23 Ottobre 1994 – Cantate il Nome, cantate la Sua gloria

23 Ottobre 1994

Discorso Divino di Bhagavan Sri Sathya Sai Baba

CANTATE IL NOME, CANTATE LA SUA GLORIA

Quando si rinuncerà a ciò cui è bene rinunciare,
quando si conoscerà ciò che è necessario conoscere,
quando si raggiungerà la meta cui ognuno dovrebbe aspirare,
come sarà possibile descrivere la Beatitudine che se ne riceverà?
Ciò cui si deve rinunciare sono i pensieri legati alle cose del mondo,
ciò che si deve conoscere è la Verità sulla vita,
ciò che si deve raggiungere è la Coscienza del Divino.
Quale Beatitudine più grande potrà mai esistere?

Incarnazioni dell’Amore,

considerando la vita umana, futile e transitoria, gli esseri umani stanno dimenticando il Divino che è eterno. L’uomo non è una creatura ordinaria. Il termine nara, che sta per uomo, significa Spirito (Atma).

L’uomo incarna tre entità: egli possiede una forma nello stato di veglia, un’altra nello stato di sogno ed una terza nello stato di sonno profondo. Anche se lo stato di veglia è stato descritto in molti modi, la divinità che ad esso presiede si chiama Visvudu (o Visva). Visva è formata da venticinque parti costituenti i cinque elementi fondamentali, i cinque organi di senso, i cinque involucri (koshas), la mente, l’intelletto, la volontà, il senso dell’io (ahamkara) e lo Spirito immanente (Jivi).

Insieme questi venticinque elementi costituiscono la divinità che presiede lo stato di veglia. Visva, facendo uso degli organi di senso nello stato di veglia, sente il cosmo permeato del Divino.

La divinità che presiede lo stato di sogno si chiama Thejasudu (Thejas). Theja ha solo diciassette parti costituenti: i cinque organi di senso, i cinque soffi vitali, i cinque involucri, la mente e l’intelletto. In tale stato, l’individuo crea la propria esperienza di sogno, in cui sono compresi gioia e dolore. Le esperienze oniriche sono creazioni mentali di chi sogna.

Nello stato di sonno profondo esiste, come entità divina, Prajna. In questo stato è presente solo il potere della Coscienza (Prajna shakti). Tale Coscienza rappresenta il Principio dell’Entità Suprema. Recitano le Scritture: “la Coscienza e’ l’Assoluto” (Prajilancim Brahnia).

In questo stato, i cinque elementi, i cinque soffi vitali e i cinque involucri sono assenti. Con la mente e l’intelletto pure assenti, l’individuo si trova in uno stato di Beatitudine Suprema, cioè nello stato di Essenza Coscienza – Beatitudine (Sath – Chitli Ananda).

L’uomo, pertanto, nei tre stati di coscienza, costituisce non una sola entità, ma assume una triplice personalità. Non riconoscendo tuttavia il fattore unificante, egli trae diletto dalla molteplicità, diventa vittima di un autoinganno attraverso l’illusione (maya) e dimentica la propria vera natura.

Il fiume della vita

Diventando schiavo dei sensi, l’uomo scende al livello animale invece di elevarsi allo stato di Maestro Divino (Pashupati). L’uomo è come un pezzo di canna da zucchero. Essa è costituita di molti nodi che, riferiti all’essere umano, rappresentano le cattive tendenze, quali cupidigia, ira, avidità, attaccamento, orgoglio e invidia. Queste tendenze assumono varie forme, come amore per la ricchezza, attaccamento a moglie e figli, e così via. A causa di questi attaccamenti, egli dimentica la sua vera natura.

Le Scritture descrivono l’uomo come Tungabhadra. Comunemente, si associa questo nome a quello di un fiume ma, in realtà, Tungabhadra è il “fiume della vita”.

Bhadra significa “ciò che è propizio”;

Tunga significa “ciò che è immenso ed incommensurabile”.

Tungabhadra si riferisce al corpo, che è in grado di conferire, al genere umano, illimitato benessere. Usando il corpo in modo errato, l’uomo rovina la propria vita e distrugge la propria dignità di essere umano autentico.

Il corpo è stato creato per servire gli altri e non per soddisfare i propri piaceri. Purtroppo, a causa delle distorsioni mentali, l’uomo si perde nelle gioie terrene, diventa schiavo dei capricci della mente ed ignora i consigli dell’Intelletto (Buddhi).

Realizzare Dio

L’uomo dovrebbe ricordare che in ogni essere umano è presente la stessa Coscienza Divina (Prajna). Questa verità è accettata da tutte le fedi. Ci si potrebbe chiedere perché Dio non sia visibile, giacché Egli è onnipervadente. La risposta è che, sebbene Dio sia onnipresente, Egli può essere sperimentato solo da coloro che hanno un cuore puro.

Come il latte di mucca può essere ottenuto solo dalle mammelle di questo animale e non da altre parti del suo corpo, così l’immagine di Dio può essere visualizzata solo da coloro che possiedono un cuore pieno d’amore, puro e privo di egoismo. Dio non può essere compreso da coloro che possiedono mente e cuore impuri. Non è possibile vedere il sole quando è coperto da una nuvola, ma, quando il vento la spazza via, esso torna ad essere visibile in tutto il suo splendore. Allo stesso modo, l’uomo deve spazzare via le nuvole dell’ignoranza che avviluppano la sua mente, meditando su Dio. In questa era di Kali, non esiste mezzo più semplice e più grande, per realizzare il Divino, del canto del Suo nome.

Cantare il Nome

Ci sono quattro modi di invocare il nome di Dio. Uno avviene attraverso il canto (kirtana), un’altro tramite il canto comunitario (sankirtana), ed il terzo meditando sul Divino (dhyana). Il quarto modo consiste, infine, nella contemplazione della forma del Divino.

Fra questi, è di fondamentale importanza la meditazione sul nome. Meditando sul Signore, Chaitanya[1] e Mira[2] sperimentarono dentro di sé la visione estatica del Signore. Entrambi erano immersi nel sentimento di devozione al signore. Coloro che sperimentarono il Signore cantando il nome divino sono: Narada, Tukaram, Tulsidas, Ramadas[3] ed altri.

In risposta ad una domanda di Narada, Krishna affermò di essere presente ovunque i Suoi devoti cantino la Sua Gloria. Il canto non deve essere semplicemente un esercizio musicale, ma deve esprimere devozione autentica. Alcuni devoti eseguono canti ispirati ai giochi del Signore (Iila). Jayadeva, ad esempio, si concentrò solo sul canto che contemplava i giochi di Krishna, dimenticando tutto il resto. Così facendo, si identificò totalmente con Krishna. Radha si dedicò al canto della forma di Krishna (rupashantikirtana). Ella vedeva Krishna in ogni oggetto.

Il cuore si intenerisce solo quando le parole di una poesia o di una canzone vengono espresse in maniera melodiosa. (Qui Swami, attraverso il canto sacro “O Rama, salvami!” -Rama nannu kapadu- ha voluto dimostrare come il modo di cantare possa fortemente incidere sulla riuscita e sul fascino dell’espressione canora).

Cantando con devozione, ci si può fondere con il Divino. Questa è la ragione per la quale il Signore viene descritto come “Amante del canto” e “Affascinato dalla musica” (ganalola e ganapryia). Se il devoto vorrà fondersi con il Divino, sarà bene che unisca, alla ripetizione dei nome del Signore, il canto e la preghiera. Questi tre momenti devozionali vengono considerati distinti gli uni dagli altri, ma questo non è esatto.

Dio è Uno, i Nomi sono molti

I devoti tendono ad adorare il Signore sotto diversi nomi. Considerano i nomi diversi gli uni dagli altri, dimenticando che tutti, indistintamente, altro non sono che il Divino Stesso, cioè Essenza – Conoscienza – Beatitudine (Sath – Chit – Ananda). Non dovrebbe esservi sensazione di alto e basso: solo colui che possiede la sensazione di unità può essere definito rinunciante. E’ sbagliato fare distinzioni fra Rama e Shiva, come fanno alcuni devoti di mente ristretta. I Vishnuiti e gli Shivaiti che vanno al tempio Tirumalai, si rivolgono al Signore chiamandolo Venkataramana o Venkateswara, come se i due nomi, sebbene rappresentino la stessa divinità, siano differenti.

Thyagaraja osservò che la parola “Rama” è formata dalle due sillabe essenziali Ra e Ma che sono contenute, rispettivamente, nei mantra, dedicati a Narayana e a Shiva. I devoti dovrebbero, pertanto, cercare l’unità nell’apparente diversità, piuttosto che dividere ciò che è Uno.

L’Amore di Dio

La natura del Divino può essere pienamente compresa unicamente da coloro che sono pieni di devozione. Tutti dovrebbero essere pieni d’amore. L’amore non può sgorgare dal canto di coloro che sono immersi nell’egoismo e nell’orgoglio: l’amore emana dagli umili e non da chi nutre sentimenti di superbia e manca di semplicità.

L’amore divino può manifestarsi solo attraverso pensieri pieni d’amore. Deve esservi un desiderio ardente per Dio allo stesso modo in cui, per poter pensare al cibo, è necessario sentire fame. Questa fame per il Divino esiste in ognuno, ma la malattia dell’orgoglio impedisce, a tale desiderio, di manifestarsi.

La negazione di Dio è una specie di malattia. Colui che non crede è afflitto da una serie di malanni, quali orgoglio, invidia, ira e avidità. Esistono alcuni che hanno un piede nella fede ed uno nell’incredulità. Essi, per qualche tempo, vivono con devozione; in seguito, tuttavia, si perdono nelle cose del mondo. Questo comportamento indeciso crea nella loro vita una condizione di incertezza e di instabilità. Non si può stare con un piede in due staffe. Impegnatevi in una sola cosa e cercate di ottenerla con tutte le vostre forze.

Oggi non esiste tale perseveranza perché gli uomini sono attratti da vari piaceri terreni. Non è bene sentirsi allettati dalle lusinghe del mondo. L’uomo, al contrario, dovrebbe sentirsi attratto solo dal Divino. Krishna è stato descritto come l’essere che, per antonomasia, affascina e seduce attraverso gli sguardi, le parole e l’azione. Per essere attratti dal Signore, tuttavia, è necessario essere puri. Chi è schiavo dei sensi è come un pezzo di ferro arrugginito che non può essere attratto da una calamita.

Nel mondo odierno, l’uomo si dibatte fra le forze del male e quelle del bene, così come avvenne nella guerra descritta nel Mahabharata fra i malvagi Kaurava da un lato ed i virtuosi Pandava dall’altro. Krishna era dalla parte dei Pandava, sebbene non partecipasse al combattimento. Dio è sempre dalla parte dei buoni e dei virtuosi.

“Vedi il bene, sii buono, fai il bene: questa è la strada che porta a Dio”.

Fate ogni sforzo per giungere a sperimentare il Divino.

Gloria del bhajan

Si potrebbe affermare che, quando si va da Sai Baba, non si faccia altro che cantare bhajan. Rendetevi conto che non c’è nulla di più grande del canto dei bhajan. Quale beatitudine vi è in essi! Quale esempio di unità viene offerta quando una miriade di gole si uniscono per pronunciare il nome di Dio! Le vibrazioni che da essi emanano fanno fremere il cuore. Se cantate da soli, nel luogo che avete destinato a luogo sacro, come reazione, le vibrazioni tornano a voi. Ma, nel canto comunitario, non avviene una reazione di ritorno, ma si crea un’ondata vibratoria che diffonde armonia tutt’intorno. Essa penetra nell’atmosfera e purifica l’aria inquinata.

L’atmosfera, oggi, è contaminata da cattivi pensieri e da sentimenti negativi. Quando cantate la Gloria del Signore, i germi nocivi presenti nell’aria vengono distrutti e l’aria torna ad essere pura, come se avesse subito, per così dire, un trattamento a base di antibiotici. I bhajan sono, perciò, estremamente preziosi. Si è detto che, nel Kali yuga, non esiste pratica spirituale più grande del canto del nome di Dio. Nel momento della morte, cercate di ricordare il nome di Rama, sia che siate ricchi o poveri, istruiti o analfabeti. Cantate il nome del Signore e la vostra vita sarà redenta!

(Swami ha concluso il Suo Discorso con il canto: Hari bhajana bina sukha shanti nahi).

Brindavan. Whitefield, Sai Ramesh Hall,

23 ottobre 1994.

da: Mother Sai n° 2/95