Molteplicità del Creato, unicità del Creatore
Con l’argilla, che è un’unica sostanza, si può fare una varietà di prodotti dai nomi e dalle forme differenti. Parimenti, con l’oro si può foggiare una varietà di gioielli. Anche il bianco latte proviene da mucche di colore differente. Il Sé Supremo è unico, ma, sotto differenti nomi e forme, dimora in corpi senza numero.
Se osservate attentamente ciò che avviene sulla scena del Cosmo, scoprirete che da una medesima sostanza di base viene in essere una varietà di oggetti dalle forme più diverse. Guardate, ad esempio, un singolo seme: da esso nasce un albero con tanti rami, foglie, fiori e frutti. Son tutti elementi che variano per forma, nome e destinazione; eppure provengono tutti dallo stesso unico seme.
Ekoham bahusyâm: l’Uno scelse di divenire i molti. Vi sono tre fattori impliciti in quest’affermazione. Nella creazione di un vaso, il vasaio ne è la causa (il mezzo per fabbricarlo). Il vasaio è la causa ed il vaso l’effetto. L’elemento base per produrre il vaso è l’argilla. Quand’anche si infrangesse un vaso, l’argilla rimarrebbe tale e quale. Dunque, da una sostanza permanente, l’argilla, il vasaio fa il vaso. La sorte che toccherà al vaso non riguarda il vasaio, poiché l’argilla che è servita alla foggiatura del vaso rimane identica a se stessa. La stessa analogia vale per l’oro, l’orafo e i gioielli tratti dall’oro.
E, per rimanere sull’onda della stessa analogia, Dio è l’immutabile creatore che crea gli innumerevoli oggetti della creazione, i quali sono soggetti a cambiamenti di nomi e di forme. Occorre capir bene il rapporto fra le tre entità implicate nel processo della creazione. Il vasaio non può modellare alcun vaso se non dispone d’argilla; così pure, nessun vaso può essere foggiato se c’è l’argilla ma manca il vasaio. Quindi, sia il vasaio che l’argilla sono indispensabili alla creazione del vaso.
Il Creatore è la causa strumentale della creazione. I corpi sono come dei vasi: servono a vari scopi e sono una fonte di piacere. Ma, come i vasi, anche i corpi sono corruttibili: finito il loro tempo, vengono abbandonati, mentre Colui che li ha creati permane. Rimangono gli elementi chimici di cui erano composti i corpi, ma i corpi hanno perduto la loro consistenza. Il corpo umano ha il potere di servire al bene o al male.
Cinque forme di Dio
Cinque sono i nomi attribuiti al Divino: 1) Paranâmam, 2) Vyûhanâmam, 3) Vibhavanâmam, 4) Antarâtmanâma, 5) Archananâma.
1.– “Paranâmam” fa riferimento al Vaikuntha, il Paradiso ove risiede il Supremo. Vaikuntha significa “ciò che è immutabile”, e quivi dimora il Signore Supremo sotto il nome di “Paranâmam”. Nessuno può accedere laddove risiede il Signore e dimora sotto forma di fulgida luce. Ha la supervisione di tutto, ma non è visibile ad alcuno, né esiste qualcuno che possa vederne la forma.
2.– “Vyûhanâmam” è un secondo nome, attribuito al Signore che è adagiato su un serpente nell’oceano di latte. Solo ai deva (le varie divinità) è concesso vedere il Signore sotto questa forma; è una visione, questa, che spetta solo a chi possiede speciali poteri. Non possono averla gli esseri ordinari, mentre il Signore che si presenta nella Sua forma di vyûha appaga i desideri degli dèi. Avete bene in mente la storia di Hiranyakashipu, che molestò in varie maniere i deva. Perciò essi si presentarono davanti al giaciglio del Signore sull’oceano latteo per invocarLo e, in risposta alle loro preghiere, il Signore accettò di incarnarsi sulla Terra.
3.– “Vibhavanâmam” si riferisce alle varie forme umane che il Signore assume quando si incarna sulla Terra come âvatâr di Râma e di Krishna, per proteggere i buoni e punire i malvagi affinché questi riprendano il giusto sentiero. Le incarnazioni adorate come i dieci Âvatâr appartengono a questa categoria di Vibhavanâma. Questa è la forma in cui il Signore manifesta il rapporto tra Dio e i devoti.
4.– “Antarâtmanâma” è il nome che sta ad indicare il Signore che come spirito interiore pervade ogni parte di un essere umano. Quello spirito che vi dimora dentro è il Divino.
5.– “Archananâmam”, quinto nome, si riferisce alla forma con cui si può rendere culto a Dio, Lo si glorifica e adora per assicurarsi la Sua grazia.
Involuzione fisica attraverso le ere millenarie
Gli Âvatâr, o le incarnazioni del Signore, si sono manifestate in questi modi per eoni, lungo i millenni delle ere. È qualcosa che può far rimanere a bocca aperta i ragazzi d’oggi e, se per esempio, essi sentissero parlare di come andavano le cose nel Krita Yuga, ne avrebbero un’impressione che ha dello stupefacente e dell’incredibile. Gli esseri umani, infatti, in quell’era vivevano solitamente per centinaia d’anni; inoltre, non avevano un fisico così esile come quello degli uomini dell’era presente. Allora esistevano degli esseri giganteschi, le cui braccia misuravano quasi due metri di lunghezza. E che dire, poi, del tipo di vita che conducevano? Nel Krita Yuga la vita rimaneva in un corpo per tutta la durata delle ossa. Ogni altra parte del corpo poteva disintegrarsi, ma la vita rimaneva nello scheletro.
Nel Treta Yuga, diminuì il peso corporeo degli esseri umani. Anche la longevità era minore. La sopravvivenza era in rapporto all’integrità della muscolatura e dei tessuti corporei.
Nello Dvâpara Yuga la vita aveva la durata della circolazione sanguigna. Ricorderete come Bhîshma, coricato su un letto di frecce che l’avevano colpito nella battaglia del Kurukshetra, fosse sopravvissuto finché rimase sangue circolante nel suo corpo e fosse rimasto in vita così per cinquantasei giorni.
Nel Kali Yuga la vita ha la durata del cibo che c’è in corpo. L’uomo non sopravvive senza cibo.
Nel Krita e nel Treta Yuga gli uomini erano in intimo rapporto con Dio. In quel tempo non era così importante il cibo. Nello Dvâpara Yuga divenne importante la testa.
Nel Krita e nel Treta Yuga il Dharma era importante per tutto. «L’Universo è fondato sul Dharma».
Nello Dvâpara Yuga incominciò il declino e la ricchezza assunse ogni importanza. «Il mondo si basa sulla ricchezza». La guerra sorta tra i Kaurava e i Pândava fu causata da diritti di proprietà.
Nell’era di Kali (l’attuale Kali Yuga) né il Dharma, né la ricchezza (dhana) sono così importanti quanto la compassione (daya). È per carenza di compassione che il mondo d’oggi è afflitto da tante sofferenze.
L’avvento di Shankara
Nei primi secoli del Kali Yuga predominavano le religioni del Buddhismo e del Giainismo. In quel tempo, in un villaggio del Kerala di nome Kaladi, nacque un bimbo ad una coppia i cui nomi erano Shivaguru e Aryâmba. Erano giorni quelli che vedevano svolgersi frequenti guerre fra i re dei vari territori; guerre che furono all’origine di odï fra i popoli di svariate regioni. Era andato perso il senso dell’unità nazionale e, con la perdita dell’unità, presero piede pratiche d’ogni tipo di malvagità. Menzogna, ingiustizia, disonestà e condotta riprovevole erano all’ordine del giorno. E non è tutto; persino i colti pandit, gli studiosi e gli intellettuali del tempo incominciarono a dare interpretazioni distorte dei Veda. Il vero volto delle scritture fu oscurato: un’autentica insidia per la gente che aveva fede nei Veda e nelle scritture sacre.
In tali epoche, Dio o un santo da Lui ispirato o un messia fa la Sua comparsa sulla Terra per convertire i reprobi e recuperare il regno della Giustizia (Dharma). Incarnazioni simili sono note col nome di “forme archananâma” del Divino. Le manifestazioni di queste “forme archananâma” sono considerate Amsa-âvatâr, cioè manifestazioni di alcuni aspetti del Divino.
Le incarnazioni avatariche vibhava (come nei casi di Râma e di Krishna) sono dei pûrna-âvatâr, manifestazioni complete del Divino. Gli archa-âvatâr sono degli amsa-âvatâr, ossia delle manifestazioni parziali. Questi âvatâr si incarnano di tanto in tanto, non solo in India, ma in tutte le nazioni.
Gesù in un primo momento dichiarò di essere un “inviato di Dio”. Chi sono questi inviati? Ve ne sono di due tipi: gli avadûta e gli yamadûta. Gli “yamadûta” sono messaggeri che infliggono dei mali alla gente; gli “avadûta” sono messaggeri che danno protezione. Gesù appartenne a questa seconda categoria. A tempo debito, riconobbe la sua propria divinità interiore. Poi dichiarò di essere “il Figlio di Dio” e, perciò stesso, proclamò il suo diritto ad essere coerede di tutti gli attributi divini. Allorché acquisì tutte le qualità del Divino, annunciò solennemente: «Io e il Padre siamo uno».
Stessa progressione a tre stadi si ritrova nelle affermazioni di Zoroastro. Dapprima egli dichiarò: «Io sono nella luce»; poi, disse: «La luce è in me». Infine dichiarò: «Io sono la luce». Queste dichiarazioni trovano una loro comparazione nei tre sistemi della filosofia indiana: il Dualismo, il Non-dualismo mitigato e il Non-dualismo. Shankara, divulgando la dottrina del Non-dualismo, si considerò un servo di Dio.
Shankara e il suo guru
Shankara aveva appena raggiunto i tre anni di età, quando suo padre Shivaguru morì. È interessante, a questo proposito, notare come il Divino operi. Dieci giorni prima di morire, Shivaguru ebbe in visione una gran luce splendente, che gli trasmetteva questo messaggio: «Adempi l’iniziazione (upanayanam) di tuo figlio». Shivaguru diede in gran fretta disposizioni per la celebrazione dell’upanayanam del figlio di tre anni. E il bambino imparò a recitare da allora il Gâyatrî Mantra.
Dopo la perdita del padre, la madre, afflitta dal dolore, si dedicò all’educazione del piccolo. Lo portò da un guru, che gli impartì per filo e per segno tutta la conoscenza delle scritture. All’età di sedici anni, Shankara aveva completato lo studio dei quattro Veda e dei sei sistemi filosofici; studio, per l’espletamento del quale, ordinariamente, non basterebbero nemmeno cinquant’anni. Shankara era un prodigio. Riusciva ad afferrare qualsiasi cosa al primo accenno di un argomento. Perfino il guru era stupito della sua genialità.
Nel frattempo, sua madre, che si dava pena per portare a nozze il giovane, affrontò il discorso con il guru. Ma il ragazzo non ne voleva sapere. «Voglio farmi sannyâsi (rinunciante)», diceva, «voglio dedicare il mio corpo, la mente ed ogni altra cosa a Dio; sono tutti doni Suoi. Voglio abbandonarmi a Lui.»
Il sannyâsa di Shankara
La madre era oltremodo angustiata a causa della decisione di suo figlio. Un giorno in cui stava recandosi al fiume per raccogliere acqua, il giovane Shankara la seguì implorandola ardentemente: «Madre, permettetemi di prendere i voti del sannyâsa». Ma ella non era d’accordo. Quand’ella entrò in acqua per lavarsi, Shankara si tuffò nel fiume e, dopo esser andato sott’acqua per un po’, fece emergere una mano e gridò: «Madre, mi ha afferrato un coccodrillo. Almeno ora me lo date il permesso di farmi sannyâsin?». E la madre: «Se il sannyâsa ti può salvare dal coccodrillo, fa’ ciò che è meglio per vivere».
Allora Shankara uscì dal fiume e disse a sua madre: «Nell’oceano del samsâra ero lì lì per essere affogato da un coccodrillo presentatosi sotto forma di una moglie. Permettendomi di diventare un sannyâsin, mi sono liberato dalla morsa del coccodrillo. Nessuno può sposare un sannyâsin.»
Il sannyâsa non consiste in un semplice cambiamento del colore del proprio vestito. In verità, è un cambiamento di qualità.
Shankara si prostrò ai piedi della madre e prese da lei commiato per imbarcarsi verso la rotta dell’asceta. Fu allora che la madre si fece promettere dal figlio di venirla a vedere negli ultimi momenti della sua vita.
Un giro trionfale
Nelle sue peregrinazioni, Shankara incominciò col visitare tutti i templi sacri della nazione. Ogni viaggio doveva essere compiuto a piedi. Raggiunse ogni consesso di studiosi, dalle dispute dei quali uscì vincitore. Divulgò la dottrina Advaita che soleva sostenere con questa dichiarazione: «Differenti sono i corpi, diverse le forme, ma unico ed uno solo è il Sé interiore. Il Divino è presente in tutto come il succo della canna da zucchero che rimane sempre lo stesso indipendentemente dalla canna da cui viene estratto.»
Ebbe un incontro dialettico con Mandana Misra, un sostenitore del Karma siddhânta, la dottrina dell’azione e lo sconfisse nel dibattito.
In questo modo, Shankara percorse varie volte tutto il Paese, dal Kashmir a Kanyakumari e persuase i dotti con la verità del Non-dualismo. «Il Sé è uno solo; non v’è alcun secondo».
Adi Shankara era capace di convincere tutti gli eruditi sulla verità dell’Advaita. Gli uomini sono abbagliati dall’illusione della molteplicità di nomi e forme, ma alla base di tutta questa diversità c’è una sola realtà divina. Niente può avere esistenza senza un fondamento. Tutte le fedi riconoscono questo fatto. Dio è uno; la meta è unica.
Non è facile capire la dottrina dell’Advaita. Bisogna spiegarla agli studenti con linguaggio semplice e intelligibile.
Shankara morì alla giovane età di trentadue anni; ma egli aveva completato la missione per la quale era venuto. Prima di lasciare questo mondo, andò a prendere cinque lingam e li collocò in cinque punti (città) differenti: Puri, Dwaraka, Sringeri, Benares e Kanchi. In quest’ultima località installò lo Yoga Lingam. Fra coloro che non accolsero di buon grado l’iniziativa ci fu Suresa, il quale non era altri che Mandana Misra prima di entrare nel sannyâsa.
Fondando questi monasteri (math) e promuovendo fra la gente il sentimento dell’unità, Adi Shankara contribuì a dare armonia al Paese. Sfortunatamente, però, alcuni dei suoi discepoli incominciarono a deformare il suo insegnamento e ad attribuire a Shankara punti di vista personali. Vidyâranya fu anche discepolo di Shankara. Infine, i discepoli si dispersero contrastandosi l’un l’altro con le proprie vedute.
La stessa cosa accadde fra gli undici apostoli di Gesù; andarono formandosi fra di essi delle divergenze ideologiche e si dileguarono. Soltanto Matteo rimase fedele a Gesù, e ne propagò il vangelo. Pietro era il primo fra gli apostoli, ma, allorché fu interrogato dalle autorità, rinnegò Cristo.
Râmânuja, che succedette a Shankara, enunciò una versione modificata del Non-dualismo shankariano. Poi venne Madvâcharya, che propose il Dualismo.
(Swami, prima di concludere il discorso con il consueto bhajan, annuncia di voler diffondersi in ulteriori spiegazioni nei discorsi seguenti. Poi intona il canto “Bhaja Govindam”.
Prasanthi Nilayam, 6 Settembre1996.
Estratto del discorso
da: Mother Sai n°1/1997