6 Marzo 1977 – Il servizio è adorazione

6 Marzo 1977

Discorso Divino di Bhagavan Sri Sathya Sai Baba

Il servizio è adorazione

[1] L’Organizzazione di Servizio sevādal ha delle responsabilità di
alto grado: deve guidare i membri e, attraverso di loro, tutta l’umanità
sul sentiero dell’impegno spirituale che conduce l’individuo
dalla posizione di ‘io’ a quella di ‘noi’. Questo conferisce al sevādal
l’importanza che merita, e voi potrete rendervene conto solo entrando
nel merito del suo significato. Dovete elevare tutte le vostre
azioni al livello di atti d’adorazione e applicare tale attitudine a
ogni momento della vostra vita; solo così potrete giustificare l’appartenenza
all’Organizzazione.
L’uomo ottiene la purezza della coscienza attraverso l’azione, quindi
deve accogliere di buon grado il lavoro tenendo conto di tale
obiettivo. Perché dovete sforzarvi di avere una coscienza pura?
Immaginate un pozzo pieno di acqua fangosa e inquinata, tanto che
non ne potete vedere il fondo. Così, nel cuore dell’uomo, giù in
fondo alla sua coscienza c’è l’ātma che può essere percepita solo se
la coscienza è limpida e purificata. Le vostre immaginazioni, le deduzioni,
i giudizi, i pregiudizi, le passioni, le emozioni e i desideri
egoistici infangano la coscienza e la rendono torbida, non trasparen-
te. Come potete allora acquisire la consapevolezza dell’ātma che è
proprio alla base? Attraverso il servizio, reso senza alcun desiderio
di soddisfare il proprio ego e pensando solo al benessere del prossimo,
è possibile ripulire la coscienza e permettere all’ātma di rivelarsi.
Dunque, nell’interesse di chi svolgete il servizio? Solo nel vostro interesse!
Vi impegnate nel servizio per essere consapevoli dell’ātma
in voi, per rifiutare le lusinghe del vostro ego, per conoscere voi
stessi e trovare le risposte alla domanda che vi assilla: ‘Chi sono io?’
Voi non servite gli altri, bensì voi stessi; non servite il mondo, ma
fate solo il vostro interesse!
[2] Potreste domandare: ‘Com’è possibile trascendere l’ego tramite
il servizio?’ Colmando il lavoro d’amore, potrete trasformarlo in
adorazione; se il lavoro è offerto a Dio, viene santificato e diventa
un ‘rito’ di venerazione, e questo lo libera dall’ego, dal desiderio di
ottenere il successo e dalla paura di conseguire l’insuccesso. Vi accorgete
che quando avete svolto il lavoro al meglio delle vostre possibilità,
il ‘rito’ si è compiuto; sta poi a Colui che lo ha accettato conferirvi
ciò che ritiene più opportuno. Tale attitudine libererà l’azione
da ogni desiderio e attaccamento, e la pratica regolare di questa disciplina
renderà pura e limpida la coscienza. Senza tale ‘equipaggiamento’,
come può l’uomo sperare di scalare le vette spirituali?
Quasi tutti i grandi saggi del passato hanno trascorso i primi anni
della loro vita impegnati in una disciplina che conferisse loro una
coscienza pura (cittaśuddhi). Qualsiasi prospettiva di carriera possiate
avere, per quanti beni riusciate ad accumulare per condurre una
vita comoda, per quanto prestigiosa sia la posizione raggiunta grazie
alla vostra intelligenza, tutti quei risultati non varranno nulla se
ogni vostra attività non sarà pregna della purezza divina della vostra
coscienza.
[3] Vi illustro quanto detto con un esempio: pensate a una busta per
lettere su cui, in bella calligrafia e con un inchiostro d’oro, avete
scritto l’indirizzo di una persona. Poi nella busta inserite una bellissima
lettera colma di buoni sentimenti e la infilate nella buca delle
lettere. Cosa accadrà di quella lettera, bella ma senza francobollo?
Non si sposterà neanche di un metro da quella cassetta postale.
Ora prendete una banale cartolina; scrivete un indirizzo senza particolare
attenzione e le poche informazioni che v’interessa trasmettere,
incollate un francobollo e la depositate nella stessa cassetta postale.
Guardate cosa succede! La busta artisticamente adorna se ne
sta ferma dov’è, mentre quella banale ed economica cartolina viaggia
per mille miglia e giunge al destinatario. Dunque, indipendentemente
dall’importanza o dalla particolarità, il servizio che svolgete
potrà dare frutto solo se è svolto con la coscienza pura.
In ogni caso, il vostro desiderio di svolgere servizio e il vostro entusiasmo
vi salveranno dal pericolo. Dio è il testimone, esente dal desiderio
di benedire e libero dall’ira di punire. Voi sarete benedetti o
puniti in conseguenza dei vostri sentimenti e delle vostre azioni.
Come pensate e vi comportate, così diverrete.
Cattive azioni non portano mai buoni frutti.
Buone azioni non generano mai il male.
I semi del neem1 non daranno mai origine a frutti di mango.
Dai semi di mango non nasceranno piante di neem.
Pertanto, una persona può essere esperta in molti settori e avere
raggiunto ottimi risultati ma, senza la pulizia interiore, la sua mente
è come una landa deserta o come un masso di pietra senza traccia
d’amore, di compassione o bontà.
[4] Dei nove gradini della disciplina spirituale descritti nei bhakti2
sūtra (aforismi sulla devozione) che conducono alla realizzazione
del Sé, dāsyam (servire con dedizione) è l’ottavo ed è assai vicino al
traguardo finale. Lo studio delle Scritture, la rinuncia alle ricchezze
per distribuirle come carità, la recitazione del nome divino o il canto
di salmi e inni possono essere dei buoni esercizi per santificare la
mente ed evitare di scivolare in condotte scorrette e in passatempi
nocivi, ma raramente purificano la coscienza. Essi servono piuttosto
a gonfiare l’ego, a istigare l’orgoglio e a stimolare la voglia di primeggiare.
Potete essere seduti nella sala dei bhajan e cantare in coro
a voce spiegata, mentre la mente è preoccupata per quel paio di
sandali che avete lasciato fuori della sala; quindi sullo sfondo della
mente avrete sempre la paura di perdere i sandali: così i bhajan ne
restano contaminati e si riducono a una sterile esibizione.
La disciplina del servizio è invece ben diversa: nel servizio impegnate
tutta l’energia e l’attenzione nell’incarico che avete assunto
perché è un lavoro di dedizione; così dimenticate il corpo e ignorate
le sue pretese, mettete da parte la vostra individualità con il suo
prestigio e le sue prerogative, sradicate l’ego e lo accantonate, igno-
rate il ceto, la vanità, il vostro nome e il vostro aspetto, e mantenete
pura la coscienza. Qualsiasi lavoro stiate svolgendo, rinunciate alla
vostra individualità personale e condividete i suoi problemi e fatiche,
i suoi frutti e vantaggi con Dio. Non avete bisogno di far entrare
Dio in voi da un luogo esterno: Egli è sempre in voi, in ogni momento;
questa verità dovrà essere la vostra scoperta, il vostro tesoro,
la vostra forza: ecco il grande proposito del servizio , ed è il motivo
per cui al sevādal viene assegnata una posizione così importante
nell’Organizzazione Sathya Sai.
[5] Un uomo molto pio stava andando da Kāśi a Rāmeśvaram3, all’estremità
di questo vasto Paese, recando con sé dell’acqua del sacro
Gange con il voto di versarla nel mare a Rāmeśvaram; quello
sarebbe stato il compimento del lungo e arduo pellegrinaggio attraverso
molti luoghi santi e fiumi sacri. A metà del percorso, gli accadde
di vedere vicino alla strada un asino agonizzante e assetato
che era incapace di cercare una sorgente d’acqua a cui dissetarsi. La
sua lingua secca e il roteare degli occhi dimostravano la sua sofferenza
per la gran sete. Il pellegrino fu così commosso da quella vista
che versò la preziosa acqua del Gange nella gola dell’animale
sofferente e, poco dopo, l’asino fu in grado di ritrovare la forza per
sottrarsi alle grinfie della morte.
Vedendo la scena, un compagno del pellegrino lo rimproverò:
“Maestro! La sacra acqua del Gange che avevi preso a Kāśi doveva
essere offerta all’oceano a Rāmeśvaram. Come mai hai commesso il
sacrilegio di versarla in bocca a questo spregevole animale?” Il pellegrino
rispose: “Ma io ho versato l’acqua santa proprio nell’oceano
stesso, non vedi?”
Ogni servizio reso a un’anima sofferente raggiunge il Signore stesso,
e non può mai costituire un sacrilegio poiché il servizio all’uomo
è servizio al Divino. Siatene sempre certi!
[6] Milioni di persone vanno a Kāśi in pellegrinaggio. Si dice che chi
vede Kāśi non avrà rinascita. Un giorno, sul Kailāś, Pārvatī domandò
a Śiva: “Signore, ho sentito che tutti coloro che visitano Kāśi, dove
si trova il famoso santuario dedicato al Tuo culto, raggiungeranno
il Kailāś e là rimarranno alla Tua presenza. A Kāśi vanno milioni
di persone, ma c’è posto a sufficienza per ospitarli tutti qui?” Śiva
rispose: “Non tutta quella moltitudine può venire al Kailāś. Metterò
in scena una commedia così ti sarà chiaro chi, tra tutta quella folla,
può venire qui. Anche tu hai una parte da recitare; fa come ti dico.”
Pārvatī assunse le sembianze di una vecchia ottantenne e Śiva quelle
di un novantenne infermo. Proprio davanti all’ingresso principale
del famoso tempio di Viśveśvara4, la vecchia stava seduta reggendo
in grembo il marito e implorava pietosamente i pellegrini che passavano
per recarsi nel tempio: “Mio marito sta morendo di sete, e io
non posso lasciarlo per andare a prendere l’acqua del Gange. Potete
dargli un po’ d’acqua e salvargli la vita?” I pellegrini arrivavano su
dai ghat5 dopo le abluzioni nel fiume sacro con le vesti ancora bagnate
avvolte sul corpo. Alcuni si lamentarono che la vista di quella
patetica coppia turbava la loro pace. “Siamo venuti qui per il darśan
del Signore, e guarda cosa ci tocca vedere!” Alcuni ignorarono totalmente
i gemiti della donna arricciando il naso. Qualcun altro disse:
“Abbi pazienza. Dopo l’adorazione nel tempio ti porteremo l’acqua
del Gange.” Ma nessuno si offrì di dare l’aiuto indispensabile al
vecchio morente.
Un ladro che stava entrando nel tempio per mettere le mani su
qualche portafogli udì la voce lamentosa della vecchia, si fermò e le
chiese: “Madre, cosa succede?” La donna rispose: “Figliolo, siamo
venuti fin qui per avere il darśan del Signore Viśveśvara di Kāśi, ma
mio marito è svenuto per lo sfinimento. Potrebbe salvarsi se qualcuno
gli portasse un po’ d’acqua del Gange e gliela versasse in bocca.
Io non posso lasciarlo per andare a prenderla. Per favore, aiutami
e ne avrai merito!”
Il ladro si mosse a compassione; aveva un po’ d’acqua del Gange
nella zucca vuota che portava con sé, quindi s’inginocchiò accanto
al moribondo, ma la donna lo fermò dicendo: “Nel momento in cui
l’acqua del Gange bagnerà la sua gola, mio marito potrebbe morire:
è giunto al termine della sua vita. Perciò pronuncia una parola di
verità e versa l’acqua.” Il ladro non comprese cosa intendesse, per
cui la donna aggiunse: “Sussurragli all’orecchio qualche cosa di
buono che hai fatto nella tua vita, poi versagli l’acqua in bocca.” Il
ladro si trovò di fronte a un bel dilemma: non sapeva come cavarsela
perché non riusciva a soddisfare quella richiesta. “Madre, ti assicuro,
finora non ho mai fatto nulla di buono. Questo gesto di offrire
l’acqua a un assetato è veramente la prima buona azione che abbia
fatto.” Così dicendo, accostò la zucca alle labbra del vecchio per
fargli bere un sorso.
In quel preciso momento la coppia scomparve e al loro posto apparvero
Śiva e Pārvatī nell’atto di benedire il ladro. Śiva disse: “Figliolo,
la vita va dedicata al servizio degli altri e non al proprio
esclusivo interesse. Per quante cattive azioni tu possa aver commesso
finora, ti benediciamo e ti concediamo questa visione per aver
offerto altruisticamente l’acqua del Gange con la verità sulla lingua.
Ricorda che non c’è moralità superiore alla verità, né preghiera più
utile del servizio altruistico e amorevole.”
[7] Secondo le Scritture, la via reale verso la realizzazione spirituale
contempla tre stadi: karma-jijñāsa, dharma-jijñāsa e brahma-jijñāsa. Jijñāsa
significa ricerca profonda. Una persona diventa idonea a fare
ricerche sul Brahman, e avrà successo in quella ricerca, solo se la
sua coscienza è addestrata a indagare sulle modalità dell’azione
(karma) e della condotta (dharma) che la raffinano e la purificano.
Chi esercita la discriminazione prima di agire sarà naturalmente
retto nella condotta e nel comportamento. Un buon karma porterà
automaticamente a un buon dharma.
Prendete come esempio la salsa piccante di cocco fatta in casa: solo
dopo averla approntata l’assaggerete per sentire se avete messo
troppo sale o no. Se vi accorgete che il sale è insufficiente o manca
del tutto, dovete aggiungerne la quantità esatta per rendere la salsa
saporita; non aggiungerete il sale prima di avere assaggiato la salsa.
Quindi i tre stadi sono: macinare e preparare la salsa, mangiarla,
dosare il sale. La preparazione è il karma, mangiare è il dharma e
insaporire è il Brahman. Agite, dedicate e adorate: ecco il modo per
acquisire una coscienza pura.
Un’azione dedicata come offerta al Divino residente in tutti diventa
sacra come il più nobile servizio. Dedicatevi quindi a tale servizio!
Gli avatār, le divine Incarnazioni di Dio, si impegnano a rendere
servizio: per questo discendono. Pertanto, quando offrite il vostro
servizio all’umanità, l’avatār ne sarà naturalmente compiaciuto e
voi potrete ottenere la Sua grazia. Essendo membri del Sathya Sai
Sevādal, questa è per voi una grande opportunità e spero che ne
facciate il miglior uso. Vi benedico affinché abbiate successo!

Bṛndāvan, 06.03.1977