26 Maggio 1977 – L’eroico fratello

26 Maggio 1977 

Discorso Divino di Bhagavan Sri Sathya Sai Baba

L’eroico fratello

[1] L’ideale di fratellanza descritto nel Rāmāyaṇa non ha equivalenti
in nessun’altra opera epica della letteratura mondiale. Quando
Lakṣmaṇa cadde tramortito durante la battaglia contro i demoni di
Laṅkā e non riprendeva i sensi, Rāma espresse il suo dolore per tale
disgrazia: “Ohimè, Lakṣmaṇa è la fonte del mio respiro; non c’è fratello
come lui su tutta la Terra!” La vita di Lakṣmaṇa e la relazione
con suo fratello Rāma sono esempi eccezionali per l’umanità.
Della sacra sillaba AUM si può dire che Lakṣmaṇa sia la A, Bhārata
la U e Śatrughna la M, mentre Rāma è la sillaba AUM intera. Rāma è
la concretizzazione del Brahman, l’Assoluto Universale che emanò
come suono primordiale AUM.
Quando Rāma e Lakṣmaṇa procedevano nella giungla, dopo aver
perso Sītā, i saggi che li videro li descrissero come ‘il Sole e la Luna’,
tanto maestoso e magnifico era il loro incedere, splendenti di coraggio
e di determinazione. Se la forza del corpo e la tenacia della mente
si rafforzano reciprocamente, l’aspetto di una persona diventa più
attraente.
La gioventù di oggi non ha né la forza fisica né la determinazione
mentale, perciò tanti giovani assumono presto un aspetto da vecchi.
Quando il corpo è debole, anche la mente diventa debole. Dovete
cercare di sviluppare il benessere fisico e la salute poiché un gioiello
dev’essere conservato in uno scrigno solido e sicuro. Il gioiello della
Divinità, che è la vostra Realtà, deve essere custodito in un contenitore
forte, cioè il corpo.
[2] Anche durante la loro adolescenza, Rāma e Lakṣmaṇa erano attenti
a come vestivano. Nel periodo del loro primo apprendistato
spirituale, essi evitarono di indossare vesti regali, nonostante il padre
Daśaratha li invitasse a portare vesti preziose e vari ornamenti.
Mentre si trovavano nella foresta come esuli, essi indossavano pelli
di cervo e portavano i capelli annodati sul capo; sostenevano che un
vestito debba essere indossato per la propria soddisfazione e non
per imitare qualcun altro.
Essi non furono mai schiavi delle mode o delle convenzioni, bensì
stabilirono delle norme per gli altri e non imitarono qualcuno onde
ottenerne i favori. Il segno distintivo dei due fratelli era l’eroismo;
affrontavano ogni ostacolo lealmente e mostravano l’abilità e l’ingegno
necessari a fronteggiare e a superare opposizioni e ostilità.
I ragazzi d’oggi devono imparare questa lezione: essi si dileguano di
fronte agli ostacoli più piccoli e si scoraggiano alla prima difficoltà
che incontrano. Dovrebbero invece procedere coraggiosamente come
gli eroi del Rāmāyaṇa, qualunque sia la difficoltà da affrontare
in campo secolare, morale o spirituale.
Quando la verità dell’unica Realtà in tutti, la Realtà divina, è rivelata,
non c’è più spazio per ira o odio; in tal modo i giovani vedranno
solo il bene in tutti, mentre oggi le loro passioni colorano la visione
di quanto vedono.
[3] Tulasī Dās1, nel comporre il suo poema epico ‘Rāmacarita mānasa’,
scrisse che i fiori nei giardini di Laṅkā erano bianchi; Hanuman,
che era presente seppur invisibile, apparve ed espresse il suo disaccordo
poiché, disse, egli stesso li aveva visti ed erano rossi, non
bianchi. Tulasī Dās si rifiutò di correggere, e Hanuman continuò a
insistere, finché la discussione si trasformò in una zuffa e Rāma stesso
dovette intervenire e spiegare a Hanuman che la sua ira nei confronti
dei demoni aveva arrossato i suoi occhi, facendogli vedere
rossi i fiori bianchi.
Lakṣmaṇa aveva il cuore puro fin dalla nascita e, crescendo, fu capace
di governare gli impulsi dei sensi e di esserne padrone. Il suo
carattere era irreprensibile. Egli accoglieva con entusiasmo qualsiasi
ordine gli venisse dato da Rāma ed era felice di eseguirlo al meglio
delle sue capacità.
Durante i suoi primi due giorni di vita, Lakṣmaṇa piangeva a dirotto
in grembo alla madre Sumitrā, la quale tentò qualsiasi rimedio,
qualsiasi magia e rito per consolarlo, ma il bambino non si placava
né si riusciva a convincerlo a mangiare e a dormire. Allora Sumitrā
consultò Vaśiṣṭha2, il precettore reale, che suggerì di lasciarlo vicino
a Rāma nel palazzo di Kausalya3.
Sumitrā seguì il suggerimento e avvenne che, in compagnia di Rāma,
il bambino dormiva tranquillo e giocava felicemente. Lakṣmaṇa non
sopportava la separazione da Rāma; il suo principale desiderio era
di restare alla presenza di Rāma. Seguiva Rāma come un’ombra e
non si fermava mai in alcun luogo in cui Rāma non fosse presente.
Rāma era tutto quanto volesse, tutto quanto gli interessasse.
Quando Rāma se ne andò in esilio nella foresta vestito con indumenti
di corteccia, Lakṣmaṇa fece la stessa cosa. Per quattordici anni
rimase al servizio del fratello e di Sītā, preoccupandosi di loro giorno
e notte, senza alcuna considerazione per il proprio agio e nemmeno
per il sonno o il cibo.
[4] Tulasī Dās rende grande omaggio a Lakṣmaṇa per il suo servizio
devoto. Secondo lui, quando Rāma tornò ad Ayodhyā dopo l’esilio,
centinaia di migliaia di cittadini esultarono vedendo da lontano il
vessillo sul carro che lo portava, ma essi non sapevano che l’asta sulla
quale garriva la bandiera del trionfo di Rāma era Lakṣmaṇa, il fratello
devoto. Come poteva una bandiera sventolare così splendidamente
senza il servizio dedito, il coraggio e la tenace lealtà del fratello
che aveva condiviso lietamente con Rāma tutte le tribolazioni
dell’esilio?
Nārāyaṇa4 stava interpretando sulla terra il ruolo di un nara (uomo)
di nome Rāma, e aveva una missione cruciale da svolgere.
Lakṣmaṇa rinunciò alla propria vita per permettere la realizzazione
della missione dell’avatār e mai trasgredì, neanche di un passo, dalle
linee tracciate da Rāma.
Quando Rāma gli ordinò di preparare il fuoco nel quale avrebbe dovuto
passare Sītā per dimostrare al mondo la sua castità, Lakṣmaṇa
obbedì con il cuore sanguinante. Quando gli ordinò di portare Sītā
nella foresta e di abbandonarla là, sola e indifesa, Lakṣmaṇa obbedì,
anche se il suo cuore era straziato dal dolore.
[5] Ci furono però due occasioni nelle quali Lakṣmaṇa dovette disgraziatamente
comportarsi in contrasto con gli ordini precisi ricevuti
da Rāma. La prima fu quando il demone Māricā, che aveva assunto
le sembianze di un cervo d’oro, attirò Rāma lontano dalla capanna;
quando Rāma lo colpì a morte, Māricā ne imitò la voce e gridò:
“Oh Sītā, oh Lakṣmaṇa! Aiuto, aiuto!”
Lakṣmaṇa comprese che si trattava di un trucco del demone e, secondo
le istruzioni di Rāma, non avrebbe voluto abbandonare Sītā,
ma ella invece insistette fermamente che Lakṣmaṇa andasse a vedere
come mai Rāma chiedesse aiuto; lo accusò di essere indifferente e
minacciò di lanciarsi nel fuoco per l’angoscia. Alla fine Lakṣmaṇa
cedette, la lasciò sola nella capanna e andò in cerca di Rāma. [Così
Rāvaṇa poté presentarsi, ingannare Sītā e rapirla].
La seconda occasione si verificò verso la fine della permanenza di
Rāma come avatār. Yama, il Dio della morte, si recò da Rāma per ricordargli
che la Sua vita come avatār poteva concludersi e che tutti i
partecipanti divini potevano ritornare alle loro dimore celesti.
Quando Yama entrò nella sala delle udienze, Rāma ordinò a
Lakṣmaṇa di stare all’ingresso e di non permettere che nessuno entrasse
a interrompere la loro conversazione, altrimenti come punizione
ci sarebbe stata la pena di morte.
Mentre Lakṣmaṇa faceva la guardia, si presentò l’irascibile saggio
Durvāsa che, furioso per il divieto di entrare, minacciò di lanciare
una terribile maledizione che avrebbe distrutto la città di Ayodhyā
con tutti i suoi abitanti e tutto il clan Raghu, cioè la discendenza di
cui faceva parte la famiglia di Rāma. Lakṣmaṇa valutò i pro e i contro,
e concluse che la sua morte sarebbe stata una calamità minore
rispetto alla distruzione di tutta la popolazione di Ayodhyā, perciò
lasciò passare Durvasā e serenamente accettò la punizione.
[6] Lakṣmaṇa esaminava ogni propria azione tenendo in considerazione
la volontà di Rāma o il bene generale. Egli abbandonò tutto,
sua moglie Ūrmilā, sua madre Sumitrā e la vita principesca ad
Ayodhyā per servire Rāma e sostenere la Sua missione. Quando egli
uccise in battaglia Indrajit5, Rāma lo abbracciò pieno di gioia esclamando:
“Ah, caro fratello! Che grande vittoria hai conseguito oggi!
Ora mi sento come se avessi già ritrovato Sītā!”
Tra Rāma e Lakṣmaṇa non ci fu mai alcuna traccia d’invidia o di sospetto.
Lakṣmaṇa era del tutto indifferente a quanto accadeva intorno
a lui, se la cosa non riguardava Rāma. La sua grandezza è incalcolabile.
Egli servì Sītā per quattordici anni, ma mai sollevò lo
sguardo per guardarla in volto. La sua condotta rappresentava
l’apice della rettitudine.
I vānara trovarono sul colle Ṛṣyamūka i gioielli che Sītā aveva gettato
lungo il percorso mentre Rāvaṇa, il suo rapitore, la trascinava
verso Laṅkā; essi li consegnarono a Sugrīva, che a sua volta li presentò
a Rāma e Lakṣmaṇa perché li identificassero. Quando Rāma
chiese al fratello se riconoscesse qualche gioiello appartenente a Sītā,
Lakṣmaṇa rispose che poteva riconoscerne solo uno, quello che Sītā
portava alle caviglie; lo vedeva ogni giorno quando s’inchinava ai
suoi piedi, quindi poteva affermare con certezza che fosse suo. Tale
era la nobiltà di carattere del fratello di Rāma.
Quando Lakṣmaṇa perse i sensi durante la lotta con Indrajit, questi
avrebbe voluto sollevarlo da terra e portarlo a Laṅkā come ostaggio;
Lakṣmaṇa era però l’incarnazione del serpente cosmico Śeṣa, per cui
era pesantissimo e non poteva essere spostato. Indrajit abbandonò
l’idea e si allontanò.
Quando arrivò Hanumān, pronunciò il nome di Rāma e il peso di
Lakṣmaṇa si ridusse a quello di una piuma, tanto era sensibile a
quel nome, sebbene fosse privo di sensi. Ciò dà la misura dell’eroismo
e dell’umiltà del valoroso fratello di Rāma.

Bṛndāvan, Corso Estivo, 26.05.1977