12 Agosto 1982 – Figli dell’immortalità

12 Agosto 1982

Discorso Divino di Bhagavan Sri Sathya Sai Baba

Figli dell’immortalità

Il Paradiso non è nell’alto dei cieli, al di là della vostra comprensione. Esso è proprio qui, nel mondo degli uomini: negate l’ego celato profondamente in voi, e sarete nel Paradiso Terrestre. Oh uomo, perché implori disperatamente milioni di Divinità per conseguire la liberazione? Nega l’ego radicato in te e sarai libero senza più supplicare.

[1] Il conseguimento dell’Assoluto non è il risultato finale di un cor-so spirituale; in verità, l’anima individuale è il Brahman, Dio stesso.

jīvo deva sanātanaḥ Il jīvi1 è la Divinità eterna.

Anche se l’uomo è coinvolto nelle attività secolari, non può annul-lare la sua Realtà sacra, e il fatto di credere di essere solo un uomo nasce dall’illusione. L’oceano può essere chiamato con nomi diffe-
renti in aree diverse, ma la sua natura rimane inalterata e immutata. Analogamente, per quanti nomi e forme l’individuo assuma, il Principio divino continua a persistere in lui e rimane l’obiettivo del-la consapevolezza. Śrī Kṛṣṇa afferma nella Bhagavad Gītā:

mamai ’vā ’ṁśo jīvaloke jīvabhūtaḥ sanātanaḥ Una parte di me, eterna, è manifesta in tutte le anime viventi nel mondo dei viventi. (BG 15.7)śṛṇvantu viśve amṛtasya putrā ā ye dhāmāni divyāni tasthuḥ Ascoltate queste parole, oh figli dell’immortalità, anche coloro che dimorano nei regni celesti! (Śvetāśvatara Upaniṣad, 2.5)

Ecco quello che la Madre dei Veda proclama a tutti i mondi! Tuttavia, poiché gli esseri umani sono limitati dal corpo e vincolati dai sensi, l’ignoranza li lega e li porta a credere d’essere solo dei comuni mortali. In verità, l’uomo è il figlio dell’immortalità. [2] L’attaccamento è la causa dell’ignoranza e deriva dal fatto che l’io si identifica con il corpo, i sensi e la mente; l’attaccamento pro-voca il desiderio; quest’ultimo genera l’ira che acceca la ragione e favorisce l’ignoranza. L’ignoranza crea la dualità ‘mio e tuo’, ‘buono e cattivo’, ecc. Questi opposti spingono ad agire per ottenere i pro-fitti ed evitare le perdite, e producono meriti e demeriti le cui con-seguenze dovranno essere ‘consumate’ in questa stessa vita o in quelle future; perciò l’uomo passerà, prima o poi, attraverso la sof-ferenza. Il dolore è causato dalla nascita, la quale comporta inevitabilmente la sofferenza. La causa del karma è credere alla dualità, la quale de-
riva dall’ignoranza, che è un prodotto dell’ira. L’ira è figlia del de-siderio e della passione, la cui madre è l’attaccamento. Persino Arjuna, il più grande arciere e guerriero della sua epoca, cadde preda sul campo di battaglia di questo insidioso, illusorio e debilitante senso dell’attaccamento. Infatti, la mente obbedisce ai sensi e corrompe l’uomo. È pressoché impossibile dominare la men-te e allontanarla dal mondo oggettivo. Arjuna confessò a Śrī Kṛṣṇa di non riuscire a controllare e a placare la mente ribelle. La mente ha due fasi: una pura e una inquinata. Quando i desideri la condi-zionano, la mente si contamina; se è priva di desideri, è pura; tutta-via, per liberarsi dalla schiavitù del desiderio, la mente è l’unico strumento disponibile. Se la volgete verso il mondo oggettivo, sarete legati; se la orientate verso Dio, sarete sulla via che porta alla liberazione. La mente si ri-fiuta di restare calma anche per una sola frazione di secondo. Se una continua cascata di sassi viene gettata nelle acque di un lago, come può la superficie dell’acqua essere calma? Allo stesso modo, l’uomo getta incessantemente i sassi dei suoi desideri nel placido lago della mente. Tutti i ricercatori spirituali, dunque, devono evitare che i ‘sassi dei desideri’ disturbino l’equanimità mentale. Come una mosca si posa sull’offerta di cibo consacrato e un istante dopo su un mucchio di sudiciume, così la mente si rifugia in pensieri sacri e un momento dopo gode nel formulare pensieri spaventosi e meschini. La mente è come l’elefante: il guardiano gli fa un bel bagno, lo strofina e lo ri-pulisce per bene e poi lo lega a un albero ombroso; ma l’animale raccoglie con la proboscide tutta la polvere e la sporcizia che ha at-torno e se la butta addosso! Così anche l’uomo, spinto dai sensi, ri-versa nella sua mente polvere e sudiciume.

[3] Il compito della mente è controllare i sensi, mentre il ruolo dei sensi è servire la mente. La relazione corretta che deve intercorrere è che i servi devono obbedire al padrone, mentre questi deve gover-nare i servi. Quando il padrone cade nelle mani dei suoi servitori, va incontro a ogni sorta di sconfitte e sofferenze. Nel Rāmāyaṇa sono illustrate molto bene le conseguenze di tale pe-ricolo. La regina Kaikeyī aveva come serva una donna di nome Manthara, ma poiché la regina era subordinata alla serva si verificò una serie di terribili tragedie. Kaikeyī proveniva da un’illustre dina-stia reale, era la consorte preferita di un famoso imperatore (Daśara-tha, padre di Rāma) e diede alla luce un figlio, Bharata, noto per la sua ubbidienza e rettitudine. Kaikeyī amava moltissimo anche Rāma, figlio della prima regina, e lo considerava il suo vero respiro vitale; tuttavia, nonostante le sue virtù, cultura e autorità, prestò ascolto alla sua serva e attirò su di sé infamia eterna. Persino il suo amato figlio la disprezzò; ancor oggi i loro nomi, Kaikeyī e Manthara, sono detestati. La lezione che vuole insegnare questo episodio contenuto nel Rāmāyaṇa è che non bisogna permettere ai sensi, che sono solo dei servitori, di dominarci. Al contrario, se permettiamo che ciò accada subiremo lo stesso destino di Kaikeyī. Ovunque vi troviate e per quanto ricchi, eruditi o potenti possiate essere, se consigliate a qual-cuno di fare del male, attirerete su di voi lo stesso fato di Manthara. Poiché gli uomini cedono alle lusinghe dei sensi, diventano come Kaikeyī, perdono la loro natura divina e il ruolo di padrone. [4] In molti casi si raccolgono le acque di un fiume in bacini idrici, ma prima di farlo bisogna accertarsi che i canali di chiusa siano ben serrati, altrimenti l’acqua defluirà e non potrà essere raccolta. Ana-logamente, l’intelletto deve incanalare la forza interiore del Sé (ātma śakti) nel serbatoio della mente. Tale forza potrà essere utilizzata a
nostro vantaggio e per promuovere la prosperità e la pace nel mon-do solo quando serreremo le cinque chiuse dei sensi. Nello Yoga Sūtra, il saggio Patañjali2 definisce tale operazione di chiusura citta vṛtti nirodhah, controllo delle agitazioni della mente. La mente ha un ruolo specifico e deve permettere all’uomo di con-seguire i quattro obiettivi della vita o puruṣārtha: dharma o rettitudi-ne, artha o ricchezza, kāma o desiderio, mokṣa o liberazione. I quattro obiettivi della vita umana devono essere in relazione fra loro nel se-guente modo: acquisire artha (prosperità) per mezzo del dharma (ret-titudine) e sviluppare kāma (desiderio) per ottenere mokṣa (libera-zione).La mente non è stata designata per promuovere la cupidigia, l’odio, l’orgoglio e il senso del possesso. Dovete credere a questa verità! Come il vento raduna nel cielo molte nuvole e con la medesima ce-lerità le disperde, così la mente può creare condizioni di schiavitù o di liberazione. Pertanto, gradualmente allentate i legami dell’attac-camento al vostro corpo fisico e ai sensi; questi ultimi vi derubano sia della forza fisica sia della forza mentale. Quando discende in forma umana come avatār, Dio si muove e vive come un comune mortale, ma c’è una sostanziale differenza interio-re. L’avatār, il Dio incarnato, è imperturbato, non coinvolto, total-mente distaccato e indifferente a qualsiasi risultato (upekṣā). L’uomo comune invece è molto attaccato ai risultati delle sue azioni (apekṣā). Il principio egoico del possesso, il senso di «mio» (mamatva) appar-tiene alla sfera umana. Il principio di Brahman (brahmatva) è divino.

Ma non riuscirete a percepire tale distinzione, pur osservando e ascoltando con grande attenzione: solo l’esperienza vi permetterà di comprendere. L’avatār non ha alcun bisogno né desiderio, è privo d’egoismo ed è sempre immerso nel Principio Divino.

Osservate un nastro di registrazione, di per sé è vuoto, silente, sempre lo stesso! Ma se lo attivate con una cassa armonica, ecco che emetterà suoni e parole con scioltezza.

L’avatār appare come un essere umano comune, dotato di corpo, sensi e mente, ecc. Tuttavia, considerate l’enorme differenza dei Suoi pensieri, sentimenti ed emozioni. L’avatār è la totalità, la pie-nezza (pūrṇa), è onnicomprensivo. L’umano è parziale, limitato, ne-gativo, ma nell’uomo il Divino esiste come suo nucleo centrale, co-me essenza, e può manifestarsi come beatitudine.

[5] Si attribuisce molta importanza ai simboli esteriori della cono-scenza, ma non si fa alcunché per trasformare gli istinti e gli impulsi profondi ereditati dagli antenati animali.

Mettete una ghirlanda di fiori di gelsomino al collo di una scimmia, vestitela con scintillanti abiti di seta e fatela sedere su un trono incastonato di gemme preziose. Può forse abbandonare i suoi modi e trucchi da scimmia?

Un tempo era una scimmia, ora è un essere umano, ma essendo passato attraverso molteplici esistenze come uomo, la disonestà e la crudeltà hanno messo in lui profonde radici, tanto che non possono essere eliminate così facilmente, anzi è un’impresa davvero ardua. Per questa ragione Dio s’incarna in forma umana e dona all’uomo il potere di discernere fra il bene e il male, fra la verità e la menzogna. L’avatār fa tutto ciò attraverso l’insegnamento e l’esempio.

Le Scritture insegnano che la vita purtroppo è molto breve, perciò la Bhagavad Gītā esorta l’uomo a riflettere su tre fatti: la nascita uma-na è un’opportunità preziosa; avere il desiderio di realizzare Dio è un’altra immensa fortuna; ma la fortuna più straordinaria che possa capitare è avere l’occasione di essere alla Presenza di Dio, di essere dediti a servire Dio e impegnati ad adempiere i Suoi ordini. [6] La principessa Satyabhāmā, a causa del suo orgoglio, pensò che il Signore Kṛṣṇa potesse diventare suo se avesse offerto gemme e gioielli; così depose tutti i suoi preziosi su un piatto della bilancia su cui Kṛṣṇa doveva essere pesato, ma il tentativo risultò inutile. Rukmiṇī, invece, aveva annullato sé stessa e si era immersa total-mente nel Principio di Kṛṣṇa. Così, non appena pose sul piatto della bilancia una semplice foglia di tulsi (basilico) accompagnata da una preghiera, ecco che immediatamente il piatto opposto su cui c’era Kṛṣṇa si sollevò e il Signore poté essere pesato. Solo la devozione pura e la rinuncia totale possono aiutarvi a conseguire la consape-volezza della vostra Divinità. [7] All’epoca di Rāmānuja, fondatore e massimo esponente della scuola filosofica viśiṣṭādvaita3, un uomo di nome Kuresa era il capo di un villaggio ed era un fervente discepolo del Maestro Rāmānuja. Egli rinunciò a tutte le sue ricchezze, alla casa e alle proprietà e si recò con la moglie a un tempio sacro presso le sponde del fiume Kāverī. Per raggiungere il luogo sacro dovevano attraversare una fitta giungla, e la notte li sorprese mentre erano ancora in cammino. La moglie, colta da paura, domandò con voce flebile al marito se in quella giungla ci fossero dei predoni. Il marito rispose che non c’era motivo di temere poiché non avevano con sé alcun valore. La donna confessò a Kuresa che aveva portato una coppa d’oro per potergli
offrire da bere. L’uomo non approvò la sua azione, quindi prese la coppa e la gettò fra i cespugli, poi ripresero il loro cammino in pace. Giunti a Śrīraṅgam4, trovarono alloggio nei pressi del tempio. Kure-sa era esausto poiché non mangiava da tre giorni. La moglie udì le campane del tempio che annunciavano l’offerta del cibo al Signore Raṅganātha5 e iniziò a supplicare Dio in questi termini: “Signore, il tuo servo sta morendo di fame, come puoi godere dell’offerta di ci-bo vedendo la sua sofferenza?” Pochi minuti dopo, una lunga pro-cessione di bramini e paṇḍit, guidata da una banda musicale, giunse al luogo dove risiedeva la coppia e portò loro, su piatti d’argento, vari tipi di vivande prelibate. Il Signore aveva ordinato ai preti bramini di offrire il cibo consacrato ai Suoi devoti che alloggiavano vicino al tempio. A quel punto, Kuresa esclamò: “Non ho pregato per ricevere del ci-bo. Il Signore dovrebbe concedermi quello di cui necessito e per cui prego, e non darmi quello che non ho richiesto. Come può questo Sé o ātma chiedere al paramātma, al Sé Supremo, cibo per saziare lo stomaco?” I preti del tempio insistettero affinché lui accettasse il ci-bo consacrato, così Kuresa ne assaggiò un po’ e ne diede un po’ an-che alla moglie. Poi le domandò: “Hai forse commesso l’errore di
pregare per avere del cibo?” La donna rispose: “Kuresa, non ho fatto una richiesta del genere, ho solamente pensato come poteva il Signore accettare quelle offerte mentre il Suo servo stava morendo di fame.” [8] Colui che dona quello che gli viene chiesto, quando gli viene fat-ta una richiesta, è Prabhu. Colui che elargisce quello che il devoto necessita, anche senza alcuna richiesta, è Vibhu. Prabhu significa Signore, mentre Vibhu è il Sovrano del cosmo. Noi non dobbiamo ricorrere al Re dell’universo per ottenere quello che pensiamo di avere bisogno. Ecco perché un poeta compose i seguenti versi:

Astieniti dal domandare, oh mente! Più chiedi, più sprofondi, e più la risposta tarderà a giungere. Non ha forse esaudito, senza che lei lo chiedesse, il desiderio straziante di Sabarī? Non ha forse benedetto l’aquila Jatāyu che morì per Lui, senza aver chiesto nulla?

Infatti, Kuresa aveva educato la sua mente in tal modo e aveva con-seguito la pace. Ogni avatār cerca di portare l’umanità al livello del Divino, indicando percorsi di fervida devozione e incoraggiando l’abbandono totale. Se un uomo ha questa fede: ‘Io non conosco nulla all’infuori di Te, Tu sei il solo e unico,’ perché permettere ai desideri di insinuarsi nella mente? Perché chiedere questo o quello? Abbiate fede in Dio, il Dispensatore di tutto, il solo Tesoro di cui avete bisogno, ed Egli vi colmerà di gioia!

Praśānti Nilayam, 12.08.1982