9 Giugno 1978
Discorso Divino di Bhagavan Sri Sathya Sai Baba
Devozione colma di dolcezza
[1] Sulla sponda del fiume Yamunā regnava la calma, l’incanto,
l’ispirazione, un fremito emozionante. La fresca brezza portava all’orecchio
la dolce melodia della musica divina del flauto di Kṛṣṇa.
Con una giara appoggiata sul fianco, Rādhā discese dall’alta duna
per arrivare alla riva del fiume. A metà strada si fermò un istante
perché aveva sentito il suo nome fluttuare nell’aria, proveniente dal
luogo in cui si trovava Kṛṣṇa: ‘Rādhā, Rādhā’. Con gli occhi spalancati
si guardò attorno, scrutò tutti i quattro lati, ma non c’era proprio
nessuno, neanche una casa. Kṛṣṇa era sempre così!
Rādhā perse i sensi e cadde svenuta, tenendo sempre la giara fra le
braccia. Poi improvvisamente si destò alla Realtà: “Non c’è luogo
dove Tu non sia”, disse fra sé, e rivolgendosi a Kṛṣṇa aggiunse: “La
chiamata è arrivata sicuramente da Te, nessun altro avrebbe potuto
essere così tenero e dolce, così sincero e convincente. Ma permettimi
di chiedere solo un favore. Tu ci fai recitare le nostre parti, e noi le
interpretiamo al meglio delle nostre capacità; ci induci a ridere e a
piangere, e ne proviamo piacere con Tua grande soddisfazione. Ma
ora ne ho abbastanza! Per favore, ti supplico, fammi ritornare da
dove provengo. Mi sono sobbarcata desideri e delusioni, collere e
aspettative, ansie e aspirazioni; mi sono nutrita di esperienze eccitanti,
suoni melodiosi, tocchi lievi, sapori deliziosi, visioni ammalianti
e profumi inebrianti; alle caviglie ho portato i sonagli dell’illusione,
ho affrontato sia il plauso sia il dileggio del mondo, ho cantato
con l’accompagnamento della delusione che batteva il tempo. I
guṇa1, la qualità tamasica e rajasica, m’incoraggiavano a danzare facendo
vibrare la loro melodia come sottofondo; ora le mie stanche
membra collassano, sono stremata e nauseata di simili vicende:
questa commedia deve terminare al più presto! Ti prego, accogli la
mia supplica!”
[2] Ma Kṛṣṇa non acconsentì e s’avvicinò sempre più! Il Signore è
uno specchio nitido e limpido in cui il cuore puro si riflette chiaro.
Rādhā era la Sua immagine, la personificazione della Sua estasi.
Rādhā era il potere di Kṛṣṇa che delizia e rallegra (āhlādin śakti),
perciò i due erano inseparabili, indivisibili. Ecco perché Kṛṣṇa aveva
chiamato ‘Rādhā, Rādhā’, quando lei aveva fatto la sua comparsa
sulla riva del fiume Yamunā.
Rādhā continuò: “Questa è l’opportunità migliore per deporre la
gemma della mia devozione ai Tuoi piedi. Purtroppo, è ancora
grezza e opaca. Per molto tempo sono stata indotta in errore e credevo
che il mondo fosse solo dolce, invece è anche amaro. Ne ho
avuto abbastanza. Come sai, sono prakṛti dhārā, il flusso incessante
del divenire, chiamata Rādhā, perciò sono gravata e vincolata dai tre
guṇa. Poiché prakṛti è femminile, anch’io per forza lo sono”.
Essendo prakṛti femminile, anche Rādhā che la rappresenta è una
donna (strī). La parola sanscrita strī è composta da tre consonanti sa,
ta, ra, che rappresentano i tre guṇa nello stesso ordine: sa indica il
sattva guṇa (puro e buono); ta sta per il tamo guṇa (ottuso e ignorante)
e ra indica il rajo guṇa (passionale e aggressivo).
Nelle donne prevale il sattva guṇa, e per loro natura sono servizievoli,
affettuose, compassionevoli, umili e fiduciose. In buona parte
hanno anche il tamo guṇa, perciò sono esitanti, timide, schive, poco
intraprendenti, ma è un bene che le donne siano così. Dalla natura
sono state dotate anche di una piccola parte di rajo guṇa, che le rende
audaci e aggressive, avventurose e desiderose di essere libere da
vincoli e limitazioni. Ovviamente, possono esserci delle eccezioni in
cui il rajo guṇa prevale e il tamo guṇa resta nel sottofondo. Ma il
giorno in cui il rajo guṇa verrà accolto come il simbolo della donna,
quel giorno segnerà la fine della femminilità.
[3] L’uomo ha solo una famiglia, ma la donna ne ha due da salvaguardare
da una cattiva reputazione: la famiglia in cui è nata e cresciuta,
e quella dove si è sposata. Se infrange le regole e corre a briglia
sciolta verso la libertà, diventa pericolosa per il buon nome delle
due famiglie, quella dei suoi genitori e quella dei suoi suoceri.
La cultura indiana e le tradizioni spirituali hanno sempre accordato
una posizione molto elevata alle donne, poiché da loro dipende la
forza dell’intera struttura sociale. La donna è una compagna e una
guida per il marito e la prima insegnante dei figli, è un esempio per
le loro attitudini sociali, un modello per il loro linguaggio, e la tutrice
della loro salute e della loro felicità mentale. È chiamata ardhangini
(metà corpo) del marito. Ci sono numerosi templi in cui Dio
viene adorato come ardhanārīśvara (il Signore dalla forma metà
femminile e metà maschile), la metà di destra è maschile e la metà
di sinistra è femminile. L’onore e la gloria di una nazione è custodita
e retta dalle mani della donna.
[4] Quando viene celebrato un rito religioso per propiziare la Divinità,
la moglie deve essere a fianco del marito, altrimenti il rito è
inefficace: tale è l’elevata posizione riservata alla donna sposata nelle
sacre Scritture indiane; infatti, nessuna donazione caritatevole ha
validità senza il consenso della moglie.
Ovviamente, la donna non è autorizzata a compiere i riti da sola
perciò è detta abala, senza forza o potere, ma in questo caso significa
‘senza il potere spirituale di eseguire i riti’. Sfortunatamente, l’uso
di questa parola è così diffuso che le donne stesse credono di essere
fondamentalmente deboli e inabili in tutti i campi. Questo è un grave
errore: le donne non sono deboli, solo l’autorizzazione a compiere
i rituali è loro negata.
Quando Rāma decise di compiere l’aśvamedha yāga2, essendo Sītā in
esilio nella foresta, si obiettò che Rāma non fosse autorizzato a
compiere tale rito senza la Sua sposa. Alcuni saggi pensarono quindi
di porre una statua d’oro di Sītā a fianco di Rāma, l’officiante
principale, prima dell’inizio del rituale e così avvenne. Pertanto il
termine abala non significa mancanza di forza fisica o mentale. In
realtà, la moglie può rendere la casa del marito un tempio, una
scuola, una sala del consiglio o un eremitaggio.
[5] Rādhā visse la vita di una donna ideale secondo i modelli stabiliti
dal sanātana dharma, La Divina Legge Universale, e tutto il tempo
mantenne i suoi pensieri fissi sul Signore con devozione pura e
ininterrotta, così si assicurò la beatitudine di fondersi in Lui. Questo
è il tipo di devozione che nelle scritture è detta madhura bhakti, devozione
dolce e soave.
Ci sono sei correnti devozionali che fluiscono verso il Signore e che
rappresentano sei diverse attitudini spirituali: śānta, calma e quiete;
sakhya, amicizia; dāsya, servizio; vātsalya, premura e tenerezza;
anurāga, attaccamento e affetto; madhura, dolcezza.
Madhura bhakti, la devozione colma di dolcezza, è la più elevata
poiché conferisce la beatitudine più grande.
Il latte viene cagliato e sbattuto, così si produce il burro che viene
chiarificato e trasformato in ghī, burro anidro. Il ghī è il termine della
lavorazione, è lo stadio finale. Allo stesso modo, madhura bhakti è
l’ultimo stadio dell’esperienza di fondersi nel Signore. Il viaggio
termina e i piedi si fermano quando il traguardo è raggiunto.
Quando l’esperienza della dolcezza è conseguita, non c’è altro luogo
in cui andare, nient’altro da fare. La totalità del Divino, la Sua
pienezza (pūrṇa), il Suo puro amore (prema) sono sperimentati grazie
a madhura bhakti, la devozione colma di dolcezza.
Śānta bhakti, devozione serena – L’aspirante pratica l’equanimità e
considera tutto quello che gli succede un dono della grazia di Dio;
perciò non rimane colpito né influenzato dal successo o dal fallimento,
ed è sempre grato per qualsiasi cosa Dio gli conceda.
Sakhya bhakti, devozione amichevole – L’aspirante considera Dio il
suo consigliere fedele, il confidente, il compagno e l’amico; sente la
costante presenza del Signore ed è sempre consapevole di Lui.
Dāsya bhakti, devozione servizievole – L’aspirante sente di essere il
servitore, lo strumento del Signore e trae piacere dal ruolo che Dio
gli ha assegnato sul palcoscenico della vita.
Vātsalya bhakti, devozione e amore genitoriale – L’aspirante ama il
Signore come la madre ama il suo bambino, con tenerezza, ansietà,
compassione e continua vigilanza.
Anurāga bhakti, devozione e profondo affetto – L’aspirante è intensamente
attaccato alla forma del Signore e a tutte le manifestazioni
del Divino, ed è molto contento quando ha l’opportunità di servirlo.
[6] Poiché la caratteristica essenziale dell’uomo è l’amore, egli deve
espanderlo in modo da amare il Signore pienamente, amando la
Sua creazione come il Signore stesso. In tal caso l’albero della vita
produce il dolce frutto di madhura bhakti, la devozione intima, amorevole
e tenera.
Il frutto avrà la buccia amara di «io e mio» che deve essere eliminata.
Alcuni desideri e attributi egoistici possono persistere come ‘semi’
e anch’essi devono essere soppressi prima di offrire al Signore la
dolce polpa dell’amore.
Quando Rādhā disse che indossava la veste del desiderio e dell’ira,
intendeva dire che non ne era minimamente toccata. Quando disse
che portava i cinque elementi come una ghirlanda attorno al collo,
poiché questi erano a contatto con i suoi cinque sensi (vista, odorato,
gusto, tatto e udito), voleva dire che non era contaminata da
quel contatto.
Naturalmente, il Signore sapeva che Rādhā era completamente dedita
al Divino, che la sua devozione era madhura bhakti, che il suo
amore era senza macchia, quindi concesse a Rādhā il coronamento
finale della devozione.
Bṛndāvan, Corso Estivo, 9.06.1978