6 Febbraio 1979
Discorso Divino di Bhagavan Sri Sathya Sai Baba
Purificare tutti i livelli di coscienza
[1] C’è un solo Dio ed è onnipresente. È vero, ma per concentrarsi
sull’Onnipresente bisogna avere qualche riferimento e una forma
preliminare. Per concepire il Divino presente ovunque e in ogni
momento, la mente deve essere ripulita e purificata per mezzo di
determinate trasformazioni psicologiche, dette pratiche spirituali.
Questo è il motivo per cui, non solo fra i seguaci dell’induismo ma
anche fra i cristiani e i buddisti, sono prescritti riti regolari per la
venerazione delle immagini di Dio. I cinici, che mettono in dubbio
la validità di tale pratiche perché rafforzano solo la superstizione,
dicono: “Dio può essere una pietra o un semplice pezzo di carta?”
Un atteggiamento del genere è sbagliato! Eseguendo i riti di adorazione,
molti aspiranti hanno conseguito la visione dell’Onnipresente
e sono in uno stato di beatitudine ineffabile.
[2] La pūjā, l’adorazione rituale a ore stabilite con canti e la recitazione
di inni, è il primo passo del pellegrinaggio spirituale. Senza
dubbio, molti ricercatori hanno acquisito la consapevolezza di Dio
con anni di ascetismo trascorsi nelle grotte della foresta, ma se si
inizia presto con la pūjā e si continua con scrupolosa attenzione,
l’offerta di fiori accompagnata dalla ripetizione del Nome del Si-
gnore, il canto devozionale e l’adorazione di Dio come Presenza vivente,
sono molto più proficui e soddisfacenti.
Molti santi e anime realizzate hanno dimostrato con la loro vita che
il tempo, la concentrazione e l’energia spesi nella pratica di queste
discipline sono ben spesi; attraverso l’adorazione di Dio come Presenza
vivente (ārādhanā), essi hanno potuto avere la visione del Divino
nella forma da loro scelta per la contemplazione. Tutta la letteratura
inglese deriva dalla combinazione delle 26 lettere dell’alfabeto.
Allo stesso modo, pūjā (rituale d’adorazione), japa (ripetizione
dei Nomi divini), arcana (offerta di fiori recitando i Nomi di Dio) e
ārādhanā (adorazione della Presenza divina) sono le lettere dell’alfabeto
spirituale.
L’utilizzo dei vari articoli necessari per eseguire il rituale d’adorazione
(lampade, candele, canfora, fiori, piatti, coppe, una campanella
e il testo sacro) richiede una concentrazione di ore sul Divino. La
pūjā stessa richiede un’ora o due di attenzione purificatoria; in tal
modo, chi esegue il rito si trova a essere un pellegrino più forte e
più sicuro nel percorrere la via spirituale.
[3] L’Onnipresente non è assente dall’icona o dall’immagine. Tuttavia
non limitiamo Dio e non confiniamolo in un idolo di pietra, realizziamo
invece che Egli è anche nell’icona. Così eleviamo l’immagine
al livello dell’Assoluto, espandiamo l’immagine molto al di là
della sua cornice e, grazie alla disciplina spirituale, prendiamo coscienza
che anche l’immagine può diventare un mezzo per sfuggire
alle limitazioni della mente.
Un giorno, il mahārāja di Alwar (dello stato indiano del Rajasthan)
discuteva con Svāmī Vivekānanda che Dio non può essere percepito
in un quadro dipinto da un pittore. Allora Vivekānanda invitò il
primo ministro, che era presente al dialogo in rispettoso silenzio, a
tirare giù dalla parete il ritratto del mahārāja e a sputarci sopra. Poi
aggiunse: “Non esitare, il mahārāja dice che quel ritratto è solo una
chiazza di colori sulla tela e non può essere preso per Sua Maestà!”
Le sedici forme di adorazione indicate nei sacri testi di spiritualità
rendono l’aspirante consapevole di essere alla Presenza divina, in
modo che ogni suo gesto o atto sia motivato dalla devozione e dalla
dedizione. Tutto ciò conferirà la purificazione della mente, liberandola
da ogni traccia di ego e da tutti i difetti che ne derivano; questo
è detto citta1 śuddhi, ovvero purificare tutti i livelli di coscienza. La
coscienza interiore deve essere liberata da tutti gli impulsi bassi e
vili. A che serve cucinare una vivanda prelibata e costosa in una
pentola sporca? A che serve piantare un seme raro e prezioso in un
terreno roccioso? Il rito di adorazione offerto senza un cuore puro è
una semplice perdita di tempo. Invece, anche una breve ma sincera
sessione di preghiere, offerte con la consapevolezza del Divino, assicura
molti frutti.
Un santo Tamil aveva confessato che si era molto impegnato ad
adorare un idolo del Signore al fine di purificare la mente. Il ricercatore
deve concentrarsi profondamente sul pensiero che Dio può essere
trovato in ogni particella dell’universo, libero da tutte le limitazioni
di spazio e tempo. Uno sforzo incessante è necessario per raggiungere
citta śuddhi, la purificazione della propria coscienza.
L’aspirante deve quindi impegnarsi nel satsaṅg2, e svolgere attività
dedite al servizio di Dio in tutte le forme umane.
[4] Nella Bhagavad Gītā, Kṛṣṇa si rivolge ad Arjuna chiamandolo
‘kurunandana.’ Il significato abituale attribuito dagli studiosi a tale
appellativo è ‘l’erede della dinastia Kuru’, sebbene abbia un insegnamento
molto più profondo da trasmettere all’umanità. In sanscrito,
il termine kuru significa ‘fare’ e nandana significa ‘chi è contento.’
Rivolgendosi ad Arjuna con l’appellativo kurunandana, Kṛṣṇa
intendeva apprezzare la sua trasformazione dall’inazione all’azione,
poiché Arjuna era sempre contento di essere attivo. Per la maggior
parte di voi la domenica è un giorno festivo, un giorno in cui
andate a divertirvi, ma per Arjuna ogni giorno che poteva dedicare
al lavoro di Dio era invero un ‘giorno santo.’ In India molti credono
che quando in cielo il tuono è minaccioso, la simultanea recitazione
dei nove nomi di Arjuna evita che un fulmine si abbatta sulle loro
teste. Questo dimostra che non solo i Nomi di Dio ma anche quelli
dei Suoi devoti, sempre puri e sempre in contatto con l’Assoluto,
esercitano un enorme potere sugli elementi. Ecco perché l’atto di
adorazione (ārādhanā) viene offerto persino a grandi devoti come
Tyāgarāja3 e Kabīr4; infatti entrambi non hanno alcuna identità propria
perché sono diventati Uno con l’Infinito attraverso l’adorazione
del ‘finito’.
Bṛndāvan, 6.02.1979