Non è forse per esser nato dal grembo di Kaushalyâ che Râma, in qualità di Dio, uccise il demone Râvana?
Non fu grazie ad una moglie di casta elevata come Sîtâ che Lava e Kusha, da lei cresciuti, raggiunsero grandi obbiettivi?
Non fu per sua madre Jijabai che Shivaji divenne un eroico combattente?
Non fu dovuto forse ai saggi insegnamenti di sua madre Putlibai che Gandhi divenne un mahatma?
La madre è colei che si prende cura dei figli ad ogni istante; per questo, milioni di persone l’hanno più cara della propria stessa vita.
Una madre è più in alto della Dea Terra.
O gente fortunata, vostra madre vi ha insegnato a parlare; non esiste un’autorità maggiore.
Felicità e dolore
Incarnazioni del Divino Amore,
l’obiettivo della vita umana non è la felicità, né il dolore. L’uomo sarà benedetto quando troverà un luogo in cui si presentano sia le gioie che i dolori, giacché egli può ricavare saggezza più nella sofferenza che nella gioia.
I grandi saggi dell’antichità hanno offerto alla nazione tanti buoni esempi, sperimentando numerose difficoltà, perdite, sofferenze e critiche. Per questo nel cuore degli Indiani sono rimaste ancor oggi impresse le parole dei grandi rishi. L’individuo, per far progredire la società, deve passare attraverso molte difficoltà. E non è tutto: accuse, beffe, condanne, calunnie lo mettono alla prova. Tuttavia, i grandi non si curano assolutamente di tutte queste persecuzioni; il loro scopo è migliorare la società.
Incarnazioni del Divino Amore,
nell’istante in cui apriamo le porte alla felicità, dobbiamo far entrare anche la sofferenza. L’equanimità subentra allorché si considera alla stessa stregua sia la gioia che il dolore. Si pensa comunemente che la testa e il volto siano molto nobili e puri, mentre si considerano parti ignobili i piedi, per il fatto che sono nella parte più bassa del corpo; ma, quando invitate una persona a casa vostra, fate entrare il suo volto mandando via i suoi piedi? Entrambi, volto e piedi, saranno i benvenuti. Ecco: così è la gioia e il dolore.
I bambini di oggi saranno i cittadini del domani: consapevoli di essere il futuro popolo dell’India, devono rendersi conto di quanto sia essenziale esprimere in concreto e rettamente le virtù dell’umiltà e dell’obbedienza. Bisogna amare i propri genitori, aver fede nella religione, e amare anche fratelli e sorelle, dai più giovani ai più anziani. Ogni uomo deve sentire il mondo intero come la propria famiglia e averne venerazione.
La ricchezza dell’amore
Non c’è ricchezza più importante, più grande dell’amore. Quando vogliamo avere qualcosa, ad esempio, una scatoletta, andiamo a comprarla; ma non è così semplice ottenerla. Bisogna dare qualcos’altro in cambio se vogliamo averla nelle nostre mani. Così dunque, la ricchezza dell’amore (che consiste nel dare) viene prima dell’avere qualcosa. Infatti, se non si offre questa ricchezza dell’amore, niente arriva nelle nostre mani, proprio come nulla si riesce ad ottenere se prima non si è dato.
Qual è la ricchezza che dobbiamo sempre offrire? L’amore. Amore, Amore, Amore. È la ricchezza dell’Amore che dobbiamo accumulare. Quando hai fra le mani questa ricchezza, il mondo intero è a tua disposizione. Con l’Amore puoi “comprare” la verità, la rettitudine, la pace e la non violenza. Con l’Amore puoi persino acquistare agevolmente in qualsiasi momento e in qualsiasi posto i valori umani. Compriamo dunque questi valori umani con l’oro dell’Amore.
Verità e Amore
Essendo oggigiorno in declino i valori umani, non si riesce ad ottenere niente. Chi è l’uomo? Uomo è colui che possiede dei valori umani. Secondo la nostra tradizione, l’obbiettivo principale dell’uomo è la verità e la giustizia. Perciò le Scritture dicono: “Di’ la verità; pratica la giustizia”. Agli Indiani sono stati insegnati questi due princìpi fondamentali e, in realtà, verità e giustizia sono ciò che di più importante serva a ciascun essere umano.
Come si esprimono la verità e la giustizia? La verità è amore; la giustizia pure è amore. Se la verità non è altro che amore, laddove c’è amore, c’è verità; e nella giustizia trova espressione l’amore. Quindi, se si vuole che l’amore si manifesti, occorre portare nella vita pratica la verità e la giustizia. Per gli Indiani, infatti, è importante che sia detta la verità, qualunque sia il rischio che si corra nel dirla.
Harishchandra rinunciò a tutto in nome della verità. Giunse perfino a vendere moglie, figlio e se stesso, riducendosi a fare il becchino presso un campo crematorio. Ma non si diede mai assolutamente pena di tutto ciò che gli accadde.
Tutto il Creato proviene dalla verità, ed ogni cosa creata s’immergerà alla fine nella verità. Quando scoprirai che non c’è luogo che sia privo della gloria della verità, là ci sarà completa purezza. Quella purezza è Dio.
La verità è Dio; l’amore è Dio.
Vivete nella verità.
Dobbiamo vivere in verità e amore. Sono come la testa e i piedi. Un uomo non veritiero e ingiusto sarà cieco. La verità e la giustizia sono i due occhi, senza i quali non esisterebbe assolutamente creazione, né sacre scritture, né Upanishad, né Veda, poiché queste nascono dall’amore dell’uomo.
Ogni uomo, ricco o povero che sia, ha un unico patrimonio, che è l’amore. Non c’è differenza tra l’amore che una madre dimostra ad un figlio di miliardari e quello di una madre che lo dimostra a un figlio di poveri. L’amore è in sé divino, (infinito) anche se è destinato a singole persone. Tutto l’amore è in stretto rapporto con Dio, poiché Dio è un’espressione d’amore.
La forza dell’Âtman
Dio è l’incarnazione dell’amore e come tale dimora in ognuno. Il fine della vita si raggiunge dunque per mezzo dell’amore. Bisogna dire che un uomo privo d’amore è simile a un pazzo che vaga in un deserto senza meta. I Veda hanno dato il nome di “Âtma” alla qualità dell’amore presente nell’uomo. L’Âtma è amore, Brahman (Assoluto), Dio, Verità, Giustizia. Amore è perciò sinonimo di Âtma.
L’Âtma che si trova all’interno dell’uomo, viene dai Veda definito Âtmavan.
Che cosa significa Âtmavan? Brahma è colui che è sorto dall’ombelico di Vishnu; quel Brahma porta il nome di Âtma. Quindi, Brahma si chiama Âtmavan. Lo chiamano anche Aham (“Io sono”). Questo Aham esiste in ognuno e, dunque, in ogni essere umano esiste ab æterno il principio di Brahma. Chiunque possiede la qualità dell’Âtma, il principio di Brahma, sia egli un pazzo, un agnostico, un ateo, un credente o un credente non praticante. In tutto non c’è che un solo principio: quello di Brahma.
Persino il suono emesso dal respiro, che fa “Sooo… haaammm”, ci ripete continuamente che veniamo dal principio di Brahma. So ham, infatti, significa “Io non sono altro che Dio”. Da dove viene il respiro? Dal loto dell’ombelico; ogni giorno, per 21.600 volte esso ripete la formula “Io non sono altro che Dio”; ma questo lo si è dimenticato.
Si comprano libri per leggerli; si cantano i Veda e si salmodiano le Scritture. A che serve tutto ciò? Se non seguite la vostra voce interiore, non sarà di alcun beneficio né di alcuna utilità leggere delle semplici parole esteriori. Seguite prima di tutto la voce della vostra coscienza, che è il vostro vero ed autentico guru, il vostro vero ed autentico Dio.
Brahma: amogham e siddhah
Dunque, Brahma è sempre eterno; per questo i Veda lo definiscono amogham. Che cosa significa amogham? Mogha vuol dire “impermanente, effimero”; a-mogham significa (per la “a” privativa che lo precede, NdT) “ciò che permanente”, “ciò che è da sempre”. Quindi, la Divinità è eterna. Anche il respiro che viene esalato è eterno: esso è in ogni corpo e, quando esce da un corpo, entra in un altro.
Giacché sfugge a ogni descrizione, lo si è chiamato amogham. Alcuni dicono: “Ho raggiunto amogham, ânanda, la beatitudine”, per indicare, come in questo caso, che stanno sperimentando una gioia senza fine.
Poiché Dio è Colui che soddisfa tutti i desideri dei devoti, Gli si è dato il nome di siddhah. Che significa? Alcuni dicono: “Sono siddha, cioè sono pronto a sedermi a tavola; sono siddha a viaggiare”. Ma non intendo in quel senso. “Sono pronto (siddha) a dar soddisfazione ai vostri desideri” è una frase che può dire Dio. E, sebbene Swami sia disposto a darvi ciò che desiderate, poiché voi non ci credete oppure la vostra preghiera non è giusta, in effetti non accade nulla di ciò che volevate. Se voi invocaste Dio con tutta la vostra devozione, Egli vi concederebbe qualsiasi cosa.
Âtmavan è della natura di Îshvara. “L’Universo intero è pervaso da Dio. Dio è in tutte le creature viventi”, affermano le Scritture. Dio è in tutti gli esseri viventi e in tutto. Di nulla Egli ha bisogno; niente Egli vuole. Non ha assolutamente desideri né voglie. Qualunque cosa si desideri, è per i Suoi devoti; qualunque cosa si decida, è a favore dei devoti. È dunque importante che si dia spazio alle buone risoluzioni.
La “Proprietà” di tutti
Chi è l’uomo? È uno che possiede una mente. Che cos’è la mente? È quella che prende le decisioni e formula pensieri. In che modo dovrebbero essere quei pensieri e quelle decisioni? Solo con buoni pensieri e buone risoluzioni ci si può considerare veri uomini. Chi non si cura di avere pensieri veritieri non è per niente un uomo. Dio è identico sia per il poveraccio che per il sadhu, l’asceta. L’unica proprietà uguale per tutti è Dio; l’unico amico comune a tutti, lo stesso per tutti gli uomini è soltanto Dio. Solamente Dio ha una potenza, unica e immutabile.Tutti ne hanno diritto; tutti possono sperimentarLo. Non c’è modo di fare osservazioni del tipo “Quello non ne ha diritto; quest’altro sì”. In ogni caso, occorre sviluppare quella purezza di cuore.
La compassione è la qualità tipica del cuore. Hr + daya, che diventa hridaya, “cuore”, significa proprio questo; infatti, daya vuol dire “compassione”. Un cuore, che per natura dovrebbe essere pieno di “compassione”, è stato tramutato in un cuore pieno di “passione” (Swami gioca con i due termini inglesi compassion e fashion, ovvero “moda, capriccio”, NdT). Dov’è la compassione? In verità, se ci fosse compassione, come si spiegherebbero tutti i turbamenti che si verificano nel mondo d’oggi? Ovunque si volga lo sguardo si vedono i segni di ogni genere d’odio e conflitto.
Ishvarachandra Vidyasagar
Incarnazioni del Divino Amore,
non ci dovrebbero essere lotte fra di voi, poiché in ognuno di voi c’è il Divino. Si può affrontare l’argomento da un’angolazione terrena. Ishvarachandra Dayasagar (più tardi citato col suo vero nome di Vidyasagar, NdR) abitava in un piccolo villaggio nei pressi di Calcutta. Era molto povero; non aveva mai il becco d’un quattrino. Per studiare, si metteva sotto una lampadina dell’illuminazione stradale. Quando una persona è decisa a studiare, lo fa in qualsiasi situazione. Chi è serio ottiene tutto nella vita, raggiunge qualsiasi scopo. Come dicono le Scritture, “La sincera fede ti darà sapienza”. E costui era uno che la fede ce l’aveva, e tenace.
Fu così che riuscì a superare gli esami in legge e divenne un grande oratore. Quando teneva discorsi, c’erano migliaia di persone che accorrevano per udirlo; c’erano folle ad ascoltarlo, per provare l’emozione delle sue parole. Ma, al tempo stesso, questa cosa non gli piaceva. Non aveva lavoro e gli era assai difficile tirare avanti in famiglia. Sua madre era anziana e per giunta inabile. L’unica cosa che sapeva fare era bollire del ganji, cioè della farina d’avena, per suo figlio. Ma egli non voleva prenderne, perché a malapena sarebbe bastato per lei. “Bevi, figliolo”, gli diceva lei; ed egli rispondeva: “No. Bevilo tu, mamma”.Tanto era l’amore che aveva per sua madre.
Col passar degli anni, le angustie e le sofferenze non rimangono mai le stesse: il tempo cambia le cose. Un figlio appena nato si chiama bimbo; quando ha dieci anni, ragazzo. Sui trent’anni si dice che è un uomo e a 75 anni, diventa un nonno. Così, mentre uno passa dall’infanzia all’adolescenza, e poi alla maturità e alla vecchiaia, sia le gioie che i dolori mutano.
Le sue difficoltà appartenevano ormai al passato. Ora aveva trovato un lavoro, con un buon stipendio. Egli portò i suoi guadagni a sua madre e, mettendoli ai suoi piedi, le disse “Amma, dimmi che cosa desideri. Vuoi un sari, dei gioielli o qualcos’altro?” La madre rispose: “Per ora non ti chiedo nulla. Verrà un tempo in cui ti dirò che cosa desidero”.
Ebbene, (Vidyasagar) non era uno che parlasse alle spalle della madre; ne aveva un profondo rispetto e le prestava obbedienza. Ogni giorno le si chinava ai piedi per farle namaskar, e poi tornava in ufficio. Intanto, il suo salario andava sempre più aumentando, mese dopo mese. Una domenica si sedette vicino a sua madre e le disse: “Amma, me lo dirai ora? Ho avuto degli aumenti di stipendio e sono ricco; devo spendere i soldi in qualcosa, no?”
Ed ella disse: “Vorrei tre gioielli. Ora, oggi te ne chiedo uno. Sai quale? Al nostro villaggio ci sono tanti ragazzi. Dove andranno a studiare se non c’è nemmeno uno straccio di scuola qui? Andranno a scuola in una città molto distante da qui. I loro genitori staranno in pensiero finché non saranno ritornati a casa, si preoccuperanno che ai loro figli non sia successo niente di pericoloso. Perciò, mio caro, ecco il primo gioiello che ti chiedo: una piccola scuola per i ragazzi del nostro villaggio”. E così fu. Vidyasagara edificò una scuola.
Dopo un po’ di tempo, la madre gli disse: “Figliolo, vorrei anche un altro gioiello”. “Dimmi, madre, di che si tratta?”, le rispose il figlio. “Le mamme hanno molto di che tribolare nel portare i loro figli all’ospedale in città. Devono affrontare un sacco di difficoltà. Al nostro villaggio non c’è nessuno che possa curare le malattie, nemmeno con un pizzico di polvere. Non c’è un’anima che distribuisca anche la medicina più semplice. Figliolo, costruisci un piccolo ospedale in questo villaggio che è sprovvisto di tutto!” Bene. Costruì l’ospedale.
I desideri della madre furono soddisfatti in larga misura e lei ne era felicissima. Tutta la gente aveva parole di elogio per questo Ishvarachandra Vidyasagar e la sua reputazione crebbe. Dopo qualche tempo, la madre si ricordò di aver espresso un terzo desiderio: “Mio caro, siediti qui. I pozzi del nostro villaggio sono ormai in secca”.
Scarsità d’acqua
Quando nella gente si perde il senso della giustizia e della rettitudine, anche l’acqua vien meno nella terra. Se si pratica il dharma, se i popoli vivono nel giusto e nella verità, l’acqua non scarseggia mai, cade tutta la quantità di pioggia di cui abbiamo bisogno, i fiumi scorrono abbondantemente secondo quanto ci serve. Da che cosa dipende questa scarsità d’acqua? È la sfortuna che svuota i pozzi? Eppure i fiumi scorrono per andare verso l’oceano e le piogge cadono. Ma la gente dà la colpa al tempo: “Le stagioni non sono più regolari, le piogge non cadono, non riusciamo a trovare acqua…”.
Questa non è che una propaganda falsa. Ma soprattutto, c’è da chiedersi che cosa è diminuito tanto da far diminuire l’acqua? Solo quanto viene meno la compassione e l’amore negli uomini, anche l’acqua diminuisce. L’amore ha abbandonato il cuore dell’uomo e perciò l’acqua sulla terra è diminuita. La scarsità d’acqua non è dovuta alla mancanza di benedizioni o all’ira di Dio. La causa principale è da ricercarsi nei pensieri cattivi degli uomini, nei loro cuori aridi e privi di giustizia e d’amore. Ecco perché nel mondo c’è una gran penuria d’acqua.
“Nel nostro villaggio l’acqua è scesa sotto il livello di guardia – disse la madre di Vidyasagara – e nemmeno i bambini, che vanno al pozzo con un secchiello e ve lo calano giù, riescono a tirarne su un goccio. Fa’ dunque qualcosa affinché nel nostro villaggio ci sia abbastanza acqua”. Ebbene, dopo un po’ di tempo, suo figlio provvide all’impianto di nuovi pozzi. Arrivò il giorno in cui la madre, prese le mani del figlio nelle sue, disse: “Mio caro, di figli come te me ne basta uno solo!”
Ci sono dei miliardari che, quando hanno dei figli, esultano: “Mi è nato un figlio!”
Dhritarâshthra ebbe numerosi figli,
ma che cosa accadde loro?
Shuka, che non ebbe prole,
ottenne fama e grandezza.
A che servì dunque che Dhritarâshthra avesse cento figli. Aveva tutta la ricchezza che voleva, ma a che gli è servita? Non fu assolutamente felice. Shuka invece, che non ebbe figli, ebbe buona fortuna.
Quella donna esclamò allora: “Ho un unico figlio, ma mi basta, perché il suo cuore è davvero grande”. Questa madre avrebbe voluto che ogni madre avesse un figlio come il suo e, quand’anche ne avesse avuti molti, almeno uno fosse virtuoso, utile alla società e di buon intelletto.
I ricchi e la ricchezza
Ci sono oggi nel mondo dei milionari che hanno tutto quello di cui hanno bisogno, e l’India non ne è assolutamente priva. In India non mancano proprio le persone colte, non c’è penuria di studiosi, né di dottori. Noi qui abbiamo tutta la gente che vogliamo. Ma a che serve la loro presenza, se non c’è unione fra loro. Gli eruditi, quando si confrontano tra di loro, si riempiono d’orgoglio; i ricchi sono gelosi l’uno dell’altro, e su questa linea, molti non fanno che accrescere tali sentimenti.
A che serve essere così ricchi? A che scopo avere tanta scienza e tanto denaro? Dove c’è tanto sfoggio di potere senza un buon carattere è tutto uno spreco. In ciascun uomo dovrebbe esserci sempre più spirito di sacrificio. È su questo punto che i Veda affermano: “Non è l’attività, né la posizione sociale, né la ricchezza, ma soltanto il sacrificio che fa essere immortali”.
Che cosa s’intende per sacrificio? In India ci sono tanti miliardari e milionari. Non saranno nell’ordine di centinaia di migliaia, ma almeno migliaia. Di che utilità sono alla nazione? “Ammassa, ammassa, sempre più denaro”: questo è il loro desiderio e, per questa cattiva aspirazione soccombono a un cattivo destino. Vanno a mettere tutto il loro denaro presso banche straniere e chiudono gli occhi.
Perché non servirsi della ricchezza per aiutare la nazione? Perché non impiegare dei capitali per aiutare i connazionali? Perché non offrire un sostegno al progresso sociale? Invece, questo tipo di sentimenti si sono completamente estinti. Se osservate come parlano, vedrete che le loro parole sono dolcissime. C’è tanta dolcezza nel loro parlare, ma, se guardate al loro operato, c’è tanta amarezza nel loro comportamento. Parlano in un modo, e agiscono in un altro.
Ci sono centinaia di cose che si possono dire, ma loro non vogliono attuarne nemmeno una. Perché dunque parlare se poi non si fa in concreto? Tengono dei gran bei discorsi, e dicono che la società ha bisogno di questo o di quello, che bisogna far sacrifici. Ma loro, quanti sacrifici sono disposti a fare? Giusto quello che li vede impegnati per qualche ora su un palco a parlare. Subito dopo, il tema del sacrificio che hanno trattato va da una parte e loro se ne vanno dall’altra. Il sacrificio oggi non è altro che motivo di sfoggio e di esibizioni. La gente ha fatto del sacrificio una ragione di propaganda per sé: sul podio quelle persone sono degli ‘eroi’, fuori scena son solo degli ‘zero’. Ma lo zero rimane sempre zero. Hanno i soldi, ma non vogliono sacrificarli.
Umiltà di Ishvarachandra
Ciò che arriva alla mano destra dovrebbe essere sacrificato dalla sinistra. La ricchezza che arriva andrebbe sacrificata. A che servirebbe altrimenti, se non ad essere utilizzata come sacrificio? Ishvarachandra Dayasagar se ne servì in questo modo e dimostrò a quel tempo quanto fosse altruista. Si recò in un villaggio, in un centro abitato, per fare un discorso. In treno capitò nello stesso scompartimento di un ragioniere dello Stato.
Entrambi erano diretti alla medesima destinazione. Ishvarachandra, dopo aver preso una valigietta, scese dalla vettura. Scese anche il funzionario e, pur avendo un piccolo bagaglio, chiamò: “Facchino! Facchino!” Ishvarachandra guardò stupito e disse: “Signore, avete solo questo piccolo bagaglio? Nient’altro?” “Nient’altro”, rispose. “E per questo solo chiamate il facchino? Ve lo porterò io”. Lo afferrò per portarglielo. “Tutto qui?”, pensò quel ragioniere, sottovalutando la persona che gli portava il bagaglio.
La testa di chi studia le materie economiche è sempre tra le nuvole; sono persone che non si accorgono degli altri.
A che serve acquisire tanta scienza terrena
se poi non ti porta ad acquisire l’immortalità.
Acquisite la conoscenza che vi fa essere immortali.
Ecco la civiltà odierna: al modico prezzo di un quarto d’anna (una rupia è fatta di 14 anna, NdR) acquistate delle foglie verdi, e la tariffa d’un facchino è di 4 anna. In quel modo sprecate denaro. Alcuni ritengono che sia una questione di rispetto per l’uomo, ma non è questo il rispetto. Nell’umiltà e nell’obbedienza c’è rispetto.
Ishvarachandra Vidyasagar prese dunque quella valigia dicendo: “Dovunque andiate, vi accompagnerò”. Il ragioniere disse che doveva fermarsi in un piccolo hotel, e Vidyasagar gli portò il bagaglio fino a quell’albergo. Giunti che furono a destinazione, il ragioniere aprì il portafoglio per pagargli la tariffa.
“Signore, – disse Vidyasagar – non ho bisogno di denaro. Questo servizio è un mio preciso dovere. Io non lo faccio per soldi, ma per amore.”
Ciò detto, Vidyasagar se ne andò. Più tardi, si recò dove c’era il palco predisposto per il discorso, e il ragioniere lo vide. C’era molta gente seduta in attesa di ascoltarlo. Anche il ragioniere si sedette. Vidyasagar salì sulla predella tra le acclamazioni degli anziani che gli gettavano ghirlande di fiori. Il funzionario, che vedeva tutto ciò, esclamò: “Che persona! Ma è proprio quello che mi ha portato il bagaglio? È Ishvarachandra? Che umiltà e che altruismo!” E, mentre pensava questo, si pentiva della sua distrazione.
Dopo aver ascoltato attentamente il discorso, prima che se ne andasse, avvicinò Ishvarachandra Vidyasagar, gli prese le mani fra le sue e disse: “Perdonatemi! Il mio errore è dovuto unicamente al tipo di istruzione che ho ricevuto; una cultura tronfia d’orgoglio. L’ego mi ha distrutto tutti i sentimenti di umanità, mentre voi, che siete una personalità importante, nutrite senso umano, compassione, amore, coraggio ed equanimità. A che serve essere uomini se mancano queste virtù?” Gli fece namaskar, e, dopo di ciò, Vidyasagar gli presentò il suo biglietto da visita e si congedò. È così che, in molti modi, le persone di animo nobile si propongono come esempio ideale agli altri.
Îshvaramma
In verità, oggi è il giorno di Îshvaramma. Chi è Îshvaramma? Nessuno lo sa. Si sa in generale che il suo nome è Îshvaramma, ma niente di più. Îshvaramma significa “Madre di Îshvara”, Madre del Signore (applausi), ma il suo nome non è come quello che si attribuisce ai genitori. All’epoca del suo matrimonio, Kodama Raju le disse: “Amma, questo nome non si adatta a te, non va bene. Per te ci vuole il nome Îshvaramma”. E così fu chiamata.
La famiglia di Îshvaramma era poverissima; nelle loro mani non c’era mai un solo centesimo a quel tempo, e lei non sapeva nemmeno che cosa fosse il riso: non si mangiava altro che sangati, sangati, e ancora sangati. Era del ragi; ragi sangati.
Nel Karnataka molta gente mangia il ragi. A me piace moltissimo. Non vado matto per il riso, il kurma e il dâma (?), ma mangio volentieri il ragi, tuffato nella salsa di chutney. Quanta gioia mi dà! Qui, nel nostro villaggio, si trova, ed io ne sono ghiotto. Persino quando vado via, mi porto una scorta di farina di ragi. Quando vado a Kodaikanal raccomando ai ragazzi di portarsela con sé. In questo modo, dovunque mi trovi, il mio cibo è sempre lo stesso.
Îshvaramma era completamente analfabeta; non era mai andata a scuola. Io credo che sia stato un bene, dal momento che la gente istruita diventa poi tanto egoista. Non è facile tenere a freno la gente che ha fatto tanti studi, così, nella loro vita, nei loro atteggiamenti, come camminano, come vestono, ecc., sono tutti un po’ scombinati.
Dunque, lei non aveva studiato, ed io penso che sia stato un gran guadagno per lei. All’epoca io ero un bambino, che era solito insegnare agli altri bambini i Pandari bhajan (dei canti danzati, dedicati a Panduranga, uno degli aspetti di Krishna, NdR). Questo mio corpo allora aveva sette anni e mezzo e, quando facevo quei passi di danza, Subbamma e Îshvaramma s’inondavano della stessa beatitudine divina.
Un giorno, Venkama Raju le diede dei soldi per la spesa. Lei se ne servì per le compere e le avanzarono due anna, che conservò a parte. Poi, con quei due spiccioli comprò due o tre pacchetti di riso soffiato, che distribuì a tutti i bimbi (del Pandari bhajan). Tutto quello che aveva in più, lo elargiva agli altri, perché era una donna piena di spirito di sacrificio. Dava tutto a tutti. A chiunque andasse da lei si rivolgeva con parole dolci e amorevoli. C’era chi accorreva a lei piangendo “Amma, amma!” Ma lei rispondeva: “Che c’è? Swami non ti ha guardato? Sarà per il tuo bene; non preoccuparti!”
Dopo la formazione del Pandari bhajan, mi mandarono a studiare a Uravakonda. La sera, in quel villaggio, raccoglievo i bambini per dar loro degli insegnamenti. E i bambini venivano tutti. “Raju, – dicevano – tu vieni da noi. Che cosa possiamo offrirti come gurudakshina (l’offerta che si fa al maestro, NdR)?” Poiché si sentivano molto a disagio, portai loro un cestino, in cui ognuno mise tre naiya paisa. Erano in dieci e il totale raccolto faceva due anna e mezzo. Poi presi quella colletta e la consegnai a Îshvaramma, la quale, prendendomi la mano, voleva restituirmi i soldi, dicendomi fra le lacrime: “Mio caro, per dei bimbi così piccoli, questo è un enorme sacrificio! E tu nemmeno trattieni ciò che ti hanno dato. Ciò che han dato a te, l’hanno dato anche a me”. Così, finché visse, tenne in custodia quei due anna e mezzo in una borsetta.
“Costruisci ospedali e scuole”
Tempo fa edificammo un mandir. Allora io abitavo a casa di Subbamma. Le visite dei devoti erano in continua crescita. Un giorno, Îshvaramma venne di sopra e (alla gente che le andava dietro) disse: “Voi venite tutti qui, ma non dovreste seguire nessuno”. Mentre ero seduto a tavola per mangiare, mi venne vicino, mi prese le mani e mi disse: “Nel nostro villaggio non ci sono ospedali. Costruiscine uno; sarà sufficiente anche piccolo. Tutte le mamme hanno dei gravi disagi nell’accompagnare i loro figli, a volte ancora in fasce, a Bukkapatnam. Non sopporto di vederle soffrire. È come se fossero tutti figli miei. Perciò, ti prego, costruisci un ospedale”. Io allora le dissi: “Va bene; lo farò”.
Ne ho costruito uno grande. Al termine dei lavori, era Primo Ministro Besawada Gopal Reddy. Lo convocai per farglielo inaugurare. Quel giorno Îshvaramma era traboccante di gioia, e non mangiò nulla, né bevve alcunché. Nient’altro voleva. “Swami, questa cosa mi ha riempito lo stomaco”. Poi, dopo essere salito di sopra ancora, ella venne a dirmi: “Che posso volere di più, Swami? Ciò che più desideravo in cuor mio si è realizzato”. “Sii felice”, le dissi. Ed ella: “Non ancora. C’è dell’altro!”
Dopo un po’ di tempo, venne nuovamente da me: “Swami, al villaggio c’è scarsità d’acqua. Non è un luogo adatto allo studio”. Allora, al villaggio di Puttaparthi ho fatto costruire una piccola cabina, che inaugurai e, dopo un po’ di tempo, feci estendere.
Un giorno, Îshvaramma la vide e disse: “Swami, come sono felice! Ci sono forse dei figli oggi al mondo che soddisfino i desideri delle loro madri? I figli del giorno d’oggi non fanno che dare tribolazioni alle loro mamme; l’era moderna vede nascere figli del genere. È un’era dove manca la compassione e la sincerità. Non c’è amore per la madre. Ciò che hai fatto, però, mi ha reso così felice!” Poi andò alla scuola e dispensò baci e carezze a tutti i bambini.
Progetto acquedotto
Dopo la costruzione dell’ospedale, accaddero tutte queste cose. Mi disse che ci voleva l’acqua, e io le dissi: “Ci sarà, ci sarà. Non pensarci”. Non serve fare tante piccole perforazioni del terreno, come fanno tanti vantandosi poi di avere molti pozzi. Ma, in realtà, dopo poco tempo non hanno più nemmeno un goccio d’acqua. Quindi, piuttosto che perforare in tanti punti, sarebbe meglio non scavare proprio per niente. C’è tanta gente oggi che continua a scavare dei piccoli pozzi, che danno acqua per un anno e l’anno dopo rimane prosciugato. Non mi piacciono quei pozzetti; sono solo parole vuote, vane promesse. Perciò non mi piacciono. Feci un pozzo profondo, vicino al vecchio mandir. “Ciò che si ha in animo accade” e tutto possono ottenere coloro che hanno un buon pensiero.
Allora dissi: “Lo farò con buone intenzioni, amma; ed è naturale che ci sarà acqua”. Non furono scavati più di sette piedi che si trovò subito l’acqua. Anche oggi, chiunque di voi può recarsi al vecchio mandir per vedere. Sotto quei sette piedi di profondità c’è tanta acqua quanta ne serve ad ognuno. Chiunque può andare ad attingervi acqua. Ho fatto mettere una porta di servizio per consentire a tutti gli abitanti del villaggio di prelevare acqua.
Pian piano, con l’aumento dei pellegrini, come ben sapete, ho dato acqua all’intero Distretto dell’Anantapur. In che modo? Ho preso l’acqua da Tungabhadra e l’ho distribuita a tutti. Sono stati spesi due o tre miliardi di rupie (applausi). In verità, se tutti i governanti, i dirigenti, i ministri e gli anziani ci avessero pensato, che cosa impedirebbe loro di farlo? Ma nessuno ci pensa. Pensano solo ad accumular soldi e incamerano tutto quel che arriva. Esiste ancora da qualche parte lo spirito di sacrificio? Assolutamente no. P.V. Narasimha è venuto l’altro giorno e mi ha detto: “A parte te, Swami, non c’è nessuno che la pensi in questo modo. Metti su un corso estivo per ministri!”
Perciò, ancor oggi sto dicendo quell’unica cosa: recuperate l’acqua perenne della vita e dispensatene a tutti. Se non c’è acqua, scavate un po’ più in profondità. Scavate dei pozzi, costruite dei grandi serbatoi e distribuite acqua a tutti. L’acqua è vitalità, prâna. Senz’acqua non c’è esistenza. Anche quando uno muore, serve acqua. Perciò ho detto che l’acqua è un condensato di prâna.
Prima che morisse, dissi a Îshvaramma: “Amma, hai chiesto tre grandi cose, di estrema importanza: l’istruzione per educare la mente, la medicina per sanare il cuore, l’acqua per la vita del corpo. Le ho date tutte e tre gratuitamente”. Qui la scuola è gratuita per tutti (applausi), l’istruzione è gratis per chiunque. Non ci sono tasse d’iscrizione o d’esame. Io do gratuitamente persino l’occorrente di cancelleria per la scuola. Io so solamente offrire: scuola gratis, cure gratis.
Quando vi serve un’operazione di cardiochirurgia, vi vengono chiesti normalmente due o trecentomila rupie. Non so perché il nostro popolo indiano sia diventato così debole. Tutta la gente che ha studiato medicina è come regredita all’ultima classe. I medici vendono tutte le loro capacità professionali. Ciò che vogliono sono i soldi. Ma ci dev’essere un limite. Si vende tutto: la professione, il cibo, l’istruzione e, alla fine, perfino sé stessi. In questa maniera l’India si sta indebolendo.
Cultura sacra
L’India è una sacra terra, la terra del sacrificio, la terra dello yoga. Ma la terra dello yoga sta per essere trasformata in una terra del bhoga, ossia dei piaceri materiali, e non è certo un bene. Di tutto quanto possedete dovreste dare la metà al prossimo. Basta poco a riempire lo stomaco; il resto è in eccesso. Per bere vi basta un bicchiere d’acqua, non vi serve portar via tutta l’acqua del Gange.
È così che cresce l’avarizia e l’ingordigia. Tanta avidità, ma poi, alla fine, che cosa succede? L’avidità si tramuta in desideri cattivi e capita la stessa sorte che capitò a Duryodhana. Non abbiate pensieri e sentimenti cattivi. Vivete in sintonia con la virtù dell’amore. Se non avete niente da dare, dite almeno una parola amorevole.
Non potete sempre usar gentilezze,
ma potete sempre parlare con gentilezza.
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Figlioli, cominciate da ora che siete giovanissimi a correggervi per il vostro avvenire. Quando siete con i vostri amici, con i vostri compagni, dovreste parlare con amore. Se con voi avete due matite, datene una a loro. Se avete una penna, datela a chi ne ha più bisogno. E se avete un taccuino, togliete due fogli per darli a chi non ce l’ha. In questo modo, iniziate il vostro cammino nel sacrificio.
Non lasciatevi turbare da ciò che potrebbero dirvi i vostri genitori. Anzi, dite loro: “Mamma, ne ho d’avanzo; per questo ho dato due fogli al mio amico”. Ditelo loro, senza commettere errori, e anch’essi ne saranno felici.
Voi tutti dunque crescete nell’amore; non c’è ricchezza pari all’amore, e se avremo amore, arricchiremo di certo la gente: diverremo dei miliardari, acquisteremo autorità. L’amore è quanto di più importante ci sia per noi. Perciò, abbiate buoni sentimenti e un buon intelletto.
Rispetto per i genitori
Studenti, abbiate rispetto per i vostri genitori. Ogni volta che entrate in casa, salutateli col namaskar. Nei giorni di festa fate il namaskar a vostra madre, come pure quando andate a scuola e al vostro ritorno. “Riverite la madre come Dio; riverite il padre come Dio”, si legge nelle Scritture vediche. C’è forse un Dio migliore di vostra madre? È stato detto che nessun Dio sta più in alto della madre. Perciò, rispettate vostra madre. Se vostra madre parla con asprezza, chiudete la bocca e state buoni e tranquilli. Se pensate che quanto dice sia sbagliato, trovate il momento giusto per dirglielo con decisione: “Mamma, mi hai dato una lavata di capo, vero? Per quale ragione? Che ho fatto di male?”. Però, ditelo con gentilezza.
Nessuna madre nutrirebbe mai dei sentimenti di avversione per il proprio figlio. Ci possono essere dei figli discoli, ma non ci sono mai al mondo delle mamme cattive. Quindi, rispettate la madre. Amatela. Solo in questo modo il vostro avvenire avrà progresso. Oggi voi siete nel ruolo di figli. Domani potreste essere madri o padri. Provate a pensare quanto male vi sentireste se, nel ruolo di genitore, i vostri figli non vi rispettassero! Tenete sempre a mente questo pensiero: “Dovrò sperimentare tutto questo nel mio futuro!”
Ci sono dei ragazzi oggi che non hanno rispetto per le loro madri né per i loro padri. Si rivolgono a loro con tono duro per chiedere soldi: (Swami con voce aspra) “Papà, dammi quattro rupie!” È così che si fa? Il padre è come Dio: “Venerate il padre come Dio”. (Swami, con voce dolce) “Papà, vorrei…” – ditelo con tono soave e dolce – “… che tu mi dessi quattro rupie”. Senza alcun dubbio, vi verranno date. Ma se, invece, lo dite così: “Papà, voglio quattro rupie; dammele subito”, il papà vi dirà: “No, non te le do. Vai!” “Accade ciò che si ha in animo”: il loro rispetto per voi sarà come quello che voi avete per loro.
I ragazzi d’oggi che hanno preso dei diplomi sembrano molto sciocchi. E allora, a che sono serviti quei titoli di studio? Non ne ho proprio la minima idea. Hanno solo una cultura nozionistica, basata sui libri. Studiare, studiare, studiare; imparare a memoria, sottolineare e riempire i testi con annotazioni a mano, e tutto solo per avere un documento che dichiara “promosso”. Il giorno dopo gli esami, se fate loro qualche domanda, hanno dimenticato tutto e fanno scena muta.
Studia, studia, studia… Domani nulla rimarrà.
Studia tutto quanto c’è da studiare, diventa coltissimo, e poi?
Impari l’arte per metterla da parte.
Più dello studio va appresa la cultura, la nostra cultura indiana, il cui pregio è davvero inestimabile. Abbiatene la giusta considerazione e venerazione. Con chiunque parliate, parlate con umiltà.
Parlare dolcemente
C’è poi un’altra cosa che va detta a tutti i bambini. Un amico di vostro padre chiama al telefono. Appena sollevato il ricevitore (qui Swami usa di nuovo un tono dolce): “Chi è che parla, prego? Namaskar. Che cosa desidera?” Usate un tono gentile quando parlate. Invece voi fate così (Swami imita il tono sgarbato): “Chi sei?” “Sono un amico di tuo padre. Puoi passarmelo?” “Mio padre non c’è!” e giù il ricevitore. Bugie. Tutte bugie! “Non c’è…”? Ma se è lì, seduto proprio accanto a voi. Questo non è leale!
Se qualcuno viene a casa vostra per vedere vostro padre, voi ditegli: (Swami fa la voce dolce) “Chi siete? Che cosa desiderate? Entrate pure. Accomodatevi”. Fatelo sedere e offritegli una tazza di tè. Come saranno felici le persone di una certa età! Saranno felicissime, e penseranno: “Che gentile questo bambino! Com’è servizievole!” Imparate dunque bene ad essere ospitali con chi viene a trovarvi a casa. L’ospitalità non si trova sul vostro quaderno di appunti, ma sul quaderno della vostra bocca (Swami gioca con i termini note-book e noti-book; noti in telugu significa “bocca”, NdR). Dalla bocca possono uscire tutte quelle parole buone.
Ora basta. Vivete con amore e Dio si manifesterà dentro di voi.
(Baba termina il discorso cantando il bhajan “Prema mudita manasa kaho, Rama Rama Ram….”)
Whitefield, 06 Maggio 2000.
Festa di Îshvaramma.
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