7 Settembre 1985 – Lo yoga dell’equanimità

7 Settembre 1985

Discorso Divino di Bhagavan Sri Sathya Sai Baba

Lo yoga dell’equanimità

Dio è una parola sulla lingua di tutti,
ma cosa se ne ricava?
Finché non si coltiva la bontà sincera,
come si può avere una visione di quella parola?
[1] La Realtà che sostiene sia il cosmo sia la singola cellula è una, è
la Consapevolezza che tutto pervade, chiamata Brahman. Quando
questa infinita vastità è in relazione con il cosmo è detta paramātman
(supremo Sé); quando invece si riferisce all’essenza fondamentale
degli esseri individuali è l’ātman (il Sé interiore). Tutti e tre non sono
che un’unica Entità, ma appaiono ‘differenti’ e illudono i ‘miopi’
dalla visione ristretta: tale caratteristica è conosciuta come māyā (illusione).
La Realtà è sat (essere), cit (consapevolezza), ānanda (beatitudine).
L’apparenza o potere di diversificazione utilizza i tre guṇa (le tre
proprietà, i tre elementi costitutivi della natura) per manifestarsi in
modo diverso. Le tre qualità o guṇa sono: sattva (calma, serenità,
purezza), rajas (attività, passione) e tamas (inerzia, indolenza, ignoranza),
le quali incitano l’uomo a conoscere, a desiderare, a lavorare.
Quando il ‘desiderio di divenire’, cioè māyā, spinge il Brahman a
proiettare Sé stesso, Egli appare come Īśvara o Dio quando è associato
al sattvaguṇa, appare come jīvi (nell’uomo e negli esseri viventi)
se è associato al rajoguṇa, mentre appare come prakṛti (la manifestazione,
la natura) quando è associato al tamoguṇa.
Il Brahman è la base di tutti e tre [Īśvara, jīvi, prakṛti] proprio come la
corda fa da base al serpente, tanto che viene scambiata per quest’ultimo.
Māyā è lo specchio in cui il Brahman si riflette come Dio personale,
uomo e natura. Noi possiamo conoscere Brahman attraverso
la natura che ne è satura o identificabile con il Brahman stesso. Il
serpente [che appare sovrapposto alla corda] è il prodotto, l’immaginazione
della mente. Tutto quello che appare all’esterno è la creazione
di quello che c’è all’interno di noi. Il Brahman ha manifestato
Sé stesso come tutto questo [universo].
[2] Come può esserci un’immagine se non c’è un oggetto? Come
può un uomo essere padre senza un figlio? Dio ha creato il mondo,
e il mondo ha conferito a Dio la gloria di Creatore. Attraverso il suo
ardente desiderio, l’immaginazione e l’intenso anelito, l’uomo attribuisce
a Dio un nome e una forma, nonché una gran quantità di attributi.
Da Lui spera di trarre qualche beneficio, ma Dio è al di là
delle caratteristiche umane e delle qualità note come guṇa.
Nella Bhagavad Gītā (3.22), Kṛṣṇa disse ad Arjuna:
Non ho bisogno di svolgere alcuna attività…
Tuttavia sono impegnato nell’azione per promuovere
il benessere del mondo e dei suoi abitanti.
Pertanto il Signore può essere conosciuto attraverso le Sue opere.
Ogni capitolo della Gītā prende il nome di yoga: questo termine significa
unione, unione del Sé con la sua fonte. Come possono i di-
ciotto capitoli, ognuno dei quali è uno yoga, aiutare l’uomo a realizzare
il suo destino? La Gītā ci fornisce la risposta:
samatvaṁ yoga ucyate
L’equanimità è chiamata yoga.
(Bhagavad Gītā 2.48)
L’equanimità, l’equa disposizione mentale, il senso di equilibrio, il
non rimanere toccati né influenzati dalle varie vicissitudini della vita,
tutto ciò è yoga.
[3] Possiamo distinguere cinque stadi nel conseguimento dell’equanimità.
1. Lo stadio degli alti e bassi naturali (prākṛtika). Dobbiamo accettare
sia l’estate sia l’inverno, poiché entrambi sono essenziali per vivere.
L’alternarsi delle stagioni ci tempra e ci addolcisce. La nascita
e la morte sono eventi naturali, e non siamo in grado di scoprirne
il motivo: semplicemente accadono. Noi cerchiamo di incolpare
qualcuno o una certa circostanza per la perdita e i danni
subiti, ma il vero motivo di tutto quanto accade è da attribuire al
nostro stesso karma (azioni passate). Tuttavia, quando si viene a
conoscenza del retroscena dell’evento, l’impatto può essere mitigato
o persino annullato.
2. Lo stadio degli alti e bassi sociali. Dobbiamo accettare con mente
equanime sia l’elogio sia il biasimo, il rispetto e la derisione, il
profitto e la perdita, nonché altre risposte e reazioni da parte della
società in cui dobbiamo crescere e lottare. La fortuna è una sfida
alla nostra equanimità quanto lo è la sfortuna.
3. Lo stadio della conoscenza con i suoi alti e bassi. Finché non è
raggiunto l’apice della conoscenza, in cui si fa esperienza dell’Uno
che è divenuto quest’immensa finzione, ci sono molte tentazioni
e ostacoli che possono fuorviare il ricercatore, il quale è
incline a rinunciare completamente ad ascendere quando si sente
esausto oppure crede di aver raggiunto la vetta. La Bhagavad
Gītā al verso 5.18 afferma: “I saggi vedono in modo equanime la
stessa cosa nel brahmano sapiente e umile, nella mucca, nell’elefante,
nel cane e persino nel fuori-casta.” La Gītā definisce saggio
chi ha una visione equanime (samadarśin) e ha acquisito la consapevolezza
che lo stesso Uno risiede in tutti gli esseri. Lo jñānin
consegue samatva (equanimità) quando si convince che l’Uno è la
Verità e quando i suoi pensieri, parole e azioni sono guidati da
tale convinzione.
4. Lo stadio della devozione con i suoi alti e bassi. Anche qui ci sono
innumerevoli pregiudizi, persecuzioni e fanatismo che derivano
dal negare l’Uno, dall’ignorare l’uguaglianza e l’unicità del Dio
che tutti adorano mediante vari riti e cerimonie, modi e metodi.
C’è solo un unico Dio ed è Onnipresente.
5. Lo stadio dell’attività con i suoi alti e bassi deve essere santificato
rendendo divino lo scopo. Quando il lavoro viene trasformato e
sublimato in venerazione, la sconfitta, il disappunto e la delusione
non vi scoraggeranno e il successo non accrescerà l’orgoglio;
piuttosto indurrà in voi l’umiltà e la gratitudine per la grazia ricevuta.
Il lavoro svolto come dovere, che è un obbligo verso la
società, vi darà come ricompensa la gioia, poiché avete utilizzato
la conoscenza e l’abilità che Dio vi ha assegnato attraverso la società,
per servire la società stessa.
[4] L’equanimità mentale che può addolcire e alleviare la vita è rappresentata
al meglio da Rādhā e dalla sua devozione per Kṛṣṇa; è la
consapevolezza della confluenza del fiume nel mare, dell’unione
del sé individuale con il supremo Sé, dell’ātman con il paramātman.
Raggiungere la fonte è il destino, la meta; invece voler costantemente
correre diritti verso la fonte è devozione. Il dolore per la separa-
zione, il tormento che sorge dall’abbandono, l’ardente desiderio di
superare gli ostacoli, la gioia della contemplazione e l’estasi che deriva
dall’annullamento di sé stessi si sommano alla suprema identificazione
di Rādhā con il suo Signore, Śrī Kṛṣṇa.
Gīta Govinda, il libro dei Canti di Govinda (Kṛṣṇa), composto dal
grande poeta e mistico Jayadeva dell’Orissa, è l’esposizione immortale
della devozione di Rādhā e delle sue molteplici manifestazioni.
Jayadeva fu in grado di esprimerla con tale incanto e chiarezza che
persino chi arava la terra cantava quelle canzoni e colmava il suo
cuore di gioia divina. Il governatore del paese, Lakṣmaṇasena, era
pieno d’invidia e preparò un analogo libro di canti, ordinando che
venissero cantati al posto di quelli di Jayadeva nei templi del paese,
incluso il grande tempio di Jagannātha a Purī.
Quando il re si rese conto che il suo ordine veniva trasgredito in segno
di protesta, pose entrambi i libri ai piedi del Signore Jagannātha
e chiuse il santuario tenendolo sotto stretta sorveglianza. Al mattino
successivo, quando le porte vennero riaperte, il re vide che il Signore
aveva nelle mani la Gīta Govinda di Jayadeva, mentre il libro ‘rivale’
scritto per invidia e orgoglio era stato gettato in un angolo. Il
Signore aveva così annunciato che Egli riversava la Sua grazia sulla
purezza interiore, non sull’ostentazione esteriore.
[5] Se un individuo si radica stabilmente nell’equanimità mentale,
Kṛṣṇa si insedia nel suo cuore: la Sua voce diverrà la coscienza che
gli farà da guida a ogni passo. Dovete acquisire la forza d’animo attraverso
lo yoga, e il controllo dei sensi per mezzo di japa, la ripetizione
del nome del Signore e, grazie alla disciplina spirituale, dovete
colmare la mente di pace; tuttavia questi risultati non si vedono
né si riscontrano in voi, nonostante le varie pratiche. Molti si rinchiudono
nella sala di meditazione ed eseguono atti di venerazione
(pūjā) offrendo fiori e frutta, ma non appena escono iniziano a gri-
dare e a imprecare, così litigano con tutti e li spaventano. L’uomo
deve essere uno yogi in ogni circostanza: ‘satataṁ yogī’ afferma la
Gītā al verso 12.14. Ciò significa che lo yogi sarà perennemente in
uno stato di beatitudine. La fede in Dio può assicurare l’equanimità
e l’equilibrio; la conoscenza dovrà trasformarsi in abilità, che sarà
diretta e regolata da un senso di equilibrio, altrimenti l’abilità degenererà
causando la completa rovina.
[6] Tra coloro che sono riuniti qui, molti hanno frequentato l’università
alla ricerca di conoscenza e competenze. Essi devono sforzarsi
di conoscere l’ātman che risiede in loro, in modo che la fede nel Sé
possa concedere loro la saggezza, che è la conoscenza del Supremo.
In realtà, i ricercatori della conoscenza si interessano solo a quello
che pensano di essere, e a quello che gli altri pensano che essi siano,
ma ignorano di ricercare quello che realmente sono. Pertanto sono i
nemici di loro stessi, così sono catturati nella spirale dell’ansia, della
paura e dell’infelicità.
Costoro sono affascinati dagli insignificanti orpelli che osservano, e
credono a tutto quello che vedono, così sprecano la loro vita tra lotte,
successi e perdite. Paśu (animale) è il nome dato a tali esseri che
ripongono la loro fede in ciò che è ‘visto’ (paśyati). Molti chiedono a
gran voce ‘io voglio la pace’, ma non eliminano ‘io’ (l’ego) né ‘voglio’
(il desiderio). Dunque, come possono ottenere la pace? Così
andranno solo alla deriva!
[7] Sebbene l’educazione di per sé non possa conferirvi l’ātmānanda
(la beatitudine del Sé), dovrete acquisire un’istruzione per servire il
mondo, ma non per accumulare ogni mese un mucchio di banconote
da spendere egoisticamente in baldorie. L’insegnante non deve
ridursi a ‘vomitare’ quello che ha appreso e lo studente a consumare
quanto è stato ‘vomitato’, perché il principio dell’insegnamento e
dell’apprendimento deve essere creativo, positivo e produttivo.
In questo paese vengono spesi milioni di Rupie per le ricerche, ma
se si calcola il valore dei risultati ottenuti, ne deriva un immenso
spreco. Quelli che sono impegnati nel campo delle ricerche dovrebbero
ritornare al Paese le somme spese moltiplicate per mille, altrimenti
lo stanziamento dei fondi equivale a un tradimento contro lo
Stato.
Considerate il nobile ideale che Śrī Kṛṣṇa e Suo fratello Balarāma
hanno mostrato all’umanità. L’arma inseparabile di Balarāma era
l’aratro che non è un’arma distruttiva, ma un arnese che serve a
produrre il cibo. Kṛṣṇa si prendeva cura del bestiame, che è essenziale
per svolgere ogni lavoro agricolo, dalla preparazione del terreno
al trasporto del grano dopo il raccolto.
Il messaggio che i due divini fratelli vi trasmettono è ‘produrre’.
Mettete in pratica la vostra conoscenza e producete articoli che possano
soddisfare i bisogni essenziali, come mobilio domestico, attrezzi
agricoli, accessori per la scuola, materiali per l’edilizia, tessuti
per indumenti, ecc. Ponetevi sempre questa domanda: “In che
modo ho contribuito a rendere felice la vita del mio prossimo?”
Espandete il cuore e permettete al vostro amore di abbracciare sempre
più esseri umani: in quell’atto c’è il Divino.
[8] Questi sono gli anni in cui dovete utilizzare il tempo nel modo
più benefico. Gli insegnanti devono coltivare e arricchire la conoscenza
condividendola con i loro studenti. Dal canto loro, gli studenti
devono accogliere, fare tesoro e ampliare quella conoscenza
mettendola in pratica.
Acquisite la beatitudine per voi stessi, promuovete la prosperità del
Paese e la pace nel mondo. La madrepatria non deve dipendere da
altri per il suo benessere e progresso. Dichiarate con orgoglio e senza
timore: “Questa è la mia madrelingua, questa è la mia madrepa-
tria, io la servirò e la onorerò; preserverò e promuoverò il patrimonio
culturale e spirituale che mi è stato affidato.”
Il nome Kṛṣṇa significa: ‘Colui che attrae, coltiva il campo del cuore
ed è perennemente nella beatitudine’. Gli studenti devono tenerlo
bene a mente. Kṛṣṇa attira la gente alla Sua presenza, semina, coltiva
e raccoglie la messe dell’amore nei cuori infranti e aridi conferendo
somma gioia. Balarāma sollecita la vostra dedizione per
bhūmātā (la Madre terra), mentre Kṛṣṇa la sollecita per gomātā (il bestiame).
Entrambi hanno elevato l’agricoltura e tutto il lavoro necessario
a procurare il cibo al livello di una sacra pratica spirituale.
[9] Srinatha, poeta di corte che era sotto il diretto patrocinio del re,
veniva portato a casa in portantina dai servitori di palazzo. Un
giorno durante il tragitto, notò il figlio di Pothana, l’autore dell’immortale
poema epico in Telugu ‘Bhagavatam’, che stava arando
il suo piccolo appezzamento di terra. Srinatha lo derise chiamandolo
‘Contadino!’ Il giovane rispose dicendo: “Questo lavoro è ben più
nobile della tua professione di mendicante, in cui lusinghi e incensi
un uomo e ti nutri di quanto egli lascia cadere nel tuo palmo.”
Mantenete la vostra dignità, sviluppate la fiducia in voi stessi e annunciate
a gran voce: “Questa è la mia madrepatria, gli abitanti di
Bhārata (India) sono i miei fratelli.”
Kṛṣṇa viene venerato come Gopāla. Il termine ‘go’ sta a indicare i
jīvi (gli esseri viventi). Pertanto, quando servite il vostro prossimo e
altri esseri con amore altruistico e grande compassione, voi offrite a
Kṛṣṇa la vostra adorazione che Egli accetta con grande gioia e infinita
grazia.

Praśānti Nilayam, giorno di gokulāṣṭamī, 7.09.1985