di Mantharâ. Kaikâ era una donna virtuosa e casta, e aveva un nobile carattere. Ella riteneva che tutto fosse soltanto la Volontà di Dio. “Se Râma non viene mandato nella foresta, i demoni non potranno essere uccisi. Râvana deve essere annientato.” Perciò, ella progettò l’intero piano e lo realizzò con determinazione; così, alla fine, i demoni furono distrutti. Kaikâ amava Râma ancor più di suo figlio Bharata. Suo figlio una volta le chiese: “Come può mia madre, che ha così grande affetto, avvalersi di quei due premi?” Kaikâ gli disse, con le mani giunte: “Caro figlio, tutto è il Disegno di Dio, e io ho dovuto comportarmi secondo il Suo piano. Pertanto, ogni cosa accade per volontà divina, mentre la volontà umana non darà mai frutti.”
Per mano di chi morirà?
I cittadini pregarono Dasharatha: “Râvana è la causa di gravi difficoltà: bisogna quindi trovare una soluzione a questo problema.” Il re rispose: “Miei cari, mio figlio è giovane, ma sarà in grado di adempiere quest’incarico. Io non possiedo i poteri e le capacità; non ho neppure l’abilità di approfondire una situazione del genere.” Passò quindi la questione ai dotti e ai saggi, dicendo loro di svolgere le dovute indagini. Râvana doveva morire, ma per mano di chi? Solo Brahmâ fu in grado di svelare il segreto. “Una volta, Râvana Mi chiese di concedergli una grazia: fa’ in modo che io non sia ucciso dagli Dei, né dai Semidei, né dai fauni, né attraverso dei riti sacrificali.” Così concessi tale grazia a Râvana, ovvero che non sarebbe morto per mano degli Dei, dei Semidei o dei demoni. Fui Io ad accordargli questo premio.” Râvana, tuttavia, tralasciò di chiedere di non venire ucciso da un essere umano. Pertanto, Râvana sarebbe morto per mano di Râma, in forma umana. Râvana pensava che gli umani fossero esseri insignificanti e, ritenendoli delle creature inferiori, si sentì impavido. Bisogna, invece, essere molto vigili e attenti anche quando si chiede una grazia. Così Brahmâ esaudì il desiderio di Râvana, ma, poiché egli tralasciò di chiedere di non morire per mano d’uomo, Dio non glielo concesse. In questo punto c’è nascosto questo segreto. Quando poi Râma era cresciuto, Dasharatha affermò che Egli avrebbe ucciso Râvana.
L’origine di Hanuman
Quando Hanuman arrivò a Lankâ, Lankinî disse: “È arrivata una scimmia; tempi duri saranno in serbo per la città di Lankâ.” Quando Hanuman colpì Lankinî con la mano, ella ebbe un capogiro e cadde. “Io, Lankinî, non cado così facilmente; se io, la guardiana della porta principale, cado, significa che la città di Lankâ andrà distrutta. Da oggi Lankâ è in pericolo.” Facendo questi pensieri, Lankinî si recò da Râvana e lo informò dell’accaduto. Da dove proviene Hanuman? Dobbiamo prendere in considerazione anche questo fatto. Un’aquila afferrò la tazza contenente il cibo consacrato destinato a Sumitrâ, e volò via. Mentre Añjani Devî (la madre di Hanuman) era assorta in meditazione, l’aquila le posò davanti la tazza col cibo benedetto. Non Añjali (una popolare attrice indiana – N.d.T.), ma Añjani Devî. Ella mangiò quel cibo. Hanuman venne così concepito in lei; ciò significa che anche Hanuman è una parte di Râma, Lakshmana, Bharata e Shatrughna. Infatti, Hanuman fu sempre vicino a Râma e prese parte alle Sue imprese.
Siate esempi ideali
Incarnazioni del Divino Amore!
Innumerevoli eventi straordinari sono descritti nel Râmâyana , ma nessuno ha mai cercato e scoperto tutti i suoi segreti. Se prestate attenzione, vi renderete conto che non esiste neppure una parola in questo poema epico che sia priva di un profondo significato. Il Râmâyana rappresenta un esempio ideale per tutti, per ogni famiglia, per i fratelli, per le sorelle, come pure per i genitori. Come ci si deve comportare? In che modo si deve portare rispetto? Il Râmâyana insegna tutto ciò! Non si deve obiettare: “Ma questa è un’era moderna!” Anche se è un’era moderna, si deve seguire la Verità , mostrare umiltà e obbedienza, perché si deve rappresentare un ideale. Ogni essere umano è nato per essere d’esempio; non ha ottenuto una nascita umana solo per ornamento. Ognuno, secondo le sue capacità, deve mostrarsi ideale: tutti gli uomini hanno tale possibilità. In che modo una madre deve prendersi cura del proprio bambino? In che modo un figlio deve rispettare la madre? Come rispettare gli ospiti che vengono nella nostra casa? Noi tutti proveniamo da un’unica famiglia; il mondo intero è una sola casa, e l’umanità è una sola famiglia. Non dovete perciò far sorgere in voi sentimenti di differenziazione e divisione. Nel nostro corpo ci sono molte membra: le mani lavorano, gli occhi vedono, le orecchie odono, e la bocca parla. Sebbene le funzioni siano differenti, tuttavia le varie parti del corpo insegnano l’unità. Gli uomini vivono in un paese come le membra dello stesso corpo.
Neppure una lacrima
Nel passato la gente conduceva una vita ideale. Quando una figlia si sposava, i genitori non piangevano, dicendo che la loro figlia andava in un’altra casa, ma affermavano: “Nostra figlia deve andare a vivere in quella casa, perché là c’è del lavoro da svolgere, e deve quindi compiere il suo dovere.” Così, con gioia, mandavano la figlia a vivere presso la famiglia dello sposo. Oggi, invece, quella gioia non esiste più. Se i genitori mandano la figlia nella casa dei suoceri, anche se non piangono apertamente, si asciugano le lacrime dagli occhi; ma a quei tempi non si versava neppure una lacrima! Nâra significa “acqua”; Nayana significa “occhi”. L’acqua che proviene dagli occhi è chiamata “lacrima”; non devono esserci lacrime di dolore, ma solo lacrime di gioia. A quei tempi tutti conducevano una vita molto sacra, e compivano il loro dovere in modo esemplare! “Oh, quanto dolore provò Kaushalyâ quando suo figlio andò in esilio nella foresta!” I dotti e gli studiosi che commentarono la storia del Râmâyana si affidarono ai loro ghiribizzi fantasiosi. In effetti, Kaushalyâ non pianse affatto! “Figlio! Fu proprio una gran fortuna per me averTi dato alla luce. RicordaTi che devi compiere il Tuo dovere; tutti lo devono compiere. Stai forse male al pensiero di andare nella foresta? Ayodhyâ, senza di Te è una foresta per noi, mentre la foresta in cui Tu vivrai, sarà Ayodhyâ per Te. Essere ad Ayodhyâ senza di Te, è come essere in esilio nella foresta.” La gente a quei tempi era solita mostrare tali sentimenti. Se approfondissimo i vari aspetti del Râmâyana, scopriremmo che contiene molti risvolti sorprendenti. Avvenne poi un altro fatto interessante. Un giorno Dasharatha notò che Kaushalyâ non era nella sua camera, ma c’era Râma. Che cosa stava facendo? Râma era un bambino piccolo e si stava massaggiando i piedi. Il padre Lo vide e pensò: “Oh, poverino! Ha giocato e camminato così a lungo che ora Gli fanno male i piedi; ci vuole qualcuno che Glieli massaggi.” Formulando questi pensieri, mandò un paio di servitori; ma a Râma non dolevano i piedi. Perché? Egli pensò: “È nella natura dei piedi essere massaggiati. Lo farò quindi Io stesso, perché non è bene che altri lo facciano per Me. Se altri Mi massaggiano i piedi, ne risulterà che Io sono il padrone e loro i servi; di fatto, in questo mondo tutti sono solo servitori.” Si afferma:
“Tutti sono Uno. Sii equanime con tutti.”
In realtà, tutti sono uguali. Con quel gesto, Râma volle rendere evidente tale uguaglianza ed equità. La natura, le caratteristiche e i segni che contraddistinguono un Avatâr sono davvero straordinari. Ieri vi ho parlato di lavanya, del controllo dei sensi. Dasharatha era in grado di tenere i suoi dieci sensi sotto controllo. Pertanto un figlio che possegga lavanya , nascerà a chi è in grado di controllare i suoi dieci sensi. Quando nasce un figlio come Râma, i sensi devono essere dominati. Il Râmâyana insegna questi sottili e profondi significati. Nel Râmâyana sembra che Kaikâ abbia dato ascolto alle parole di Mantharâ, e abbia inferto una grave punizione a Dasharatha. No, no, non è così! Kaikâ era la figlia del re di Kekaya, e aiutò Dasharatha nella guerra contro Indra, tanto che quando il mozzo uscì dalla ruota, ella vi mise il suo dito per dare stabilità alla ruota stessa. Come avrebbe potuto Kaikâ, così nobile e virtuosa, commettere un’azione così meschina? Avrebbe potuto far piangere un’altra madre? In effetti, Kaushalyâ le stava molto a cuore. Il fatto è che i tempi cambiano, e così anche le storie.
Nessuna debolezza
Dio ha sempre la giusta determinazione, che è segno di un buon carattere. Ecco la ragione della Sua eterna giovinezza. Egli non invecchia mai, è sempre giovane. Avete mai visto Krishna vecchio? Egli non invecchiò mai, e fu generale dell’esercito all’età di 75 anni. Come poteva essere vecchio? No! No! Lo stesso vale anche per Râma, che rimase sempre giovane. In qualsiasi circostanza e a qualsiasi età, Egli fu sempre molto vigoroso e forte. Non si deve pensare che l’età sia in relazione con l’età del corpo. Ora questo Corpo ha 77 anni, ma Io non ho alcuna debolezza. (Applausi). Sono in grado di muoverMi e camminare speditamente. Tuttavia, se camminassi rapidamente, la gente la considererebbe una cosa strana; così non lo faccio. Se vedesse un bambino camminare con un bastone, o un uomo anziano giocare con dei giocattoli, la gente riderebbe; e lo farebbe anche se Io mi mettessi a correre. ( Risate ). Perciò Mi devo comportare adeguatamente, secondo l’età. Non ho alcun tipo di stanchezza o di debolezza, e non ne avrò neanche in futuro. ( Applausi ). Di qualsiasi Avatâr si tratti, nessuno vedrà mai in Lui i segni dell’età. Ho forse delle rughe sulla fronte? Se guardate i Miei occhi, essi sono vividi e brillano come luci. Anche gli altoparlanti possono avere dei difetti, ma le Mie orecchie odono molto bene. A quest’età la gente si fa operare di cataratta o d’altro, ma Io vedo bene a qualsiasi distanza. Grazie al gran coraggio, riesco con fermezza e con gioia a risolvere qualsiasi problema. Nessuno può immaginare la forza del Mio Corpo, e l’immenso potere di cui dispongo e che so usare; ma, se il potere è troppo, lo tengo sotto controllo. In che modo? Sulla strada ci sono dei dossi per ridurre la velocità: in alcuni punti sono molto alti, in altri sono addirittura doppi. Allo stesso modo, Io riesco a ridurre e a controllare il potere con l’uso di “freni”, ma l’auto non ha nessun difetto o guasto, funziona bene e va sempre alla stessa velocità. Allora, quando si potranno riconoscere i chiari segni della Divinità? In futuro ne verrete gradualmente a conoscenza; non sono uno che si fa pubblicità. Il Corpo è una Forma umana, e opera come quello di un essere umano, ma Dio è il Potere che tutto pervade.
Il corpo è costituito dai cinque elementi, e un giorno o l’altro è destinato a perire.
Colui che vi dimora è imperituro.
Il Residente permanente non ha morte né nascita, non ha attaccamenti, norme o regolamenti.
In verità, quel Residente è Dio stesso.
Il corpo è perituro; ciò che nasce morirà. Per tutti, anche per Avatâr come Râma e Krishna, fu la stessa cosa; alla fine Râma lasciò il Corpo, anche Krishna lasciò il Suo Corpo; ma come se ne andarono? Chi non lo sa, afferma: “Morirono in guerra. Fra gli Yâdava(2), a causa della maledizione che alcuni saggi lanciarono contro di loro, comparve un pestello di ferro, con cui gli Yâdava si uccisero l’un l’altro.” Ma non è così che morirono. In realtà, Râma andò al fiume Sarayu, s’immerse nella profondità delle acque e scomparve; e prima di Lui vi mandò Sîtâ. Anche Krishna si comportò in modo analogo. Egli si recò a Dvârakâ (la città che aveva fatto costruire sul mare – N.d.T.), e si sedette sotto un albero. Uddhava Lo vide, ma un istante dopo Krishna scomparve. Questi non sono Corpi che qualcuno possa afferrare. Dovete acquisire il potere necessario per riconoscere la Divinità ; attraverso tale potere, potrete capire il Divino.
Swami si muove con grazia
Incarnazioni del Divino Amore!
Io mi muovo in mezzo a voi, mangio con voi, gioco e canto con voi, e quindi voi pensate che “questo” è un essere umano. È una grave ignoranza considerarLo un comune essere umano. Una simile ignoranza vi impedirà di conseguire la Saggezza. Io non avrò mai nessun tipo di debolezza. A volte, alcune donne dicono: “Sembra che Swami soffra di male alle gambe; cammina in quel modo…” Io non ho proprio nessun male alle gambe, Mi muovo e cammino beato; ma vi confiderò che c’è un motivo. Guardate la Mia veste: essa arriva giù, fino alle caviglie. Quando si cammina, se c’è della stoffa intorno ai piedi, non si riesce a vedere bene; quando devo mettere il piede in avanti per fare un passo, il tessuto è d’ostacolo. Se cercate di capire questi motivi, allora non vi chiederete più come mai Swami non cammini speditamente. La veste è fatta in questo modo, e quando metto il piede in avanti, il tessuto ostacola il passo. Quindi, anche il Mio modo di camminare è diventata una caratteristica. Il modo di camminare di Swami è gentile. (Applausi). È un incedere morbido e aggraziato; non è brusco o goffo. Non c’è sgarbatezza in Me. Io sono gentilezza e dolcezza. (Applausi). Dovete, quindi, cercare in tutti i modi di riconoscere la Divinità del Râmâyana. Ci sono, tuttavia, ancora molti segreti che non sono stati riportati, ma che in futuro vi racconterò, eliminando così i vostri dubbi. Siete pronti a cantare, bambini?
(Baba ha concluso il Discorso con il bhajan: “Râma Kodanda Râma…”)
Brindavan, Whitefield 17 Maggio 2002 Corso Estivo
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