Se si strofinano continuamente due rami d’albero, si produce del fuoco.
Se si continua ad agitare la panna, si otterrà del burro da cui si ricava il ghi.
Così, se ci si impegna in un costante processo di ricerca, si realizza la divinità interiore.
Canto telugu
Dice un proverbio telugu che, con la perseveranza, si porta a termine qualsiasi cosa. La Gîtâ dichiara che, mediante la pratica incessante, si acquisisce la saggezza che conduce in definitiva alla rinuncia (thyâga). Ogni attività della vita si fonda sull’esperienza concreta. Così, per realizzare il Divino, è necessaria una pratica costante. Non basta la semplice ripetizione del nome del Signore. La devozione deve trovare espressione nel servizio sociale; qualsiasi servizio compiuto con l’intenzione di creare benessere alla società diverrà servizio a Dio.
L’unico Sé dimora in una miriade di corpi,
come il burro sta nel latte,
l’olio nei semi di sesamo,
il profumo nei fiori,
il dolce succo nel frutto,
il fuoco nel fastello di legna.
Canto sanscrito
È verità proclamata dal Vedânta. La gioventù odierna, lontana dalla comprensione di questa verità, non perde un’occasione per sprecare la vita.
Sapienza di Shankara
Adi Shankara dimostrò che esiste una sola realtà di base, unica e immutabile, che giace sotto tutte le forme, i nomi e gli attributi. In ciò si riassume la dottrina dell’Advaita o Non-dualismo. Da un seme di mango viene un albero con rami, foglie, fiori e frutti, e ciascuno di questi elementi è dotato di fogge ed usi distinti. Però, le migliaia di cose uscite da un seme debbono la loro esistenza al seme che ha dato origine all’albero. Nella Gîtâ, Krishna affermò la seguente verità: «Io sono il seme che dà origine a tutti gli esseri». Tutte le cose esistenti nell’Universo sono manifestazioni dell’Unico Essere Divino.
Ieri ho esposto la storia dell’iniziazione al sannyâsa di Adi Shankara in giovanissima età e del suo incontro col guru, Govinda. Il maestro di Govinda fu Gaudapâda, il quale classificò gli inni (rik) del Rig Veda in base alla loro proclamazione dell’unità del Divino. Shankara ricevette questo insegnamento da Govinda e, sin dall’età di quattordici anni, padroneggiò tutti i Veda e le Shâstra. L’intenso interesse per la conoscenza porta alla completa comprensione (jñâna).
Un giorno, Govinda impegnò Shankara in una disputa filosofica, al fine di saggiarne la padronanza sulle scritture. Si trattò di un dibattito tra maestro e discepolo. Shankara era in atteggiamento di grande umiltà e venerazione verso il guru; per cui, prima di cimentarsi nella dissertazione, si prostrò davanti al maestro per chiedergli il permesso di affrontare la discussione con lui. Avuta l’autorizzazione del guru, incominciò a trattare le sue argomentazioni con sorprendente abilità e, suffragandole con l’indiscussa autorità delle scritture, demolì le proposizioni del precettore, espose i suoi punti di vista in accordo con l’autorevolezza dei Veda, senza però dimenticare il livello di comprensione umana, e mostrò come il sentiero della vita interiore (nivritti) possa armonizzarsi con il sentiero della vita esteriore (pavritti).
Una lezione ai teologi
Shankara fu profondamente allarmato a causa della condotta dei grandi studiosi vedici del tempo, ai quali interessava maggiormente ricavar soldi dalla loro cultura scritturistica che guadagnarsene la saggezza spirituale. Costoro avevano dimenticato che non ci si può servire della conoscenza per scopi commerciali. Anche oggi molti studenti considerano l’istruzione scolastica come un mezzo per guadagnarsi da vivere; ma ciò è completamente sbagliato. Per vivere si deve pur lavorare, ma la conoscenza va ricercata per acquisire saggezza. E Shankara cercò di introdurre un rinnovamento nel modo di usare la conoscenza scritturistica.
A che serve possedere tutte le conoscenze del mondo
se non si pensa a Dio,
se non si usano le mani per adorare il Divino?
Tutta quella conoscenza è un puro e semplice spreco.
Canto telugu
Shankara era profondamente angustiato dal comportamento dei dotti, ed il suo precettore, Govinda, si accorse della sua tristezza. Anche Gaudapâda, guru di Govinda, era afflitto da questo stato di cose. Entrambi, però, erano fieri dei nobili sentimenti del giovane Shankara; sia l’uno che l’altro si erano resi conto che Shankara era la persona più qualificata per trattare i sacri insegnamenti vedici al fine di combattere l’ingiustizia e le tendenze immorali che prevalevano nella società. Mandarono a chiamare Shankara e gli dissero: «Figliolo, non è necessario che tu rimanga qui oltre. Parti domani per Kâshi (Varanasi). Là dovrai incontrarti con degli importanti pandit e diffondere la dottrina in tutto il mondo. Nessun altro è in grado di svolgere questa missione.»
Gli studenti d’oggi dovrebbero rendersi conto di essere gli strumenti più potenti con lo scopo di correggere tutto il male che sta avanzando nella nostra società odierna.
Alla volta di Kâshi
Col consenso dei due precettori, Shankara partì alla volta di Kâshi. A quel tempo non esistevano i moderni mezzi di trasporto e Shankara, per andare a Benares, se la dovette fare tutta a piedi. Giovincello sedicenne, raccolse i suoi discepoli e partì per Kâshi. Durante il viaggio, vide sulla strada seduto sotto un albero, un pandit che si infarciva la testa di regole grammaticali. In quel momento si mise a comporre il famoso inno “Bhaja Govindam”. (Swami recita la strofa iniziale del bhajan).
O tardo d’ingegno!
Perché mai sei assorto nelle regole grammaticali?
Esse non saranno la tua salvezza, quando la morte busserà alla tua porta
Adora invece Govinda!
Al momento della morte, niente e nessuno seguirà l’anima che lascerà il corpo. Allora, solamente il ricordo del nome del Signore vi terrà compagnia per sempre. Shankara esortò l’erudito esegeta a recitare il nome del Signore anziché studiare a memoria le regole della grammatica.
Dopo questa lezione, Shankara proseguì coi suoi discepoli per Kâshi. I suoi insegnamenti venivano divulgati a destra e a manca. I pandit di Benares organizzarono nella città santa una grande assemblea di studiosi. Molti di loro si riunirono colà con tutte le insegne dei loro ordini. Quanto ad ostentazione, non mancava nulla in quell’assemblea. Shankara si presentò invece in grande semplicità, indossando un dhoti che gli arrivava alle ginocchia e un asciugamano sulle spalle. Al vederlo, i pandit ebbero l’impressione che si trattasse tutto d’una burla, e alcuni di essi ebbero a dire: «Non porta nemmeno un japamâla di semi di rudrâksha. Un pandit dovrebbe presentarsi come una figura imponente. Che ci potrà mai dire questo giovincello?». Si rivolsero quindi a lui personalmente, e gli dissero: «Noi siamo venuti a sapere che sei versato in tutti i Veda e le Shâstra, che sei un’autorità nel campo della grammatica e della logica e che sei un egregio esponente della dottrina advaita.»
Shankara e gli eruditi
Shankara cantò allora l’inno “Bhaja Govindam”, mettendo in rilievo la natura transitoria della ricchezza materiale ed esortando tutti ad abbandonare i desideri mondani. Dichiarò che i pandit dovrebbero essere imparziali ed imperturbabili e che dovrebbero rinunciare al desiderio della ricchezza, risultato delle proprie azioni. «Lasciate ogni sete di denaro. Intensificate la sete di Dio», esclamò Shankara con parole che risultavano essere in stridente contrasto con l’atteggiamento dell’uditorio. Poi diede una superba esposizione della metafisica advaita.
Tutti i pandit e i loro discepoli rimasero stupefatti alla relazione del giovane Shankara e si resero conto che avevano a che fare non solo con un grande insegnante, ma con uno che metteva in pratica ciò che insegnava. L’unità del pensiero, della parola e dell’azione è segno di grandezza. E Shankara fu un’autentica incarnazione dell’unità e della purezza in pensieri, parole ed azioni.
Molti pandit si alzarono ed assalirono di domande Shankara. Ed egli rispose a tutti loro con calma e sicurezza perfette. Affermò che “Advaita” significa unicità dello spirito e che la consapevolezza di questa unicità è vera saggezza (jñâna). Solamente la saggezza spirituale è vera saggezza, ma i pandit d’oggi – aggiunse Shankara – non possiedono questa realizzazione.
Shankara rimarcò che, sebbene nomi e forme possano essere molti, il Sé è uno solo. Quel Sé risiede nel cuore di ognuno. Esortò i pandit a purificare i loro cuori e a seguire i dettami della coscienza. Fu chiaro nell’affermare che i credo possono essere diversi, ma che Dio è uno solo.
Invitò i pandit ad accontentarsi di compensi modesti e a non ambire di star al seguito dei ricchi. Vasta conoscenza e meschini desideri stanno male insieme.
Doveri degli studenti
Gli studenti non dovrebbero dimenticare come un giovinetto nato a Kaladi abbia portato grandezza al Kerala e all’India. Essi debbono coltivare i valori umani come l’amore, la compassione, la rettitudine e la verità, e divenire autenticamente umani. Ciascuno studente dovrebbe sforzarsi di condurre la vita ideale che contraddistinse Shankara.
Vorrei, a questo proposito, ricordarvi che nel canto “Bhaja Govindam” Shankara raccomanda di rinunciare a tutti gli attaccamenti del mondo. Qualcuno potrebbe pensare che Swami stia suggerendo agli studenti degli insegnamenti campati per aria, fuori dalla realtà del mondo. La cosa non mi preoccupa, poiché ciò che sto dicendo è la pura verità. È stata forse raggiunta tanto facilmente la rinuncia? Non direi. La gente che mi sta ascoltando da anni non ha fatto il benché minimo cambiamento; ed è un’utopia ritenere che un singolo discorso possa produrre un grande cambiamento. Soltanto pochi fortunati sperimentano questa trasformazione. Non c’è nessuna benedizione più grande di quella che proviene da una vera rinuncia.
La vicinanza a Dio ispirerà lo spirito di rinuncia, anche senza rendersene conto. La perfezione sta in quella rinuncia. È la vita che si redime.
(Swami conclude il discorso con il bhajan “Shiva, Shiva, Shiva, Shiva anarâdâ”).
Prasanthi Nilayam, Sai Kulvant Hall, 7 Settembre1996.
Estratto del discorso
da: Mother Sai n°1/1997