18 Maggio 2000 – Intimità con Dio

18 Maggio 2000

Discorso Divino di Bhagavan Sri Sathya Sai Baba

INTIMITÀ CON DIO

Tutto l’Universo è sotto il controllo di Dio
e quel Dio (il Creatore) è diretto dalla Verità
e la Verità è propria dell’uomo nobile,
di colui che è un’autentica personificazione di Dio.

Gli stati di veglia e di sogno

Incarnazioni del Divino Amore, quando una persona si trova in stato di veglia, sperimenta diverse situazioni che poi egli stesso crea nuovamente quando dorme e sogna. È sempre lui l’autore della propria immaginazione e dei propri sentimenti, è lui che produce gioie e dolori e li reitera nello stato di sogno.

Quando entra in uno stato di profondo sonno, lo stesso soggetto dimentica ogni cosa e si trova immerso nel cuore della sua coscienza. Così, uno stesso individuo è implicato in vari tipi di azioni, che si ripercuotono in tre stati di coscienza: sonno, sogno e sonno profondo. Ma in tutti e tre gli stati esiste un principio eterno ed immutabile: lo Spirito, l’Âtma.

Mente stabile

Non c’è tornado che possa strappare una ghirlanda di fiori da un foglio di carta su cui sia stampata. Potrà far girare qua e là la carta, ma il vento non può staccarne l’immagine. L’atmosfera esterna e i pensieri del devoto possono cambiare in varie maniere, ma la Divinità impressa nel cuore non può essere rimossa in alcun modo. Per questo gli asceti dovrebbero essere irremovibili di mente e immuni da qualsiasi illusione si presenti alla loro vista. Il corpo umano è come una canna di bambù, piena di nodi, che sono il desiderio, la rabbia, l’avidità, l’infatuazione, la superbia e l’invidia.

Tungabhadra

La vita umana è stata definita tungabhadra. Vediamo in che senso. Bhadra significa “ciò che è augurabile, fausto”, e tunga significa “infinito”: tungabhadra, quindi, significa che il corpo umano è stato dotato d’una gioia illimitata, una fortuna infinita.

Ognuno deve esaminarsi personalmente sul modo in cui fa uso del proprio corpo, così divino, sempre giovane, originale, unico nel suo genere. Ognuno deve chiedersi se sia degno di un corpo tanto sacro e benedetto il modo in cui se ne sta servendo.

Fu Nârada, dopo varie ricerche, riflessioni ed esperienze, che decise di chiamare tungabhadra il corpo umano. Alcuni pensano che Nârada si sia trovato in mezzo a tanti conflitti e rivalità, ma non è vero; è solo frutto dell’immaginazione popolare. Nârada fu colui che offrì la soluzione a tutte le infelicità del mondo, senza tenere per sé i segreti della saggezza. Fu un esperto musicista e tanto intimo di Vishnu da vedere con chiarezza nel passato, nel presente e nel futuro. Nârada è il condottiero ideale per il mondo.

Fu sua l’idea di denominare tungabhadra il corpo, nome che comprende ogni buona fortuna e che significa tutto quanto dà gioia illimitata e concreta prosperità. È un nome che dobbiamo comprendere in tutta la sua santità, facendone il miglior uso e cogliendone il pieno significato attraverso l’esperienza della beatitudine.

Non dobbiamo intendere la parola “genere umano” solo dal punto di vista terreno, fisico, materiale; tant’è vero che gli antichi saggi, basandosi sulle loro esperienze personali, trovarono molti nomi per definire l’uomo, del quale avevano realizzato il profondo significato e da cui trassero numerosi e vari insegnamenti.

Tuttavia, poiché la società odierna misconosce gli ideali suggeriti da quei nobili nomi e non ne fa conseguire un comportamento appropriato, abbiamo a che fare con tante difficoltà e siamo vittime di ogni tipo di sofferenza. L’uomo d’oggi non sa capire le condizioni della società; si preoccupa solo di sé e della famiglia e, con una visione così ristretta, non arriva a cogliere la grandezza di quei nomi sacri.

Nara, Nârada e Nârâyana

Incarnazioni dell’amore, sapete quanto elevato sia il valore della vita e come essa sia la cosa più nobile che ci sia: “Fra tutte le vite, quella umana è la più rara”, ripetono le Scritture. Se siamo ben consapevoli di questo, il nostro modo di guardare alla vita deve cambiare.

Vediamo ora di comprendere l’intimo significato di nara, che significa “uomo”. Na è la negazione, vuol dire “no”; ra significa “morte”. Quindi, nara indica ciò che è indistruttibile, incorruttibile, immortale. Ne discende che i tre termini nara, Nârada e Nârâyana, avendo una medesima radice, sono accomunati dallo stesso significato.

Nârada è colui che mostra Nârâyana (Dio) a nara, ossia all’uomo. Magnifico il significato implicito nella parola “nara”!

Noi dobbiamo innanzitutto scoprire quanto improprio sia l’uso che facciamo della vita umana, alla luce del fatto che l’uomo e Dio non sono due entità separate. Dio non è un essere estraneo all’uomo. Nârada, evidenziando questa verità, affermava che non c’è bisogno di celebrare riti di adorazione a Dio.

Il tipo di relazione fra Dio e l’uomo descritta da Nârada era come segue: “I miei desideri sono desideri di Râma; la mia coscienza è la coscienza di Râma, il mio Sé è il Sé di Râma”. Nârada, dicendo di essere l’Âtma di Râma, intendeva affermare che l’uomo è Dio, il Sé dell’individuo è Dio.

La vera bontà consiste nel vedere Dio nell’uomo ed è dei grandi vedere l’uomo in Dio. Infatti, gli uomini desiderano essere come i grandi, e se vedono gli aspetti umani nel Divino lo fanno perché vogliono esser grandi; in effetti, quando i buoni si vogliono paragonare ai grandi, si sentono tali. Ma è molto meglio esser buoni che grandi: il buono vede Dio in ogni uomo, mentre il cattivo vede l’uomo in Dio, come fece Râvana. Perciò, la verità che occorre aver ben chiara in mente è che in ciascuna persona esiste una forza divina.

Felicità nell’unità

Gli studenti devono fare in modo di prestare la massima attenzione ad ogni evento sottile che si cela dietro una storia o un’epica. Prendiamo ad esempio il Râmâyana. Quanti esempi di felicità vi trovate al di fuori dell’unità? Nell’unità ogni tipo di gioia vi si apre davanti, mentre nella divisione o nelle discriminazioni, la felicità desiderata se ne va lontana.

Râma, Lakshmana, Bharata e Shatrughna: quattro fratelli così uniti che la loro fama si diffuse per il mondo intero. Anche Vâli e Sugrîva erano fratelli, ma la loro disunione procurò loro una gran quantità di fastidi. I Pândava erano cinque e grande fu la loro fama per aver eseguito fedelmente gli ordini del fratello maggiore, Dharmaja. Il principio morale dell’unità seguito dai Pândava, che vissero durante lo Dvâpara Yuga, rimane immutato e vale ancor oggi nel Kali Yuga. I dissidi fra Râvana e Vibhîshana furono per loro causa di molte difficoltà.

Potenza di Râvana

Le disunioni, gli odî e le discordie portano con sé un sacco di dolori, mentre quando s’incoraggia l’unità, ne viene ogni felicità. Ci sono storie di grandi uomini che servono da esempi ideali per la nazione. Persino Râvana fece la seguente ammonizione: “Popoli del mondo, io ho distrutto il mio stesso figlio, perché non sono stato capace di dominare la lussuria e l’ira; incapace di frenare l’odio e la gelosia, ho provocato la distruzione dei miei parenti ed amici; ignorando la verità del mondo, ho ridotto in cenere il mio regno. Non fate altrettanto voi!”

Ecco dunque l’enorme potere che ebbero i grandi! Si sono resi tutti conto di quale fosse la verità e si sono impegnati nel praticarla. Pensate alla potenza di Râvana; egli l’aveva raggiunta grazie ad intense austerità. Aveva in sé ogni potere, ogni facoltà fisica, mentale e spirituale. Ma, pur avendo tante possibilità, a che gli servirono? Gli mancò la forza di dominare l’attaccamento e l’odio; perciò, fu preso di mira da molte malattie. Non sapeva assolutamente che cosa significasse amare.

In qualunque situazione ci troviamo, se abbiamo in noi un solido amore, saremo sempre vittoriosi. È stato detto che “l’uomo è figlio dell’immortalità” (amrita-putra); ma se l’uomo non sa capire la sua vera natura, diventa un “figlio della falsità” (anrita-putra). Non siate dunque prole della menzogna, bensì figli dell’immortalità. Non vi basti considerarvi semplicemente “figli di Dio”, dovete essere Dio. Non accontentatevi di essere porzioni d’amore, ma generate amore. Solo quando avremo sperimentato l’amore in questo modo otterremo facilmente la qualità del Divino.

Inseparabile Dio

Dov’è Dio? Pensate che sia separato da voi, distante da voi? Se pensate così, Dio rimarrà lontanissimo da voi; ma, se Lo considerate vostro intimo, se Lo vedete come parte inseparabile da voi, allora non avrete altro amico all’infuori di Lui, ed Egli sarà così intimo a voi da farvi sentire una sola cosa. È uno sbaglio grossolano credere che Dio abiti in qualche chiesa o in un tempio o in qualche santuario, meta di pellegrinaggi.

Fu per venire incontro alle sofferenze del mondo che i santi e i saggi raccomandarono questi sentieri e insegnarono questi princìpi (l’idea che Dio dimora nei templi, NdT), ma poi le loro esperienze offrirono nuove spiegazioni. Sul principio s’impara l’alfabeto; ma dopo l’abbiccì s’impara a leggere le parole sillabandole, come D, I, O, e poi le frasi. Una volta che si è capaci di leggere delle frasi, possiamo prendere in mano dei libri.

Così pure, nell’antichità i saggi ed i santi hanno indicato come luoghi d’incontro con Dio templi, chiese, santuari e pellegrinaggi; ma era per gli ignoranti, per coloro che erano ancora all’abbiccì della vita spirituale, insomma per analfabeti che si trovavano ai primi rudimenti scolastici. Quindi, gli stessi Avatâr, incarnandosi, si adeguarono a quel tipo di lento progresso, come si fa coi bambini che fanno i primi passi. Quello fu dunque il modo con cui si cercò di inculcare dei sacri ideali in gente che era soltanto agli inizi.

La natura di Dio non conosce assolutamente ostacoli: i poteri e le possibilità di Dio non troveranno mai impedimenti sul loro percorso. Ogni singolo uomo dovrebbe quindi cercare di riconoscere il Divino in ogni più piccola cosa. Sai Nath ieri ha detto che “nel più piccolo gesto compiuto da Swami sono contenuti molti significati reconditi”.

Il ritorno di Madre Îshvaramma

Io vivo, o per meglio dire, il mio corpo vive in un appartamento annesso al Pûrnachandra Auditorium. Questi giovani qui — Sai Nath, Dilip, Satyajit, Patlee, Shrinivas — dormono tutti davanti alla mia porta e, perciò, si accorgono di ogni più piccola cosa che accada là dentro. Certe volte, ci sono dei defunti che vengono da Me per avere il darshan. Ce l’hanno anche i morti, non solo i vivi, il darshan. Vengono a vederMi persino alcuni che hanno lasciato il corpo cinquanta o sessant’anni fa. A volte arrivano anche durante il giorno; però, questi giovani vedono solo quelli che vengono di notte.

Una volta, dopo che i bhajan furono terminati, rientrai nel Pûrnachandra alle dieci in punto. Salii nell’appartamento e vidi, là seduta, la madre di questo mio corpo, Îshvaramma. Le dissi: “Perché vieni in questo modo? Non è una buona idea; che impressione avrebbero altri se ti vedessero? No, non voglio; non voglio!” Ed ella rispose: “Swami, è il mio cuore che ti parla, il cuore d’una madre. Che ne sai tu? (risate dell’uditorio) Se tu provassi ad essere una madre, sapresti come sono i miei sentimenti; ma tu hai il sentimento di Dio. Il sentirsi Dio non fa capire come si sente una madre, come una madre non può sapere come si sente Dio. Sono venuta solo per vederti e per dirti una cosetta. Poi me ne vado”.

“Di che si tratta? Fa’ presto, ché debbo andare”, le dissi. “Swami, — riprese lei — se vai sempre di corsa, che mi resta da fare? Fermati un attimo a parlare in pace! (risa) Vedi, il mondo d’oggi non va per il verso giusto: ci sono dappertutto manovre, manipolazioni, sotterfugi. Le sue condizioni sono pessime. Secondo te, tutta la gente che viene qui è piena d’amore. Tu così la pensi, ed è naturale per te. Secondo me, però, non è normale. Quando passi per il darshan c’è gente che ti offre dei fazzoletti, ed io, tutte le volte che vedo questa cosa, sono terrorizzata. Da oggi in poi accetta fazzoletti solo dalle persone che sai essere piene di fede e che siano davvero a te molto intime. Non prendere niente da nessun altro!”

Poi le chiesi: “Perché dici così?” E lei: “Swami, io so che per te tutti sono uguali, sono tutti figli tuoi. Però, anche se non ci sono differenze per te, alcuni hanno un cuore duro come la pietra e, com’è velenoso il loro cuore, (1) così potrebbero mettere del veleno nei fazzoletti che, usando per asciugarti le labbra, ti avvelenerebbero. Evita questo pericolo! Non toccare cose del genere!”

“Va bene, — le dissi — per farti contenta, non li toccherò”.

Alcune notti dopo — era l’una — mentre entrai in bagno, la udii parlare ad alta voce. Vicino alla mia camera, dove mi stavo riposando, c’erano due giovani da una parte e due dall’altra. Sai Nath, Satyajit e Srinivas stavano attorno al mio letto. “Tieni chiusa la bocca! — le dissi — Non parlare a voce alta, i ragazzi stanno dormendo e, se si svegliassero, potrebbero scoprirti. Non parlare così forte!” “Perché dovrei aver paura di qualcun altro? — mi disse per tutta risposta — Temo per te, non sono preoccupata per nessun altro. Non ho di che preoccuparmi dal momento che non ho fatto niente di male. Sono quelli che fanno qualcosa di sbagliato ad aver paura, ma io che non ho fatto errori, che dovrei temere? Sono venuta qui spinta dal mio affetto materno, non per altro”.

“Va bene, — dissi — eccoti qui. Che c’è?” “Swami, ieri c’è stata una festa; indossavi un dhoti nuovo, che però ti stava troppo largo, per cui hai chiesto una cintola”. Ebbene, sì. Sono andato a chiedere a tutti i ragazzi se qualcuno avesse una cintola da darmi. Tutte le cinture che mi offrivano però avevano una fibbia che pareva d’argento o d’oro. Non mi piaceva l’idea di indossare qualcosa che alcuni avrebbero potuto scambiare per un oggetto di vero oro.

“Toh! — direbbero — guarda: Swami ha una cintura d’oro!” Lokulu kâkulu: la gente è come un consesso di corvi ed ha da ridire su tutto inventando un sacco di storie. Quindi, non toccherò mai roba del genere. “Allora, Swami, — commentò lei — perché vai a chiedere a destra e a sinistra? Prima di abbandonare la mia vita, ti chiamai”. Infatti, proprio qui a Brindâvan ella mi aveva chiamato: “Swami! Swami! Swami!” Il giorno prima creai per lei una grossa collana, che le piaceva moltissimo. Poi, prima che ne trasportassi la salma (a Puttaparthi), dissi a Râmabrahma: “Adorava questa collana. Quando inumerete il corpo, lasciategliela al collo”. Così, fu sepolta con quella catena al collo. Anche adesso ce l’aveva e me la diede (perché la usassi come cintura). (2)

I ragazzi si alzarono e si appostarono dietro la porta. Quando mi alzai di nuovo, si apprestarono a farmi il namaskar e poi si misero a sedere. “Ehi! — dissi loro — come mai siete venuti? Non vi ho chiamati”. Ma essi risposero: “Non c’era bisogno che ci chiamassi. Abbiamo udito parlare al buio ed eravamo molto preoccupati che fosse entrato qualcuno e si aggirasse per la tua camera”.

“È la madre di questo mio corpo — dissi loro — e nessuno di voi l’ha mai veduta, poiché voi avete dai venti ai venticinque anni, mentre lei lasciò il corpo trent’anni fa”. Così dicendo, mostrai loro la catena che aveva portato al collo e, con questa, poterono notare con estrema attenzione ogni più piccolo particolare. Sono degli ottimi giovani. A nessun altro che non fosse come loro permetterei di svolgere questo compito qui.

Un attacco di cuore

Un giorno, una signora ebbe un attacco di cuore nei pressi di Simla. Aveva due figli, ma aveva più il marito. Colpita da quel malore, si sentiva ancor peggio pensando ai due bimbi, che temeva di lasciar soli. Alle due del mattino io uscii dal mio corpo, il quale non avendo raggiunto il letto, cadde a terra assolutamente privo di respiro vitale. Cadendo, la testa andò a sbattere sul pavimento di marmo. I giovani accorsero tutti e cercarono di tirarmi su in ogni modo. Io non parlavo, non mi muovevo nemmeno di un millimetro; ero completamente immobile e irrigidito. Nel timore che la testa fosse rimasta ferita, i ragazzi cercarono di alzarmela, ma nessuno ci riuscì. Ah! Che gioventù oggi! Si credono tanto forti e non sanno alzare nemmeno una testa piccola come la mia! (risate) Portarono allora degli asciugamani pensando che ci fossero delle fuoruscite di sangue; ma non ne videro, altrimenti sarebbero scoppiati a piangere.

“Adoro la luce”

Nella mia stanza io tengo sempre le luci accese. Non voglio che sia buia, perché mi piace la luce. Nelle stanze ci deve essere luce, come pure in veranda. Non mi piace stare al buio, perché il buio simboleggia le qualità diaboliche. Ai demoni piacciono le tenebre, mentre gli angeli adorano la luce.

Tamaso mâ jyotir gamaya
“Dall’oscurità guidami alla Luce”.

Chi si trova nelle tenebre, chieda la Luce!

Asato mâ sad gamaya
“Conducimi dall’irreale alla Verità”.

Chi possiede un buon intelletto (buddhi) sarà sempre nello splendore della Luce.

Ragazzi davvero in gamba

Così, questi ragazzi hanno avuto moltissime esperienze in varie occasioni. Non perdono un solo minuto del loro tempo, nemmeno quando sono al college. Al suono della campana corrono lesti al mandir. Questi quattro giovani, pur lavorando anche al Super Speciality Hospital, tornano sempre in tempo per ogni attività. Non hanno mai perduto un secondo, in nessun luogo. A volte, quando ci sono delle solennità particolari, pensando che Swami si ritiri presto nelle sue stanze, essi saltano i pasti, poveretti! E quando chiedo loro se hanno mangiato, mi rispondono: “Sì”. “Bugia! Non mentite!”, dico loro. “Non preoccuparti, Swami; non ho fame”, mi rispondono. Allora io do loro qualcosa da mangiare.

Sono davvero dei bravi ragazzi, ma non voglio far troppa mostra delle loro virtù e della loro bontà. Uno di loro è Sai Nath, che dorme sempre ai miei piedi e ad ogni più piccolo rumore si sveglia e va ad aprire la porta. Lui solo ha le chiavi (Swami ride) ed è lui che apre e chiude l’ascensore che porta all’appartamento. Vi domanderete come abbia potuto udire la mia conversazione con la madre, come ella abbia potuto salire in casa dopo essere entrata in ascensore, se le chiavi le custodisce lui. C’è solo l’ascensore che permette di accedere all’appartamento. Dunque, come avrebbe potuto Îshvaramma entrare?

Allora, mentre i ragazzi (al vederla) si spaventarono temendo intrusioni di estranei, Satyajit prese il coraggio a quattro mani e mi chiese: “Swami, chi è lei? Chi è? Chi è?” Risposi: “Non preoccupatevi, chiunque sia. È una cosa tra me e lei. Non riguarda gli altri. Non fatemi domande!” “Swami, — replicarono — che cosa ti ha dato?” Presi la catena d’oro che mi aveva dato e la misi nelle sue mani (di Satyajit?). Così l’ebbe vista e ce l’ha tuttora. Ma non è sempre possibile spiegare ad altri le esperienze di Dio.

“Io e voi siamo una sola cosa”

Dio però non è distinto da voi, dissi loro. Io e voi siamo una sola cosa, anche se non è molto bello dire “una sola cosa”. Voi ed io non siamo differenti, ma uno solo: voi non siete altro che Me, ed Io non sono altro che voi. Se c’è l’essenza divina in ogni creatura del mondo, a maggior ragione c’è in ogni essere umano. “Il corpo è un tempio, l’individuo è il Dio eterno” dicono le Scritture. Il corpo è un tempio e colui che vi abita è Dio in persona, vi ho detto ieri.

Credete che Vishnu sia quella figura che ha con sé la conchiglia, la ruota, la mazza e il loto? È stato detto che “i gioielli sono cari a Vishnu” e che “l’acqua dell’abluzione è cara a Shiva (3)”. Che significato hanno quegli oggetti che Vishnu porta con sé? La conchiglia è simbolo del suono; la ruota è simbolo del tempo. Suono e tempo sono entrambi sotto il controllo di Dio. Dunque non è l’immagine fisica della conchiglia, della ruota o della mazza che conta, bensì l’energia che racchiudono: l’energia del suono e del tempo sono nelle mani di Dio. A Dio non si possono attribuire forme particolari, sovrapponendo ai suoi simulacri numerose decorazioni.

Le decorazioni di Dio

Trent’anni fa, Durgala Râmakrishna Rao, allora governatore, mi obbligò ad andare a Tirupati. Tutti i sacerdoti del tempio con grande venerazione ci invitarono ad entrare nel sancta sanctorum, e celebrarono la liturgia dell’abhisheka, aspergendo la statua di Venkata Ramana Swami (Venkateshvara o Balaji).

Chiamai Anna Rao, che allora era il celebrante principale e gli dissi: “Stupenda questa statua, Anna Rao. Ma perché tanti gioielli? Non fanno che deturparne la bellezza. Se voi li toglieste tutti, riuscireste a vedere in tutto il suo splendore il Signore Venkateshvara! Avete messo insieme tutti quei gioielli appiccicandoveli con della cera. Invece di aver rappresentato Dio dandogli una forma nell’incanto d’una statua, l’avete rovinato deformandolo, abbrutendolo e dandogli un aspetto così goffo. Non mi piace. Non dovreste lasciarlo in quello stato”.

Allora Durgala Râmakrishna mi rispose: “Swami, lokulu kâkulu, la gente non fa che gracchiare come i corvi. Ognuno vuole Dio a seconda di come gli piace e lo vuol decorare a suo modo. Questa è la ragione, ma, invero, nemmeno a me piace”. “È una situazione penosa, — ribadii — Dovreste porre un certo freno, fornendo spiegazioni, perché ciò non è produttivo di un buon sentire, e può perfino incutere timore. Un idolo è sempre un idolo, ma a Dio diamo ciò che è di Dio”.

Ma il sacerdote all’udir questo si strinse nelle spalle, sentendosi impotente. Al popolo piace arricchire di ornamenti Dio, credendo di far onore alla bellezza; ma la bellezza non è quella, è dentro di noi. In una poesia si dice: “La nostra bellezza (antham) è la nostra gioia (ânandam), e la gioia è il nettare della vita (makarandam)”. Quindi, a Dio non servono gioielli. Tuttavia, quando il Divino viene rappresentato in una forma fisica, poiché facciamo parte del mondo in cui siamo nati, è giusto che usiamo rispetto e garbo, senza tuttavia dimenticare l’ideale di fondo.

Per coprire il corpo

Vi chiederete perché mai Swami indossi una veste così lunga. Non è per ragioni estetiche. È che non voglio che notiate alcuna parte del Mio corpo (risa). Nemmeno i piedi si dovrebbero vedere; per questo la mia veste è lunga quanto basta a coprirli. Con ciò voglio insegnare che bisogna portare rispetto alla divinità del corpo. Gli si è dato il nome di tungabhadra. Un corpo tanto prezioso non va visto come qualcosa di pericoloso. No, non mi piace che lo si veda in quel modo.

Le Mie mani e i Miei piedi a volte si possono vedere, a volte no. Qualche volta anche il viso può rimanere nascosto; infatti, di tanto in tanto ci sono i capelli che lo coprono (risa), ma non mi piace, anche se lo faccio. Si nasce con un viso raggiante; non è che lo si possa rendere tale in seguito. Quello splendore accompagna sempre il Divino in ogni singola cosa. Per questo, anche la più piccola cosa che io faccio non è mai priva di un profondo significato.

Vi porto un esempio. Se uno non ha fame, non mangia; berrà invece dell’acqua se avrà sete. Se è triste e sconsolato, piange; se è contento, ride. Sono tutti comportamenti che non sono privi di un motivo. Quindi, per qualsiasi cosa si faccia ci dev’essere sempre una ragione. Affinché tale ragione sia evidenziata, occorre avere la massima cura del corpo.

Le tre P

Bisogna osservare le tre P: Purezza, Pazienza e Perseveranza. Tre virtù importantissime. Io osservo sempre la purezza, poiché qualunque cosa io faccia non la faccio per me stesso. Una tale purezza, così elevata, non è riscontrabile in nessun’altra parte del mondo (applausi). Nel Mio cuore non c’è assolutamente posto nemmeno per la più piccola traccia d’impurità, ed è in forza di questo che attraggo l’attenzione di tutto il mondo. Io non estendo inviti, non scrivo lettere per avere risposta e, dunque, possiedo un corpo libero e puro, nel quale nessuno può notare difetti o mancanze.

La Mia pazienza. Com’è la Mia pace? Ecco, le montagne possono crollare, ma Io rimango immobile e in pace. Tanto il Mio cuore è pieno di pace. A volte, però, grido severamente, sono come un serpente che fa “Boosss”, emette sibili per incutere timore, come vi ho già detto prima; ma lo faccio per correggere alcune persone. Se non facessi così, non mi presterebbero ascolto. Se dicessi loro (Swami usa un tono dolce e gentile) “Oh, pupilla dei miei occhi, tesoro (bangaru), (4) siediti qui”, non mi darebbero ascolto. Se invece dico loro (con tono severo) “Ehi tu, siediti!”, allora quello si siede davvero (risa). Debbo cambiar tono di voce se voglio che i Miei devoti siano protetti e si salvino.

Un tempo, allorché i Pândava si trovavano in esilio — erano ormai passati tredici anni — si recarono dal saggio Roma (5). Poi fecero ritorno là dove la battaglia stava per avere inizio. Proprio in quella circostanza, agli inizi dei combattimenti, avevano fatto un voto. E sapete chi lo fece? Il precettore in persona. Il suo voto consisteva nel prevedere la morte di tutti i Pândava entro sera.

Fu Bhîshmâcharya (comandante dell’esercito dei Kaurava) a fare quel giuramento, il guru stesso, Bhîshma! Tutti i Pândava si sentirono in grande pericolo e Draupadî (moglie dei cinque fratelli) era disperata. Bhîshma era un mahâjñâni, cioè un grande saggio, puro; avrebbe certamente dato compimento alla sua terribile promessa; anzi, egli stesso diceva che nessuno avrebbe potuto sfuggire alle conseguenze della sua parola. Draupadî lo pregò: “So che la tua parola è ineluttabile, non puoi più farci nulla, ma noi non abbiamo che te ormai”.

Più tardi, Ashvatthâman, figlio di Drona aveva giurato che, prima di sera, avrebbe ucciso tutti e cinque i fratelli Pândava. Si era dunque presentato al campo dei Pândava, ma non ne vide alcuno, poiché Krishna aveva dovuto metterli in salvo. Davvero strane e mirabili sono le opere di Dio! Come sono varie e misteriose le Sue azioni: in tutto Egli si comporta come un attore; ad ogni momento la scena cambia, secondo i Suoi piani; ogni avvenimento segue un copione ben preciso.

Krishna accorse, in soccorso di chi? Si mise vicino a Durvâsas (6), il quale, appena vide il Signore Krishna avvicinarglisi, gli andò incontro e Gli si prostrò ai piedi con grande devozione e venerazione. “Swami, — esclamò — che grande onore che tu sia venuto qui al nostro âshram!” “Ho un lavoretto da fare, — gli disse Krishna — per il quale ho bisogno della tua collaborazione”. “Ogni Tuo desiderio è un ordine per me. Non mancherò di eseguire qualsiasi cosa mi chieda”, fu la risposta di Durvâsas.

“Allora, — proseguì Krishna — questa sera devi proteggere i Pândava”. “O Signore, Tu sei l’unico che possa proteggerli, e lo chiedi a me? Che posso fare io?” “Un conto è ciò che faccio Io, un altro è quello che puoi fare tu. Per dare protezione, Io mi servo di molti sistemi. Dunque, c’è un lavoro da fare”.

Durvâsas allora disse: “Dimmi che cosa vuoi che io faccia”. E Krishna: “Scaverai una buca dove ci sistemerai i Pândava. Sopra ci metterai delle tavole, su cui collocherai la tua sedia. E là ti metterai seduto. Verrà qualcuno, come Duryodhana e Dushshasana, oppure il figlio di Drona; ti chiederanno: “Swami, tu che conosci il passato, il presente e il futuro, dicci, dove sono i Pândava?”

Durvâsas interruppe Krishna: “Ma Swami, non dirò mai una bugia!” “Oh, che sannyasi senza cervello! Ti sto forse dicendo di dire una bugia? (risa) Non ti chiedo di dir bugie. E come potrei? Satya paro dharma, “La verità è il dharma più elevato”. La verità è il Mio programma. Dirai la verità, …solo con un tono di voce diverso”.

Arrivò dunque Ashvattâman e umilmente chiese al saggio: “Swami, dove sono i Pândava?” Durvâsas rispose con estrema durezza (Baba ne fa l’imitazione): “Chi? i Pândava? Son qua sotto la mia sedia!” Il tono della sua voce, così diverso, intimorì al tal punto Ashvattâman da farlo scappar via (risate). E fu così che i Pândava ebbero salva la vita: con un timbro di voce!

Anch’io a volte cambio tono di voce, ed è in questo modo che adempio alla perfezione alcuni Miei piani.

Râma in foresta

Tutti gli Avatâr hanno usato questo metodo. Una volta Râma uscì dalla casa di Kaikeyî ridendo a crepapelle per strada. Sîtâ stava preparando tutti gli ornamenti che dovevano servire all’incoronazione. “Sîtâ, — le disse Râma — ascoltami. Non posso più stare qui; me l’ha ordinato mio padre. Devo andare nella foresta”. “Nella foresta?! — esclamò stupita la consorte — Che è mai questa storia? Ci verrò anch’io”. “No, Sîtâ. Non puoi venire con me. Non posso proteggerti da tutti quei demoni e belve selvagge che ci sono là”.

All’udir ciò, Sîtâ si mise a ridere sonoramente: “Tu che proteggi il mondo intero, non puoi proteggere nemmeno una donna? Stai solo usando dei giochi di parole, perché in realtà tu puoi offrire protezione a tutti. Perciò, non ti do retta e verrò con te”. A quel punto, Râma usò parole più forti, fino a divenire sempre più aspro: “Mi darai solo delle seccature. È una responsabilità non da poco per me proteggerti. Ho degli ordini precisi da mio padre, che devo rispettare. Sarà meglio che tu non venga!”

“Va bene! — replicò Sîtâ — Dove stai andando ora?” “Vado a salutare mia madre”. Sîtâ seguì allora Râma fino all’abitazione di Kaushalyâ, che trovò oppressa da un profondo dolore per la partenza del figlio. “Figlio mio, — disse Kaushalyâ — pensavo che saresti stato tu ad essere incoronato re, e invece ci stai lasciando. Non potrò vivere un solo istante qui ad Ayodhyâ senza di te; voglio anch’io venire con te nella foresta”.

Allora Râma si appellò a tutto quanto poteva per dissuadere la madre da quel proposito: “Il padre è vecchio e le sue condizioni di salute gli fan dire ciò che non dovrebbe. Per una moglie casta, il marito è Dio, ed è a lui che deve render servizio. Qualunque cosa accada, non dovresti lasciarlo per venir dietro a me. Il tuo primo dovere è servirlo”.

Sîtâ intanto aveva udito tutto quanto aveva detto Râma. Era una donna intelligente e, tornata a casa, disse al marito: “Ho deciso che verrò con te!” Ma Râma ripeté: “No. Lo sai che non è possibile”. Sîtâ, con estrema determinazione, gli disse: “Hai appena detto a tua madre che il marito è Dio. E per me, non vale lo stesso? Tu, Râmachandra (7), sei l’astro lunare, ed io, Sîtâ, sono la luce che la Luna riflette. La luce della Luna segue l’astro ovunque si trovi, e sempre, quando sorge e quando tramonta. Com’è possibile che il riflesso della Luna stia da una parte e la Luna da un’altra? Ti fai cogliere in contraddizione dalle tue stesse parole. Non può Râma stare in foresta, mentre Sîtâ rimane ad Ayodhyâ. Dunque, verrò!”

A quel punto, Râma s’intenerì e fra loro scese la pace. Ogni Avatâr ha vissuto episodi simili; essi dimostrano che, quando si stabilisce un rapporto di profonda intimità con il Signore, la pace diventa la condizione normale. Così Râma prese con sé Sîtâ e la portò nella foresta. Ecco come il tono di voce, senza bisogno di dir bugie, può assumere un grande rilievo nel modificare gli eventi a favore dell’evoluzione del mondo.

“Desiderate il benessere del mondo intero”: ciò è molto importante. Dobbiamo avere ogni virtù, ed avere la saggezza che si riassume in tre qualità: purezza, pazienza e perseveranza. Nessuno al mondo ha pienamente tutte queste virtù quanto Sai (applausi). Ed io le pratico per il benessere altrui, per l’altrui felicità, per il miglioramento, il progresso e la soddisfazione del genere umano.

Tutto per voi

Tutto ciò che vi è dato, suggerito, insegnato, non è per Me. In Me non c’è la benché minima traccia di egoismo; ebbene, è proprio così: che lo crediate o no, in Me, dalla testa ai piedi, non c’è assolutamente alcun sintomo di egoismo, nessun segno d’interesse personale. Tutto quanto vi viene offerto è solo ed esclusivamente per voi; qualunque opera venga attuata, è la vostra opera; qualsiasi cosa renda felice Me, torna a vostra beatitudine.

Ragazzi e ragazze, incarnazioni dell’amore, non è possibile a tutti conoscere l’Amore e nessuno può comprendere Dio. Certe volte vi sembra di averLo capito, ma dopo pochi minuti L’avete già perso di vista. Ci vogliono molte vite di pratica perché quella comprensione arrivi e rimanga nel cuore. Dipende dalla qualità delle vite precedenti. Perciò, come il passato si ripercuote nel presente, così il presente sarà condizionante per l’avvenire.

Esiste una stretta relazione tra il passato e il presente; sono come due intimi amici. Dipende anche da compagnie sbagliate. Quindi, il cambiamento non è così rapido e immediato; avviene gradualmente.

Partite presto,
guidate piano
e arriverete sani alla Meta.

La vostra età è il momento giusto per incominciare: siate solerti nel mettere in pratica ed avrete quella pace. Non tergiversate ad ogni alito di vento; una volta che avrete assodato una buona partenza e un cammino pacifico, verrà da sé la perseveranza.

È per questo che mi rivolgo sempre alle assemblee con l’espressione “Incarnazioni dell’Amore”: in Me c’è quell’Amore e, quindi, le parole che dico, sono parole d’amore. Tutti voi dovreste rivelarvi quali incarnazioni dell’amore. Mai, in nessuna circostanza, dovrebbe venir meno l’amore. Se vivrete pieni d’amore, Io vi darò qualunque cosa vogliate (applausi).

Voi, studenti e studentesse, sarete i sostenitori dell’India del domani, i futuri leader di questa nazione. Bandite dalla vostra vita i sentimenti negativi e sviluppate quelli positivi. Vivete con dei buoni propositi e puntate su sacri obiettivi. Badate che non ci siano distorsioni nel vostro modo di guardare o di parlare. Il vostro buon comportamento renderà felici anche i vostri genitori. Date loro questa gioia.

Rispetto per i genitori

“Venerate vostra madre come Dio; venerate vostro padre come Dio”. Proprio come questo corpo si è preso cura dei suoi genitori, anche voi dovreste aver cura dei vostri. Amate dunque i vostri genitori, assistendoli, onorandoli, stando loro vicino, fidandovi di loro e rendendoli felici.

(Swami conclude il discorso intonando il bhajan “Bhava bhava harana”)

Brindâvan, Sai Ramesh Hall, 18 Maggio 2000.

Corso Estivo 2000

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