8 Ottobre 1981
Discorso Divino di Bhagavan Sri Sathya Sai Baba
Sacrificio e resa
[1] Il rito sacrificale della durata di sette giorni in onore della Perso-na Suprema, detto vedapuruṣa yajña, officiato per promuovere la prosperità e la pace di tutti gli uomini, si conclude il giorno di vijaya daśamī con le offerte alle Divinità che presiedono ai vari aspetti della Natura. Nel corso di questa cerimonia ha luogo l’offerta conclusiva, che prende il nome di pūrṅāhuti, in cui molti oggetti di valore vengono versati nel fuoco sacrificale che è stato onorato e alimentato durante tutta la settimana. Il rito di chiusura è chiamato samāpti1, parola che di solito viene tradotta con ‘fine o compimento’, ma il suo vero significato è il con-seguimento di sama, equanimità, e della visione di Dio. Il culmine dei riti sacrificali compiuti nei giorni precedenti si raggiunge con l’offerta finale di sé stessi; infatti il significato di pūrṅāhuti è realiz-zare la propria vita terrena offrendo sé stessi alla Volontà Onnipo
tente di Dio; tale offerta è conosciuta anche come śaraṇāgati, abban-dono totale e assoluto alla Volontà di Dio senza traccia di separa-zione o di distinzione. [2] Cosa s’intende esattamente per pūrṅāhuti (offerta conclusiva) o śaraṇāgati (abbandono totale)? Il significato più comune è il seguen-te: “Offro il mio corpo, la mente, le mie proprietà, il mio tutto a Te.” Tale interpretazione non è corretta, anzi è segno di profonda igno-ranza e presuppone che voi e Dio siate due entità distinte, ma ciò è falso. Dio non è separato da voi, Egli è in tutti, ovunque, sempre. īśvaraḥ sarvabhūtānāṁ Dio risiede in tutti gli esseri. (Bhagavad Gītā 18.61)Come potete quindi essere separati da Lui? Come può Dio essere un’Entità separata? L’acqua, l’onda e la spuma appaiono distinte solo in apparenza, ma in verità sono la medesima cosa; sono i loro nomi e le loro forme a dare l’illusione della diversità. Voi potreste affermare: “Offro la mia mente, i miei pensieri e senti-menti a Dio”, ma la vostra mente, agitata come una scimmia, vi sfugge di mano e allora come farete a catturarla e ad abbandonarla a Dio? Con quale autorità potete offrire qualcosa di cui non siete padroni? A tale proposito mi viene in mente un proverbio Telugu che parla di un genero che fa un regalo, il quale però appartiene alla suocera. Come si può donare a un altro quello che non si possiede? Avete forse il pieno controllo del vostro corpo? Se la vostra mano sangui-na, voi non siete in grado di fermare l’emorragia e dovete correre immediatamente in ospedale chiedendo al medico di bendarvi. Se per caso subite un ictus e metà del vostro corpo rimane paralizzato,
siete incapaci di risanarlo; come potete quindi offrire il vostro corpo che non siete neanche in grado di governare? L’affermazione di voler offrire al Signore il corpo, la mente e il cuo-re non è altro che la retorica sancita dalla tradizione e dalla consue-tudine. [3] Spesso l’atto di resa viene magnificato definendolo ātmārpaṇa, offerta di sé; ma tale espressione è ancora più ridicola, perché se voi in essenza siete l’ātma, come può l’ātma (il Sé) offrirsi a Sé stesso? I Saggi hanno sperimentato che il corpo è composto dai cinque ele-menti e che non può evitare la dissoluzione, ma il Residente interio-re non conosce nascita né morte, desideri né disperazione, attacca-menti né legami. In verità, quel Residente è il Signore dei Signori, che dimora in voi come ātma. Ecco quello che i saggi hanno speri-mentato! Pertanto ātmārpaṇa, l’offerta di sé, è priva di senso perché non esiste nulla che possiate dichiarare vostro per offrirlo a Dio. In realtà, cosa s’intende per resa di sé? S’intende sperimentare l’Onnipresenza di Dio, essere consapevoli solo di Dio e di null’altro, scorgerlo in tutto, in ogni luogo e in ogni istante: ecco il vero ab-bandono. La vera resa è vedere Dio ovunque e sempre! È Lui che dona, che fruisce, che sperimenta. Se voi gli offrite qual-cosa e Dio accetta, vi sentite superiori, ma allora come può essere Onnipotente? Non sminuite la Sua Gloria con affermazioni altiso-nanti. [4] Potete anche essere degli studiosi capaci d’interpretare le Scrit-ture e recitare perfettamente la Gītā; queste sono buone pratiche, ma quello che veramente conta è adempiere i propri doveri con devozio-ne e disciplina. La devozione non consiste nell’esibire una veste ocra, e i peccati non vengono espiati recitando solo dei mantra;. non si ac-
cumulano meriti spirituali tenendo in mano la Gītā e recitandola ad alta voce. Il vero santo è colui che pratica ciò che predica, i cui atti sono con-formi ai consigli che dà. La devozione non tollera la minima traccia di invidia o gelosia. Rendete santa e pura la vostra vita, rendetela degna d’essere vissuta attraverso il servizio agli uomini e alla socie-tà: ecco l’aspetto più importante della resa di sé!
Praśānti Nilayam, 26.10.1981