9 Luglio 1979 – Il Maestro di Verità

9 Luglio 1979

Discorso Divino di Bhagavan Sri Sathya Sai Baba

Il Maestro di Verità

[1] Il macrocosmo e il microcosmo, brahmāṇḍa1 e piṇḍāṇḍa2, ovvero
l’Universale e l’individuale, emergono dalla sola e unica Verità. Essi
sono manifestazioni della Verità, sulla quale però non possono esercitare
alcun influsso; tale Verità è conosciuta come Brahman. Quando
l’immutabile, immanente e trascendente Brahman decide di ‘essere’
invece di ‘divenire’, viene indicato come Dio o Īśvara3. Il Fondamento
Divino di tutto è l’Assoluto, detto paramātma, che è anche
il fondamento, la base, l’essenza, la realtà dell’uomo. Ma nonostante
il ‘divenire’, che è solo un’illusione che sovrappone la molteplicità
all’unico Essere, il paramātma rimane Uno. Finché l’aspirante spirituale
non pratica la ricerca o l’indagine interiore, riconoscerà soltanto
la molteplicità, la quale non è reale né irreale; è relativamente
reale, temporaneamente reale, è mithyā4 non satya (vera), è un misto
di verità e falsità; la molteplicità è apparentemente reale ma fondamentalmente
irreale, reale ai fini pratici, ma irreale se la sua natura
di fondo viene dipanata e chiarita. Mithyā è un misto di satya e
asatya, di vero e di falso.
[2] Le nubi sembrano attaccate al cielo; allo stesso modo anche
māyā5, l’illusione, ci fornisce un’immagine falsa del Brahman e ci
induce a credere che il mondo sia reale. Il suo impatto altera il nostro
processo di ragionamento, le nostre impressioni sensoriali e le
nostre opinioni su Dio, sulla creazione e sull’uomo. L’illusione distende
davanti a noi una tale diversità che ci lusinga e inganna. La
Verità Fondamentale, su cui la divina illusione proietta il suo caleidoscopio,
è definita dai saggi veggenti sat-cit-ānanda6, Essere-Consapevolezza-
Beatitudine. Ciò non significa che il Brahman abbia tre
attributi, cioè che Egli esista al di là del tempo e dello spazio, che
conosca e possa essere conosciuto, che sia l’origine e l’apice della
beatitudine. Le Sue tre caratteristiche non sono distinte ma indicano
l’Uno, e possono essere comprese solo con l’esperienza e non con le
parole, perché le parole possono solo indietreggiare e ritirarsi davanti
al Divino. Non possiamo asserire che il Brahman appartenga a
una certa categoria o possa essere descritto dalle tre qualità fondamentali;
non può essere definito l’Esecutore di un’attività specifica,
poiché è sempre immobile; non è descrivibile attraverso le relazioni
con altre entità perché è l’Uno senza secondo.
[3] Māyā è soltanto la Volontà Divina che ha dato il via alla manifestazione
del cosmo:
ekoham bahusyām – Sono l’Uno, che Io divenga i molti.
Māyā, l’illusione, è inerente a ogni essere e a ogni sua azione; ha tre
aspetti che si manifestano mediante le tre qualità o guṇa7 della Volontà
Divina: sattvico, rajasico e tamasico.
Se māyā ci spinge verso l’attributo sattvico della Volontà Divina, noi
diventiamo ricercatori di jñāna, saggezza spirituale, che ci rivela
l’unità. Se siamo dominati dalla qualità rajasica di quella Volontà,
veniamo indotti a inseguire il successo mondano, la ricchezza e la
notorietà effimera; infine la natura tamasica di quella Volontà cerca i
mezzi più rapidi e più veloci per avere una vita comoda e felice.
Questi sono i riflessi, nella nostra mente, degli attributi fondamentali
della Volontà che il Brahman assume, quando è spinto dal ‘desiderio
originario’ di manifestare Sé stesso. Gli aspetti di quella Volontà
Divina sono detti: jñāna śakti8, icchā śakti9, kriyā śakti10.
I tre attributi influenzano gli esseri e le cose in misura diversa; in tal
modo ha luogo la grande varietà e diversità del mondo oggettivo.
L’ātma (sia individuale sia universale) è soltanto Uno. Il jīvātma, il Sé
individuale, e il paramātma, il Sé Supremo, sono uno e indivisibili.
I filosofi di tutti i Paesi e di tutte le epoche hanno cercato di scoprire
la verità su Dio, sul mondo oggettivo e sull’uomo, nonché la loro
reciproca relazione.
Māyā è la Volontà Divina che dà origine a tutti e tre; è uno specchio
nitido, limpido e senza difetti. Quando la natura sattvica si riflette in
quello specchio, si vede Dio; quando la natura rajasica si riflette, ne
deriva il jīva, il Sé individuale, che è ansioso di crescere, afferrare,
sopravvivere e di sentirsi sicuro. Quando invece si riflette la natura
tamasica, ne risulta la materia (il mondo oggettivo).
Questi tre aspetti sono il paramātma stesso, ma ottengono la loro
realtà come Suoi riflessi; essendo dei riflessi, essi acquisiscono forme
diverse, varie combinazioni e caratteristiche. In tal modo l’Uno
diventa i molti, e ciascuno dei molti è reale solo perché in lui vi è
l’Uno. Anche māyā è una componente dell’Uno e per mettere in risalto
questa Sua parte, l’Uno trasforma Sè stesso nei molti.
[4] Māyā, l’illusione, è come uno specchio che riflette tutto quello
che ha davanti. Se lo specchio è convesso o concavo, se è ricoperto
di polvere, renderà confusa e indistinta l’immagine riflessa, ma non
potrà alterare o deformare l’Oggetto stesso.
Īśvara, prakṛti e il jīva (il Signore, il mondo oggettivo e il Sé individuale),
tutti e tre sono immagini del paramātma riflesse nello specchio
di māyā e alterate dai tre guṇa o qualità che offuscano e macchiano
la superficie dello specchio. È lo specchio che ritrae l’Uno
come i molti, ma in realtà l’Uno è sempre Uno.
L’Uno comprende tutto, quindi non ha attività, bisogni, né desideri
di realizzare qualche cosa. Kṛṣṇa dice ad Arjuna: “Non c’è nulla nei
tre mondi che Io debba compiere!” (Bhagavad Gītā 3.22)
Egli ha voluto il mondo per Suo piacere e ha stabilito che ogni azione
dovesse avere la propria conseguenza; è Colui che distribuisce i
risultati e le conseguenze, ma non è coinvolto nelle azioni.
[5] È quindi ovvio che né un Dio personale, né il Sé individuale e
neppure il mondo oggettivo riusciranno mai a scoprire l’inizio di
māyā, dalla quale hanno avuto origine e che ha dato il via al susseguirsi
di ‘azione-conseguenza-azione.’
Malgrado ciò, è possibile sapere quando māyā terminerà! Quando il
mondo oggettivo sarà ignorato, messo in disparte, negato o si scoprirà
che esso è immanente, insito nel Divino, allora l’essere individuale
non ci sarà più. Se il jīva non c’è, anche Īśvara, il Dio personale,
è superfluo e scompare. E se Īśvara svanisce, solo il Brahman È.
Se non c’è il neonato, come può esserci una madre? Quest’ultima è
una parola priva di significato!
Se un Dio personale, una personalità separata chiamata jīva e la sua
creazione mentale, detta manifestazione o mondo oggettivo, non
esistono nella coscienza matura di un uomo, māyā che è la madre di
tutti e tre non può continuare a sussistere.
Quando lo spazio è racchiuso in un vaso, sembra limitato e piccolo,
ma una volta liberato da quel contenitore, si unisce di nuovo al cielo
infinito. Il cielo non viene ridotto né cambia forma e qualità se è tenuto
in un contenitore.
Allo stesso modo, l’ātma Uno e unico che pervade i corpi e le vite di
miliardi di esseri non subisce l’influsso dei ‘contenitori’ (esseri viventi),
a cui rimane unito per qualche tempo.
Molti sono preoccupati e si chiedono che cosa abbia dato origine al
cosmo e in che modo abbia cominciato a esistere; così avanzano diverse
teorie e ipotesi contrastanti.
Il cosmo è effimero e mutevole come un sogno, ed è difficile scoprire
le leggi che governano i suoi misteri insondabili. Invece d’investigare
sui suoi misteri è più proficuo cercare come trarne beneficio.
È una perdita di tempo indagare sulle origini del cosmo o pensare
in che modo terminerà. Voi fate parte della creazione, quindi cercate
di comprendere voi stessi e tenete bene a mente il vostro obiettivo.
[6] L’individuo è costituito da qualità emotive, passionali e dinamiche.
La qualità inferiore è tamasica, quella superiore è sattvica. Īśvara
è il riflesso sattvico del Brahman, perciò l’uomo deve elevarsi sino a
raggiungere il livello sattvico, ed essere sempre attento a non scivolare
giù nel regno inferiore, ovvero quello tamasico della materia e
del conseguimento secolare. Il guru deve trasmettere questo ideale
al discepolo e guidarlo affinché lo raggiunga, incoraggiandolo a essere
sempre consapevole del Dio interiore.
Il termine ādhyātmika, spirituale, viene spesso usato dagli aspiranti e
dai precettori. Ma che cosa implica esattamente? I bhajan, la ripetizione
del Nome, la meditazione, i rituali o i pellegrinaggi sono forse
ādhyātmika? No, queste sono solo azioni benefiche. Nel vero senso
della parola, ādhyātmika si riferisce a due progressi graduali o almeno
ai sinceri tentativi per raggiungerli: l’eliminazione dei tratti animali
che sono ancora insiti nell’uomo, e l’unione con il Divino.
Analizzate fino a che punto l’uomo sia riuscito a superare l’eredità
animale della lussuria, dell’avidità e dell’odio, spendendo tempo,
denaro ed energia a eseguire i cosiddetti esercizi spirituali. Che
progressi ha fatto ascoltando gli eruditi oratori dei sacri Testi? È diventato
forse meno bestiale? Ecco l’indagine o la valutazione che
l’uomo deve fare, ma sfortunatamente ignora ancora tutto questo!
La disciplina spirituale finora adottata promuove solo l’orgoglio e
l’esibizione, l’invidia e l’egocentrismo. Molti procedono verso la
Casa di Dio nella veste di pellegrini, ma lo pregano per avere più
soldi, più fama e più potere, perché i loro pensieri, parole e azioni
sono centrati soltanto su questi simboli transitori e futili del successo
materiale. Il mondo e tutti i suoi simbolismi esteriori di prestigio
e potere manifestano solo il tamas guṇa, e non riusciranno mai a elevare
l’uomo al livello sattvico.
[7] Il guru deve esortare il sé individuale a realizzare il Sé universale.
In questo giorno di guru pūrṇimā11 dobbiamo onorare, con il cuore
colmo di gratitudine, quei Maestri di grado superiore che hanno
realizzato la liberazione per il bene di molti.
Ci sono tuttavia tanti altri tipi di guru; c’è il guru che vi concede un
mantra, una formula sacra, vi spiega le sue potenzialità e vi ordina
di ripeterlo con sincerità e costanza. Questo è il dīkṣā guru che dà
l’iniziazione a un mantra, e pensa che il suo dovere sia finito qui.
Egli non insegna al discepolo a controllare i sensi e neppure lo guida
verso tale vittoria.
Per l’allievo, il mantra è una formula da ripetere come un pappagallo,
e probabilmente non si rende neppure conto del dono prezioso
che ha ricevuto; in ogni caso, senza una disciplina che promuova la
trasformazione personale, quel dono non ha alcun valore.
Il secondo tipo di guru raccomanda di adorare una forma di Dio o
l’altra. Altri maestri danno lezioni orientate a cambiare la vostra coscienza,
e questi sono i guru-precettori. Ma tutti ignorano l’Uno e
sviano l’attenzione, l’adorazione e la devozione verso i molti, che
sono solo relativamente reali; questi guru non prescrivono le discipline
con cui ottenere la purezza e la trasparenza, perché hanno
paura di trovarsi in contrasto con gli impulsi animali dei loro allievi.
Così i loro insegnamenti riempiono la testa, ma non fanno vibrare
il cuore.
[8] I vari guru asseriscono che Dio, la natura e l’uomo sono distinti,
mentre in realtà dipendono dal gioco di māyā sul Brahman. Essi
s’interessano al secondario e non al primario, alla diversità e non
all’unità, al futile e non al vero. Il primario è il Brahman che, quando
si riflette su māyā, sembra essere frammentato in Dio, natura e
uomo; infatti, questi tre sono soltanto immagini irreali dell’Uno, e
anche māyā è un aspetto del Brahman.
Kṛṣṇa dichiara nella Bhagavad Gītā: “La Mia māyā.” Perciò quando
ci uniamo al Brahman o otteniamo la grazia del Signore, la Sua
māyā non può esistere per noi.
È possibile liberarsi di māyā anche eliminando i tre guṇa dalla propria
indole, però anche il sattva guṇa deve essere trasceso. Perché?
La Gītā dichiara che anche l’ardente desiderio di essere liberati è un
legame. L’individuo è fondamentalmente libero: la schiavitù è solo
un’illusione, perciò il desiderio di sciogliere quel legame è frutto
dell’ignoranza.
Kṛṣṇa esorta: “Arjuna, liberati dei tre guṇa!” In verità, la parola guṇa
significa corda, perché i tre guṇa vincolano il jīva legandolo con la
fune del desiderio. Liberazione significa liberarsi da ogni attaccamento
e illusione ingannevole (moha). Infatti moha kṣaya12 vuol dire
l’estinzione del desiderio causato dall’attaccamento ai piaceri sensoriali.
[9] Gli Yādava erano attaccati a Kṛṣṇa a causa di un senso di appartenenza
terrena e pensavano che fosse loro parente, ma simile convinzione
non li salvò dalla completa distruzione. Le gopī invece
pensavano di essere Sue, e non che Kṛṣṇa fosse loro, perciò beneficiarono
della Sua grazia. Quando le idee di ‘io e mio’ scompaiono,
l’unico pensiero che rimane è ‘Tu e Tuo’ e ‘solo Tu’ viene visto
ovunque; in tal modo l’uomo ottiene la visione dell’unità.
Oggi migliaia di persone si sono radunate qui perché è la festa di
guru pūrṇimā, la luna piena del guru. Il Maestro veramente degno di
rispetto deve facilitare la visione dell’unità, evitando i contrasti e le
divisioni che ‘mio e tuo’ producono nella mente.
Il saggio Vyāsa13 era un guru degno di essere onorato. La festività
odierna viene chiamata anche Vyāsa pūrṇimā perché oggi l’umanità
gli offre la gratitudine e la stima che è doveroso tributargli.
vyāso nārāyaṇo hariḥ
Vyāsa è Nārāyaṇa, è Hari [Viṣṇu].
Nārāyaṇa, il Signore stesso, è venuto come un uomo di nome Vyāsa
per raccogliere e riorganizzare i Veda e per indicare la via verso Dio,
così ha reso il sentiero pianeggiante e facile da percorrere.
Ma la tragedia è che l’uomo ha frainteso o smarrito la via, ed è rimasto
attaccato alle sue convinzioni antiquate circa l’efficacia delle
cerimonie e dei rituali, temporanei e secolari, che indeboliscono la
sua mente a causa della paura e dell’orgoglio.
Il vero guru starà alla larga da queste cose che indeboliscono, e trasmetterà
al discepolo la consapevolezza dell’ātma che rinvigorisce.
Solo così potrà essere riverito come vero Maestro.
Quando arriva la chiamata chiara, proveniente dalle più elevate regioni
sattviche, perché il guru deve rimanere sordo a quella chiamata
e si umilia cadendo nelle regioni di tamas e rajas? Perché deve accontentarsi
di tenere i suoi allievi ai livelli inferiori? Tuttavia, tra le
guide e i ricercatori in campo spirituale c’è la tendenza a evitare le
vette e a vagare giù nelle valli.
Considerate per un istante quanto durano i successi nel mondo; essi
sono solo l’effetto dello scintillio di nome e forma sul Divino, il quale
è il nucleo, l’essenza e la base di ogni essere e di ogni cosa. Acquisite,
invece, la visione che vede il Divino immanente, insito in tutto.
[10] Noi non siamo turbati se qualcosa è buono, ma solo se è cattivo,
perché la bontà è una dote naturale, mentre il male è un’aberrazione.
Siamo preoccupati e allarmati se qualcuno cade nell’errore, se è
sofferente o addolorato. Questo perché la natura ci predispone a essere
corretti, felici e sempre gioiosi. È un peccato che l’uomo abbia
perso la capacità di comprendere tale verità.
Incarnazioni del Divino Sé!
In verità, l’uomo è il Sé racchiuso in una guaina; è il depositario dell’infinito
ātma, sempre pieno, Uno, indivisibile. Nel migliore dei casi,
l’uomo rimane uomo, soddisfatto del rajo guṇa che prevale in lui.
Molti invece sono contenti del loro rapporto con il mondo oggettivo,
tamasico; il loro ideale è accumulare soltanto ricchezza e soddisfare
i bisogni materiali.
Esaminate voi stessi e, analizzando i vostri desideri e attività, scoprirete
a quale livello vi trovate: in tal modo potrete sublimare i vostri
pensieri e impulsi.
Una volta corretti e riformati, i vostri impulsi dovranno esercitare
un influsso benefico sulle vostre attività, poiché è attraverso le
azioni che i guṇa vengono abbandonati o acquisiti. Agire determina
la nascita e la morte, riempie gli anni della vostra vita, sostiene il
bene e il male, la gioia e il dolore.
Tuttavia, l’uomo è deliberatamente inconsapevole delle attività che
possono alleggerire il peso della sua vita e illuminare il Sé. È l’ātma
che illumina tutto, ma l’individuo è all’oscuro dell’esistenza del Sé.
Proprio come i dolci sono tali grazie allo zucchero che contengono,
così tutte le cose e gli oggetti sono percepiti grazie all’ātma che ne
permette la percezione. Il Sé è il Testimone Universale. Allo stesso
modo il sole attiva tutto, ma esso non viene mai attivato. Anche voi
dovete mettervi nella posizione di testimone.
[11] I saggi hanno stabilito i metodi con cui l’uomo può raggiungere
lo stato di Testimone, dei quali la meditazione è la disciplina più
importante. Dhyāna è il penultimo di otto14 gradini e concede la
saggezza di essere imperturbabili, cioè non toccati dalle circostanze;
mentre l’ultimo gradino è il samādhi15.
Il sesto gradino è dhāraṇā, concentrazione, in cui vengono intraprese
diverse pratiche, tra cui i riti di adorazione e la ripetizione del Nome
divino, in modo da favorire la concentrazione che è indispensabile
per la meditazione.
Dhyāna non significa stare seduti eretti e in silenzio, perfettamente
immobili, vuol dire fondere tutti i pensieri e i sentimenti in Dio. Se
la mente non si dissolve in Dio, la meditazione non può avere successo.
La Bhagavad Gītā descrive la vera meditazione come segue:
ananyāś cintayanto māṁ
ye janāḥ paryupāsate |
teṣāṁ nityābhiyuktānāṁ
yogakṣemaṁ vahāmy aham ||
Coloro che, sempre concentrati,
meditano su di Me senza altro pensiero,
del loro benessere Io mi faccio carico ora e sempre. (BG 9.22)
Kṛṣṇa assicura questi devoti che Egli stesso si farà carico dei loro
problemi e oneri e rimarrà al loro fianco per guidarli e proteggerli.
Persone esperte in questa meditazione sono molto rare, la maggior
parte pratica soltanto esecizi esteriori, perciò è incapace di acquisire
la grazia divina. Per lo più, la meditazione viene interrotta da
preoccupazioni e ansie per i propri parenti e amici e per le proprie
ricchezze.
[12] Poiché tutti sono manifestazioni di māyā, che è la componente
costitutiva del Brahman o paramātma, il Sé Supremo in cui prendete
rifugio vi libererà certamente da ogni paura, perché ognuno di voi
non è altro che l’ātma. Ecco il motivo per cui ho iniziato il Mio discorso
chiamandovi divyātma svarūpa, Incarnazioni del divino Sé.
Anche i vostri corpi, la vostra personalità, individualità, mente, intelletto,
sono espressioni del divino Sé che è il ‘Promotore Originario’
della vostra vita.
Tale insegnamento è stato divulgato sin dall’antichità dai saggi di
questo Paese, i quali rendendosi conto dell’importanza di simile vi-
sione hanno incoraggiato la ricerca, la meditazione e la pratica spirituale.
[13] Il saggio Vyāsa provò comprensione per l’uomo intrappolato
nelle spire del successo e del fallimento, del desiderio e dello sconforto,
e tracciò molti sentieri per condurlo al coronamento, che consiste
nello sradicare i tratti animali che si celano in lui e raggiungere
il Divino che è la sua vera essenza.
Molti si recano faticosamente ai sacri luoghi di pellegrinaggio in
cerca di pace e prosperità, ma hanno scartato almeno alcune delle
loro tendenze animali? Questo va verificato per giustificare il tempo
e il denaro speso e le difficoltà del viaggio.
Quando i tratti animali sono soppressi, e voi sentite che la Divinità
è vicina, potrete affermare che i santuari e i luoghi sacri sono in voi,
così non avrete bisogno di spostarvi da un tempio all’altro. Se invece
non ottenete tale vittoria, non avete alcun diritto di dichiarare
che siete un devoto di Rāma o Kṛṣṇa o di un’altra Incarnazione del
Signore.
Questo è il vero progresso spirituale! Vi benedico tutti affinché possiate
raggiungere tale obiettivo!

Guru pūrṇimā, Praśānti Nilayam, 9.07.1979