21 Ottobre 1982 – Significato dei riti sacrificali

21 Ottobre 1982 

Discorso Divino di Bhagavan Sri Sathya Sai Baba

Significato dei riti sacrificali

L’uomo i cui pensieri, parole e azioni sono coerenti e in armonia sarà acclamato sulla terra e considerato un ‘Grande.’ Dedito alla Verità, otterrà la presenza di Dio. Gli impostori abbondano come i ciottoli, gli uomini veri sono rari come i diamanti.

[1] La presenza di Dio o la visione dell’Assoluto non è uno stato che debba essere conseguito, poiché Dio o l’Assoluto è la vera natura del Sé: l’individuo stesso è l’indivisibile Dio. Anche quando è coin-volto nella spirale del mondo con i suoi conflitti e scontri, il Sé inte-riore è in realtà Dio stesso; illuso dal pensiero di essere il corpo in cui dimora e catturato dalle attrattive e sfide che la natura gli pre-senta, impone a sé stesso un’identità individuale e ne soffre le limi-tazioni. Le gocce di pioggia che scendono dalle nuvole sono cristal-line e pure, ma il contatto con il suolo le rende inquinate e torbide: questo però non altera la loro reale natura. L’acqua evaporata che forma le nuvole e che scende come pioggia è limpida e pura. I fiumi di tutti i continenti sfociano nei mari; immettendosi nel mare dal
quale hanno iniziato il loro lungo viaggio, i fiumi perdono la forma, il sapore e le loro qualità distintive. Analogamente, tutti i Sé che hanno assunto una forma umana e che hanno nomi differenti, pro-vengono dalla medesima fonte e si fondono nella forma universale dalla quale si sono ‘diversificati.’ Nella Bhagavad Gītā (15.7), Śrī Kṛṣṇa afferma:

mamai ’vā ’ṁśo jīvaloke jīvabhūtaḥ sanātanaḥ Una parte di me, eterna, è manifesta in tutte le anime viventi nel mondo dei viventi.

Sebbene i vari individui possano apparire differenti, la loro realtà è l’Uno. Per questa ragione, i Veda definiscono i vari Sé individuali ‘Figli dell’immortalità.’ In tal modo rammentano a ogni essere vi-vente di essere il Divino immortale. [2] Un milionario può interpretare la parte di un miserabile in una rappresentazione teatrale, e lo può fare molto bene e in modo toc-cante, ma ciò non lo rende di certo un poveraccio. Anche quando è sul palcoscenico, egli sa di essere un milionario che sta interpretan-do la parte di un povero. Se dimenticasse la sua reale condizione sarebbe uno stolto! Il Sé individuale è il ruolo che deve essere inter-pretato, ma la Realtà è Dio! Ogni ruolo e azione deve osservare un metodo, una regola. Un in-gegnere, per esempio, lavora attenendosi a determinate norme, principi e processi. Questi ultimi sono determinati dalla natura del sottosuolo, dal tipo di fondamenta, dall’altezza della struttura, ecc. Un pittore deve calcolare la superficie, la base, il fondo prima di compiere un’opera. Se essi non applicassero determinate regole al loro lavoro, l’edificio dell’ingegnere non reggerebbe, e il quadro del pittore non sarebbe apprezzato.
[3] La stessa cosa vale per il rito sacrificale che è stato inaugurato questa mattina. Il braciere in cui le offerte vengono versate nel fuo-co sacro deve essere allestito scrupolosamente secondo le prescri-zioni dei testi antichi. Se le regole prescritte non vengono rispettate o sono ignorate, i risultati promessi non sono garantiti. Il fuoco de-ve essere acceso con il medesimo legno duro utilizzato durante la mattina; dopo averlo acceso, le fiamme devono alzarsi per poter ri-cevere le oblazioni offerte alle Divinità che sono invocate con i sacri mantra. Ci sono tre fuochi che vengono accesi nei bracieri correttamente preparati: dakṣina agni, gārhapathya agni e āhavaniya agni. Ci si po-trebbe domandare perché è necessario distinguere tre tipi di fuoco, se il fuoco è in realtà uno soltanto. Considerate il seguente esempio. Una persona accende il fuoco per cucinare il pasto, e il fuoco rende gradevole e digeribile il cibo; quello che riduce in cenere un cadave-re sulla pira è un altro tipo di fuoco. Anche se è fuoco come quello usato in usato in cucina, nessuno cucinerebbe una pietanza sul fuo-co di una pira funeraria: è considerato impuro. Un altro tipo diverso da quei due è questo fuoco rituale che è vene-rato come la Divinità principale del rito vedico, come Viṣṇu stesso, che è il supporto e il sostentamento dei tre mondi. Davanti a tale fuoco ci prostriamo con devozione, ma ci rifiutiamo di farlo davanti al fuoco della cucina o al fuoco di una pira funeraria, e tanto meno offriamo loro oblazioni o mantra. Gli atti di culto sono riservati uni-camente al fuoco sacrificale. Questo fuoco può essere paragonato a una cassetta delle poste. Se vi deponete una lettera affrancata e compilata correttamente, l’ufficio postale vi garantisce di recapitarla alla persona a cui è indirizzata. Non potrete certo ottenere il mede-simo risultato se imbucherete la vostra lettera in una cassetta iden-tica che avete appeso a una parete di casa vostra.
Lo scopo di mettersi in contatto con la Coscienza Universale nelle Sue varie manifestazioni dette dei o divinità, può essere realizzato solo se il braciere viene eretto secondo le prescrizioni, se il fuoco è invocato correttamente come previsto e se le oblazioni sono offerte recitando i giusti mantra propiziatori. [4] Il fuoco gārhapathya rappresenta il fuoco del focolare domestico acceso per cuocere, per riscaldare nei camini, per accendere delle lampade che fanno luce o degli incensi. Āhavaniya è il fuoco sacro che si tiene acceso nelle case delle caste superiori, dove con la recitazione del praṇava (oṁ) sono invocate le Divinità che proteggono la salute, l’armonia e la prosperità. Il terzo fuoco detto dakṣiṇa agni, il ‘fuoco del Sud’, è acceso per cele-brare i riti funebri. Poiché il Dio della morte, Yama, è il Dio delle re-gioni del Sud, questo fuoco è chiamato appunto dakṣiṇa. Questo è il motivo per cui si consiglia di non dormire mai con il capo rivolto a Sud, poiché è la direzione del decadimento e della disintegrazione. Di questi tre tipi di fuochi, il secondo è il più sacro e venerato. L’Yajurveda parla dello yajña o adorazione rituale del fuoco quale ‘mezzo di comunicazione’ con le Divinità. L’Yajurveda ha due sud-divisioni: Śukla (Yajurveda bianco) e Kṛṣṇa (Yajurveda nero), i quali sono rispettivamente associati ad Āditya, il sole, e a Brahmā, il Creatore. Inoltre, questo Veda contiene alcune sezioni complementari su spe-cifiche discipline, come ad esempio dhanur vidhya, la scienza del tiro con l’arco. Questa disciplina è divisa in quattro fasi: rilascio, ritra-zione, sostituzione e potenza rituale. Numerose frecce su cui veniva invocata l’energia divina di Brahmā, Agni, Viṣṇu e altre Divinità erano poi utilizzate contro i nemici. Ma queste sezioni supplemen-
tari dei Veda sono per lo più andate perse, e per tale ragione la co-noscenza di tali discipline non è più accessibile. [5] I Veda citano molti ingredienti specifici che devono essere usati come oblazione e trasmessi attraverso il fuoco quale mezzo di co-municazione con gli dei. Essi sono il latte, la cagliata, il burro chiari-ficato, i cereali, il succo detto soma1 e un altro elemento, detto vapa, che è stato interpretato erroneamente come diaframma di agnello o di un altro animale. È necessario chiarire il significato reale del ter-mine. Si dice che per il rito sacro è auspicabile utilizzare il dia-framma di un agnello giovane. La mente e il cuore di un neonato sono puri, teneri e non sono macchiati dall’orgoglio o dalla cupidi-gia. I Veda descrivono un simile cuore come: privo d’attributi (nir-guṇa), immacolato (nirañjana), tempio (niketana), eterno (sanātana), imperituro (nitya), puro (śuddha), illuminato (buddha), libero (mukta), inalterabile (niścala) e incontaminato (nirmala). Offrire il vapa, quin-di, significa offrire il proprio cuore dopo averlo reso dolce e tenero, e non gettare nelle fiamme il diaframma di un agnello macellato! I Veda ci invitano a comprendere che tutte le cose animate e inani-mate e ogni caratteristica o qualità non sono che un aspetto del-l’unico ātma, che è la sorgente e la sostanza di tutto. Aham o ego è un’apparenza che si sovrappone all’ātma, come la schiuma sulla cresta dell’onda, la quale non è altro che il mare stesso. L’ātma può stare senza ego, ma l’ego non può esistere senza l’ātma che è la sua realtà di base. Tuttavia, l’uomo dà grande importanza all’ego e gli
riconosce numerosi attributi, così esso rimane contaminato e si tra-sforma in egoismo. Quando l’ego è esente dalla condizione di ‘ismo’, è soltanto un aspetto dell’ātma; invece gli attributi, i modi, le tendenze, le tre qualità (i guṇa) lo trascinano nel groviglio delle dua-lità, tanto che diventa malefico e perde il suo ruolo benefico e posi-tivo. L’oblazione che viene offerta qui nel fuoco sacro simboleggia il male che avvolge l’ego, vale a dire gli impulsi bestiali che ancora lo animano. [6] Lo stato di ‘ismo’, nel quale l’ego si è cristallizzato, lusinga l’uomo e lo rende cieco alla verità. Adi Śaṅkara ha descritto il male che l’egoismo infligge e ha prescritto la ripetizione del nome di Dio per neutralizzarne le conseguenze. Il puro ego perderà la sua iden-tità fondendosi nell’ātma che non ha nascita né morte. Il fine princi-pale degli yajña, che implicano la rinuncia, l’invocazione di Dio e le pratiche ascetiche, è quello di ripulire tutti i livelli di coscienza (citta śuddhi). Tale conseguimento da solo non può assicurare la libera-zione che sarà raggiunta solo grazie alla consapevolezza della Real-tà, la quale indurrà l’individuo a liberarsi dell’attaccamento a ciò che è illusorio e irreale; ma questo obiettivo fondamentale raramen-te viene preso in considerazione. I riti vedici venivano celebrati per ottenere la grazia di un’esistenza terrena libera dalla sofferenza e di un felice soggiorno nei mondi celesti, ed erano considerati solo un gradino nel percorso per ottenere la liberazione dal ciclo delle nasci-te e morti e per fondersi nella verità. [7] Chi ha purificato la mente deve perseguire la ricerca della Real-tà, fino a che non saranno più presenti in lui tracce di attrazioni illu-sorie per tutto quello che è irreale. Lo yajña implica la rinuncia e si-gnifica ‘abbandonare.’ Cosa dobbiamo abbandonare? Le ricchezze? Questo è abbastanza facile. Il focolare domestico? Anche questo non è tanto difficile. Dobbiamo forse lasciare moglie, figli e casa per re-
carci nella foresta? Molti lo hanno fatto. Ma sebbene il corpo e la mente si trovino negli angoli più remoti della foresta, la moglie e i figli, i terreni e le case possono ancora occupare i pensieri e le emo-zioni di chi si è allontanato. Pertanto, quello a cui si deve rinunciare sono le tendenze malvagie, i pensieri malevoli, i sentimenti egoistici e la bramosia per i piaceri sensuali. L’individuo deve liberarsi del-l’invidia e della passione per l’ostentazione. Quando tali tendenze sono eliminate, casa e famiglia non potranno nuocere. I Veda esor-tano l’uomo ad abbandonare l’ego animale e il suo attributo com-plementare: l’ira. Tratti malvagi quali l’invidia, la ripicca e l’orgo-glio appartengono alla medesima progenie e sono tendenze anima-li, sebbene siano umane in apparenza. I Veda asseriscono che le rea-li qualità umane sono la compassione, la tolleranza, l’amore, il di-stacco e l’adesione alla verità. [8] Gesù Cristo proclamò: “Chiedi, e ti sarà dato; bussa, e ti sarà aperto.” Stiamo facendolo? Sì, chiediamo e bussiamo, ma alla porta di chi? Chi chiamiamo? Noi non chiediamo una felicità duratura, bensì solo piaceri materiali e fugaci. In tal modo non otteniamo quello che chiediamo. Come mai? Non ha forse compassione Dio? Un bimbo malato chiede alla mamma di dargli dei dolci, ma la mamma rifiuta. Significa, forse, che quella madre odia il suo bam-bino o che ha un cuore di pietra? Quel diniego in sé è un segno di compassione. Ogni individuo è un malato che soffre di una malattia ricorrente: quella della nascita e della morte. Concedere tutto quello che viene richiesto equivarrebbe solo a prolungare l’agonia. Ecco perché sorge il rifiuto e il diniego. Anche voi, del resto, non chiedete mai l’indi-spensabile, non pregate per conseguire uno stato di pace permanen-te; ma se lo farete, la grazia vi sarà concessa.

Lo so che chiamate, ma invocate Dio o qualcun altro? Dio risponde solo se la chiamata proviene dal cuore. Le vostre suppliche sono contaminate dalla cupidigia, dall’odio verso il prossimo, dal deside-rio di vendetta e sibilano d’invidia e intolleranza. So anche che bus-sate, ma a quale porta? Se tenete serrata la porta del vostro cuore, come può la vostra richiesta far aprire altre porte? Bussate alla porta del vostro stesso cuore, e Dio che vi dimora, apparirà. Prahlāda aveva fede che Dio dimorasse in tutti i cuori, ovunque. Quando ‘bussò’ a un pilastro del palazzo reale, ecco che Dio uscì da quello e si manifestò. Abbiate quindi fede che il Signore dimora in voi e volgete gli occhi all’interno. Vi lamentate che Dio è senza pietà, che è difficile da compiacere, solo perché non volete dargli ciò che in realtà dovreste né gli chiedete quello che sarebbe ben lieto di elargirvi. Cuori teneri, pensieri sacri, parole amabili: tutto ciò può invocare il divino ātma affinché si manifesti come consapevolezza. Poiché tali qualità sono il simbolo di satya, rappresentano Dio come verità o la verità delle verità. Sat significa sūrya, il sole; tya significa gloria, splendore. Lo splendore del Sole (satya) alimenta e fa maturare i cereali che sono un alimento fondamentale per l’uomo. Il cibo mantiene il vigore del corpo e sostiene il respiro vitale. Perciò satya, la verità, deve essere adorata e propiziata. L’offerta delle oblazioni nel fuoco sacrificale rappresenta simbolicamente l’adorazione di satya, la Verità Supre-ma. [9] La filosofia è interpretata come la ricerca della verità. La verità, però, non è qualcosa che si deve cercare, bensì dovete solo esserne consapevoli, sperimentarla ed essere la verità stessa. Se tutto ciò non avviene, la filosofia non è altro che un totale fallimento! Questi riti che v’incoraggiano a sublimare le vostre emozioni hanno lo scopo di condurvi verso la meta finale. La verità è totalità, è

l’Uno che integra e include i molti. I saggi dell’antichità non erano soddisfatti di scoprire una sola sfaccettatura, un aspetto della verità o di Dio, ma desideravano conoscere ‘Quello’ in cui tutte le correnti fluiscono. Come vi ha appena detto Bairagi Shastry, è a Keśava che giunge l’adorazione rivolta a tutti gli Dei.

sarva deva namaskāram keśavam pratigacchati
L’adorazione rivolta a qualsiasi Divinità raggiunge Keśava.

Una casa non può diventare un villaggio, così come un singolo in-dividuo non può diventare una società o un solo albero una foresta. Per essere consapevole della totalità, l’individuo deve colmarsi del-l’immensa vastità della foresta, e non accucciarsi sotto un solo albe-ro. Questo è lo scopo interiore che spinse molti ricercatori della ve-rità a recarsi nel cuore delle foreste dell’Himālaya. Stare lontano dal frastuono della gente era solo una scusa. Negli eremitaggi le pre-ghiere che risuonavano dei versi dello Yajurveda

‘Oh Dio, che tutti siano una sola mente, un solo cuore, che tutti procedano verso un unico obiettivo, sostenuti dalla medesima forza!’

si levavano più significative e più efficaci. L’attuale ideale socialista di unità dell’umanità è un concetto vedico che era addirittura più ampio e inclusivo. Infatti i Veda proclamavano: ‘Che tutti i mondi siano felici e prosperi. Che il mondo sia una sola famiglia.’ A causa di deduzioni errate, si credeva che i Veda fossero destinati solo a un determinato settore della popolazione, a bramini e paṇḍit, o solo a una casta e comunità. Questa è una conclusione sbagliata.

Ogni rito vedico aveva come obiettivo il benessere e la pace del mondo intero. I Veda vogliono ardentemente stabilire la prosperità nei tre mondi, ovvero regioni inferiori, terra e paradiso. È un peccato che individui miopi e poco lungimiranti abbiano imposto la loro visione ristretta a testi così profondi e vasti. I Veda non consentono né danno spazio a distinzioni fondate sulla casta o sulla religione e dichiarano: “Sal-verò chiunque mi custodirà nella memoria. Resterò accanto a chiunque mi sta vicino. A coloro che mi adorano con qualsiasi nome e forma, mi manifesterò davanti a loro con quella forma e con quel nome.” [10] Le oblazioni vengono offerte nel fuoco sacro in onore dell’Uno, ma l’Uno è invocato con molti nomi: Rudra, Āditya, Varuṇa, ecc. Poiché ogni saggio veggente prediligeva una certa forma e un certo nome divino, ne risultò che l’unico Dio acquisì nomi diversi. Molti di voi eseguono un rito di adorazione detto lakṣārcana2 (cen-tomila) che consiste nel ripetere i nomi di Dio per centomila volte o quello detto saptāha (settimana) in cui si pratica la ripetizione per sette giorni interi e sette notti. Si de pone un fiore davanti all’imma-gine divina o idolo, mentre si pronuncia il nome di Dio: Mādhava, Keśava, Nārāyaṇa, ecc. L’idolo resta sempre il medesimo, ma quan-
do lo chiamiamo ‘Mādhava’, siamo consapevoli che Egli è anche Keśava e Nārāyaṇa, e ciò ci rende felici. Ogni inno contenuto nei Veda è detto Ṛg, che vuol dire lode. La pa-rola Veda deriva dalla radice vid che significa conoscere. Cosa dob-biamo sforzarci di conoscere? L’Uno che non ha secondo. Ogni pa-rola, ogni asserzione vedica, ogni mantra o inno si riferisce all’Uno, anche se per insufficiente o errata comprensione molti ne interpre-tano male il significato e attribuiscono quelle parole ai ‘molti.’ È fondamentale che tutti comprendano il vero valore dei Veda. Poi-ché le opportunità di impararli sono in declino, le interpretazioni errate si diffondono sempre più. Nel corso di questo yajña, che du-rerà sette giorni, ci immergeremo nel significato profondo degli in-segnamenti vedici.

Discorso tenuto da Bhagavān il primo giorno delVeda puruṣa saptāha jñāna yajña,
Praśānti Nilayam, 21.10.1982