22 Ottobre 1982
Discorso Divino di Bhagavan Sri Sathya Sai Baba
L’agnello
[1] L’unione con la Coscienza Cosmica o Brahman, di cui ognuno di noi è un’espressione, non è un conseguimento nuovo che si ottiene con molti sforzi, è solo la presa di coscienza di una Realtà esistente che avviene in un lampo. L’uomo intrinsecamente è già Dio. Per esempio, il sale che è un’espressione della natura dell’oceano ci può apparire in molteplici forme, circostanze e luoghi differenti; in ogni caso conserva sempre la sua natura salata che si può riconoscere dal sapore. Il sale, che ha origine dal mare, conferisce la qualità salata tipica del mare a qualunque articolo con cui viene a contatto, che sia latte, succo o pura e semplice acqua. Analogamente, anche se il jīva, la scintilla individualizzata della Consapevolezza, ha creato intorno a sé un bozzolo e ha assunto nome e forma, non potrà mai abbandonare la sua essenziale natura atmica. Le upaniṣad enfatizzano questo dovere che ogni essere umano ha nei confronti di sé stesso e lo mettono in guardia contro i pericoli a cui va incontro se ignora o elude tale sua responsabilità.
Come il sale appartiene all’oceano, così il Signore Kṛṣṇa nella Bha-gavad Gītā (15.7) proclama: mamai ’vā ’ṁśo jīvaloke jīvabhūtaḥ sanātanaḥ Una parte di me, eterna, è manifesta in tutte le anime viventi nel mondo dei viventi.Non c’è da stupirsi quindi che i Veda si rivolgano agli esseri viventi chiamandoli ‘Figli dell’Uno immortale’ ed ‘Eredi della beatitudine eterna.’ [2] Alcuni anni fa, un ricco proprietario terriero interpretò, durante una rappresentazione teatrale in un villaggio, la parte di un lavan-daio e si guadagnò gli applausi del pubblico. Costui parlava, gesti-colava e contrattava a gran voce, proprio come fanno i lavandai. Questa interpretazione, però, non danneggiò assolutamente la sua posizione di proprietario terriero. Allo stesso modo, il complesso corpo-mente può avere differenti nomi e forme o ruoli, ma l’ātma che è il Testimone non ne ha. I nomi e le forme hanno una validità temporanea nella vita quoti-diana, proprio come nel caso del lavandaio sul palco durante una rappresentazione teatrale. Il lavandaio deve utilizzare un modo di parlare e di comportarsi in sintonia con certe consuetudini, altri-menti la sua interpretazione risulterebbe poco credibile. In realtà, ogni attività che gli individui svolgono è una scena che fa parte del-la Commedia Divina, per tale ragione è soggetta a limitazioni e vin-coli inerenti al piano stesso e al suo proposito. Un ingegnere civile, per esempio, deve rispettare certe regole obbli-gatorie e seguire determinati criteri. La profondità delle fondamen-ta deve essere calcolata in base all’altezza dell’edificio. L’area a di-sposizione deve determinare la superficie e l’altezza della costru-
zione che verrà edificata. Anche un pittore deve valutare la simme-tria, le proporzioni, l’armonia della sua opera e altri fattori. [3] Oggi assistiamo a un rituale vedico, uno yajña officiato da alcuni paṇḍit esperti nell’invocare la grazia di Dio attraverso i mantra; essi devono preparare l’altare sacrificale attenendosi a regole stabilite migliaia di anni fa. Il fuoco sacro, che deve essere acceso e alimenta-to nel braciere adeguatamente costruito, va prodotto dallo sfrega-mento di due bastoncini di legno e tale operazione deve essere ac-compagnata dal canto di inni vedici in onore del Principio del Fuo-co che tutto pervade. Il fuoco così santificato diverrà divino e potrà fungere da messaggero fra l’uomo e Dio. L’altare è come una casset-ta postale autorizzata dall’Altissimo a ricevere le preghiere (lettere), che devono essere affrancate correttamente (con sincerità) e indirizza-te ai vari aspetti di Dio Onnipresente. [4] Il fuoco che si accende nelle case per cucinare, scaldare o illumi-nare non è sacro. Il fuoco che consuma i cadaveri è considerato un tabù. I fuochi ora menzionati hanno quindi dei limiti, ma il fuoco sacrificale è quello che possiede la maggior quantità di regole e re-strizioni per essere acceso e alimentato. Per esempio, nei riti sacrificali vedici patrocinati da coloro che li considerano sacri, viene sacrificato un agnello e il suo diaframma è offerto come oblazione; ma ogni azione deve essere esaminata alla luce della conoscenza. Il linguaggio vedico è simbolico, e un simbo-lo come il termine ‘diaframma’ si presta a un vasto raggio d’inter-pretazioni, sia allegoriche sia metaforiche. L’agnello è tenero come un neonato, è la personificazione dell’inno-cenza ed è pieno di un’incantevole voglia di giocare. Le pecore sono animali docili e mansueti, incapaci di fare del male. L’agnello è sa-cro come il più puro degli angeli. Il diaframma che separa la gabbia toracica dalla cavità addominale è solo un simbolo che rappresenta
il livello di conoscenza che separa ciò che è spirituale da ciò che è materiale, e simboleggia lo scrigno in cui il puro cuore sattvico è cu-stodito. Dio accetterà unicamente offerte simili e non di grado infe-riore. I testi sacri, dunque, con il termine ‘diaframma’ intendono dire che l’individuo deve custodire il cuore quale depositario del puro amo-re che deve essere offerto a Dio. Nei testi sacri non c’era quindi al-cuna intenzione di massacrare degli innocenti agnellini. ‘Siate come agnelli, offrite il vostro cuore innocente, pregno d’amore’: questo è il reale messaggio contenuto nei Veda. Cosa può ottenere un morta-le nell’uccidere un altro essere mortale? [5] La sezione del karma kāṇḍa, contenuta nei Veda, ha il compito di purificare la mente in modo che i riti di adorazione che l’uomo compie diano buoni frutti e che egli possa conseguire la saggezza che lo libererà dalla schiavitù. In sanscrito, questo rituale vedico è detto yajña, che significa rinunciare, astenersi. A che cosa dobbiamo rinunciare? Alla ricchezza? Quello è abbastanza facile da fare. Alla casa? Anche quello non è poi così difficile. Rinunciare significa forse abbandonare i familiari per ritirarsi nella foresta? Molti l’hanno fat-to e ne sono divenuti orgogliosi. In realtà, quello che lo yajña richie-de è la rinuncia all’ostentazione, all’orgoglio, all’invidia, alla cupi-digia, in breve all’ego stesso. Ogni rito prescritto dai Veda ha soltanto un obiettivo: promuovere l’amore universale, l’altruismo e l’abnegazione. La sola ricerca delle gratificazioni sensuali, la rabbia, l’odio e la violenza sono caratteri-stiche animali; un uomo deve vergognarsi di possederne anche solo una minima traccia. Le caratteristiche umane sono, invece, l’amore, la pazienza, la tolleranza, il distacco, la rinuncia e la verità. [6] Gesù disse: “Domandate e vi sarà dato; chiamate e vi sarà rispo-sto; bussate e vi sarà aperto.” Naturalmente voi lo fate, ma che cosa
chiedete? Voi preferite lordure, cianfrusaglie sfavillanti e insignifi-canti alla beatitudine eterna. Se quello che chiedete non vi viene da-to, non condannate la madre dicendo che è crudele. Una madre non dà al suo bambino malato i dolci che richiede; il suo amore impone quell’apparente crudeltà. Analogamente, la misericordia di Dio si manifesta quando vi nega quello che chiedete. Voi chiamate a gran voce, ma raramente vi giunge una risposta. Come mai? Perché vi rivolgete a qualcuno che non è Dio; il vostro appello non scaturisce dal cuore e il vostro anelito non è totale; le vostre motivazioni sono egoistiche e impure. Bussate alla porta e vi lamentate perché non viene aperta. Dio risiede nel cuore, ma voi l’avete serrato e così l’amore non può entrare. Ecco perché Egli è si-lenzioso e non risponde. Non serve aprire la porta per essere con-sapevoli del Dio interiore, in verità è sempre aperta all’amore e non è necessario bussare. L’amore rende automaticamente il cuore lu-minoso e colmo di luce e beatitudine. Quando l’Uno è conosciuto, non c’è altro da chiedere. L’obiettivo di questo rituale vedico è di indurvi a rinunciare ai de-sideri nella consapevolezza dell’Uno senza un secondo.
Praśānti Nilayam, 21.10.1982