2 Ottobre 1981
Discorso Divino di Bhagavan Sri Sathya Sai Baba
Ogni momento è un sacrificio
[1] Che cosa sorprendente! Un individuo può far officiare innume-revoli riti da eruditi bramini e da esperti vedici, o può compierli egli stesso; può decantare la santità dei vari templi e dei luoghi sacri compiendo pellegrinaggi e ispirando altri a seguirlo; può conoscere e insegnare gli otto tipi di conoscenza (vidyā), ma ben pochi sanno essere padroni del corpo e dei sensi e sanno domare la mente ribelle volgendola all’interno, conquistando uno stato d’equanimità pe-renne e immutabile! La vita è assai preziosa e il respiro (prāṇa) che la sostiene lo è ancora di più, tuttavia spesso è necessario dover rinunciare al prāṇa nell’in-tento di raggiungere alcuni obiettivi. La natura umana è tale che l’uomo non si accontenta mai di una sola conquista e pensa che ci sia sempre posto più in alto, così si spinge verso mete sempre più elevate. In tal modo, ottiene molte vittorie e ne desidera sempre di più, ma non è mai contento. Essere sempre insoddisfatto è l’unica cosa che lo appaga! L’individuo intraprende varie attività proponendosi un obiettivo o una meta, ma lo sforzo può trasformarsi in un rito sacrificale
(yajña1) capace di attirare la grazia di Dio solo se la sua finalità è la glorificazione del Divino, indipendentemente da ogni altra aspetta-tiva.
yajño vai viṣṇuḥ Il rito sacrificale è Viṣṇu (Dio)
dichiarano i Veda, poiché Dio è la meta, e la ricompensa è la Sua grazia. Per propiziarlo ci si avvale della Sua creazione. Egli è Colui che officia il rito e ne è il Beneficiario. Quando l’ego di chi compie il rito sacro non reclama nulla in cambio, lo yajña diventa divino.
ahaṁ hi sarvayajñānāṁ bhoktā ca prabhur eva ca |na tu mām abhijānanti tattvenā ’taś cyavanti te || (Bhagavad Gītā 9.24)
Sono io infatti che fruisco di tutti i sacrifici e ne sono il solo Signore,ma essi non mi riconoscono per quel che sono,e per questo ricadono nel divenire.
Di tutti gli yajña, Io sono Colui che agisce, elargisce, consuma e ac-cetta [le offerte versate nel fuoco sacro]; perciò in un rito come il Veda-puruṣa yajña [rito sacrificale in onore della Persona Suprema glorificata nei Veda] che viene inaugurato oggi, il capo bramino viene chiamato brahman. Egli ha il compito di guidare gli altri officianti, ma deve avere al suo fianco la moglie, altrimenti le sue credenziali sono ina-deguate. La moglie, infatti, rappresenta la fede (śraddha) senza la quale il culto si trasforma in un’azione vuota e artificiosa, mentre il sacrificio diventa una pratica sterile. [2] In verità, il cuore è l’altare sacrificale, il corpo è il fuoco sacro, i capelli sono l’erba durvā2; le aspirazioni sono i pezzi di legno con cui si alimenta il fuoco; il desiderio è il ghī, il burro chiarificato che si versa nel braciere per far ardere il fuoco; l’ira è l’animale da sacri-ficare; il fuoco rappresenta la penitenza (tapas) che si compie. A vol-te, la parola tapas viene considerata una pratica ascetica, come lo stare su una gamba sola o sulla testa, ma tapas non vuol dire fare contorsioni fisiche: significa invece mantenere una completa coe-renza tra pensiero, parola e azione. Quando questa perfetta armonia si verifica, lo splendore spirituale si manifesta. A proposito del pensiero, della parola e dell’azione in questo conte-sto del Vedapuruṣa yajña, vi devo dire che il Ṛgveda è vāk, la parola che ha preso forma. Il Sāmaveda, invece, contiene inni che vengono cantati, e quindi è śrotra, l’ascolto, che ha preso forma. Quando il linguaggio è saturo di verità e compassione o è ispirato dal servizio al prossimo, diventa Ṛgveda. Le buone azioni sono lo Yajurveda. Non c’è alcun bisogno che abbiate un altare all’esterno come qui, la cosa più importante invece è fare attenzione alla pu-rezza delle parole che pronunciate o ascoltate e delle azioni che fate. Ricordate che tutte le vostre azioni, dal sorgere del sole finché ini-ziate a dormire, sono uno yajña, un rito sacrificale! [3] Ci sono cinque riti sacrificali obbligatori per gli esseri umani:
1.Lo studio delle Scritture (ṛṣiyajña).
2.Prendersi cura dei genitori (pitṛyajña) che vi hanno dato il corpo, allevato e guidato. Le azioni con cui esprimete la vostra gratitu-dine, l’affetto e l’apprezzamento sono veramente un sacro yajña.
3.Le azioni compiute come riverente omaggio a Dio (daivayajña), che vi ha dotato della mente, dell’intelligenza, della memoria e della coscienza, e che è presente in ogni cellula del corpo come rasa, linfa vitale: ‘raso vai sah – Egli è il flusso di Energia.’ Dio è de-finito anche aṇgirasa, ovvero l’Energia presente nei vari organi del corpo. Pertanto, daivayajña richiede l’uso corretto degli strumenti che vi sono stati donati da Dio.
4.La buona accoglienza degli ospiti (atithiyajña): tutti hanno prima o poi l’opportunità di ospitare qualcuno, di trattarlo con affetto e compiacerlo con sincera ospitalità. Può trattarsi di parenti o di estranei, ma tutti devono essere onorati come fossero inviati da Dio stesso. Le azioni compiute per intrattenerli e farli sentire a lo-ro agio assurgono allo stato di yajña, atto sacrificale.
5.Le azioni disinteressate compiute nei confronti di alberi, piante, bestie, uccelli e animali domestici come i gatti, i cani, ecc. (bhūtayajña).
[4] Le Scritture prescrivono poi alcuni altri sacrifici, e tra questi c’è lo jñāna yajña3. Di solito con il termine jñāna s’intende la conoscenza appresa dagli insegnanti o dai libri, nonché l’azione svolta in con-formità a quanto appreso, ma la conoscenza ‘acquisita’ non può de-finirsi jñāna. La conoscenza non potrà maturare in saggezza finché l’ego ambisce a ottenere dei risultati in grado di soddisfare i propri desideri. Se l’ego scompare, la conoscenza risplende e si trasforma in saggezza. Infatti jñāna vi rivelerà che, nel Vedapuruṣa yajña cele-brato qui come in altri luoghi, Dio è l’Ispiratore, il Promotore, l’Of-ficiante, il Sacrificio, il Risultato ottenuto e il Fruitore del frutto. Molti officiano un rito vedico senza essersi ben ripuliti e purificati. Solo i sacrifici che, come nel nostro caso, hanno come obiettivo la pace e la prosperità del mondo intero possono giungere a Dio, per-ché Egli è Colui che fruisce del sacrificio (yajñabhuk), Colui che cu-stodisce il rito (yajñabhṛt) e Colui che lo officia (yajñakṛt). Dio è il Tutto e quando viene considerato in tal senso, l’azione diventa un vero sacrificio. Quando un atteggiamento simile riuscirà a permeare ogni vostra attività, santificherà ogni momento della vostra vita tra-sformandola in un continuo atto di sacrificio e di adorazione. [5] Alcuni ricorrono ai maestri per ricevere dei mantra da recitare per il proprio progresso spirituale; altri ricorrono a guaritori e mo-naci per avere dei talismani (yantra) che li proteggano dalle forze maligne; altri ancora apprendono dagli studiosi delle Scritture vari riti segreti (tantra) per ottenere poteri sovrumani: ma questi sono tutti sforzi inutili. Dovreste piuttosto considerare il vostro corpo un tantra, il respiro un mantra e il vostro cuore uno yantra: non c‘è alcun bisogno di cercare al di fuori di voi stessi. Quando tutte le parole che pronunciate saranno dolci e amabili, il vostro respiro diverrà il Ṛgveda; quando imporrete precise limitazioni a quello che ascoltate e preferirete solo parole dolci e amorevoli, tutto quello che udirete diverrà un inno del Sāmaveda; quando compirete solo buone azio-ni, tutto quello che farete sarà un’offerta del Yajurveda. In tal modo, ogni giorno eseguirete il Vedapuruṣa yajña, il sacrificio in onore della Persona Suprema, che vi propizierà lo Spirito dei Veda.
Praśānti Nilayam, 2.10.1981