24 Novembre 1980
Discorso Divino di Bhagavan Sri Sathya Sai Baba
Ricerca della Realizzazione
[1] Dal punto di vista del progresso spirituale, gli uomini possono
essere raggruppati in tre categorie: puṣṭi, i completi; maryādā, i parzialmente
completi; pravāha, i vuoti e incuranti.
Il primo gruppo (puṣṭi) ottiene la grazia di Dio con l’osservanza della
retta condotta, del lavoro onesto e della fede salda. Queste persone
sono amate da Dio e sono benedette con il dono di un’incessante
beatitudine. L’amore è unicamente il risultato dell’amore, l’amore
può essere ottenuto solo con l’amore.
Gli uomini comuni non aspirano a ricevere l’amore di Dio, ma desiderano
i beni materiali e l’appagamento che questi possono conferire,
e vengono sollecitati dal sé inferiore a soddisfare i loro sensi.
Le persone del primo gruppo, invece, provano l’amore più elevato,
esente da ogni egoismo; le loro aspirazioni, azioni e i loro pensieri
sono colmi di amore.
Le gopī imploravano Kṛṣṇa così: “Signore! Con il Tuo flauto suona
la melodia che possa piantare i semi d’amore nell’arido deserto del
nostro cuore; fa scendere su questi la pioggia dell’amore, in modo
che le piantine crescano e diano un ricco raccolto di amore.”
I devoti del primo gruppo sembrano modesti in apparenza, ma sono
riconoscibili dallo splendore spirituale che emana dalla loro beatitudine
interiore. Per poter ricevere dal Signore il dono dell’amore
divino, un individuo deve avere praticato per molte esistenze la disciplina
spirituale, la disciplina dell’amore.
[2] La seconda categoria (maryādā) ottiene con lo sforzo spirituale
dei risultati più limitati, anche se sono comunque degni di nota. Tali
devoti vengono a conoscenza delle storie gloriose di Dio grazie allo
studio intenso delle Scritture e, dopo aver meditato profondamente
sulla Sua gloria, sviluppano un amore costante per Lui.
Voi potete comporre un numero corretto per contattare qualcuno al
telefono, ma se l’altro non solleva il ricevitore, non otterrete alcun
risultato. Non basta quantificare la disciplina spirituale o le ore che
avete passato a studiare e a praticare. A Dio interessa di più che il
vostro cuore venga trasformato in una riserva di amore; tale trasformazione
può essere acquisita attraverso: śrāvaṇa (ascolto delle
sacre Scritture), mānana (riflessione su ciò che si è ascoltato), nididhyāsana
(esperienza diretta dell’insegnamento ascoltato). Il Signore
non considera più meritevoli i riti di adorazione che voi gli
offrite; infatti il cuore colmo di compassione è il tempio in cui Dio è
lieto di insediarsi.
L’erudizione è per lo più superficiale e persino contraria alla spiritualità,
mentre la purezza di cuore deve essere l’obiettivo primario
della disciplina spirituale. Un individuo può eseguire i riti di adorazione
per ore o fare meditazione ogni giorno, ma se non prende
coscienza della Divinità che invoca o si raffigura, le sue pratiche
non sono di alcuna utilità. La Divinità è la sua stessa natura, egli
stesso è Dio, perciò la sua natura divina deve esprimersi nella vita
quotidiana.
Pietro era un pescatore, ma Gesù si rese conto che sapeva manifestare
le sue qualità divine. Se qualcuno piange e geme nella piazza
del mercato, una folla ansiosa si raduna attorno a lui per scoprire la
ragione, poiché la tristezza è innaturale. Se un altro è felice e sorridente,
nessuno si preoccupa perché la gioia è naturale per l’uomo.
[3] Per elevarsi allo stato della prima categoria (puṣṭi, i completi), il
devoto deve imparare ad avere fiducia in sé e soddisfazione di sé,
essere contento di sé stesso, e trarre gioia dal Divino Sé o ātma che
egli stesso è. Non deve lasciarsi tentare da un’apparente fonte di
gioia del mondo esteriore.
La fama che l’individuo ottiene, le ricchezze che accumula, il potere
che esercita, sono solo nuvole che passano con una folata di vento.
L’adulazione e la condanna, con cui molti si devono confrontare,
sono soltanto illusioni verbali, trucchi che esaltano o feriscono solo
per un breve momento. Chi appartiene alla categoria maryādā (parzialmente
completi) deve sforzarsi di salire al livello del primo
gruppo (puṣṭi), ovvero dei devoti completi.
Infine c’è la categoria pravāha, ovvero gli indifferenti che non sanno
resistere all’attrazione dei sensi e del mondo oggettivo. Essi vengono
attirati dal flusso delle frivolezze e delle volgarità e ignorano in
che modo attraversare il mare del saṃsāra1: così sprofondano negli
abissi dell’infelicità.
Non hanno la minima conoscenza del Salvatore e rimangono intrappolati
nella ruota delle nascite e delle morti; poiché questo flusso
è in moto continuo, non permette loro di fermarsi da qualche
parte. Essi nascono per morire e muoiono solo per rinascere, ma
questa non è la vera meta della vita umana. Allora come può l’uomo
sfuggire a quella ruota?
L’albero ha origine dal seme. Il desiderio è il seme per cui l’individuo
appare sulla terra; se non ha desideri né la determinazione a
soddisfarli, non ha bisogno di nascere per esaudire un desiderio
inappagato e, quindi, non deve morire; perciò deve ridurre al minimo
i desideri e rinunciare a cercarne la soddisfazione.
Il desiderio rende l’uomo debole, incerto e impaurito; infatti, se è
gravato dal desiderio, non può essere all’altezza della sua nobile
natura. Tuttavia, non c’è motivo di disperarsi.
[4] L’uomo ha in sé tre fonti di energia a cui può attingere: l’energia
divina (parāśakti), l’energia spirituale (aparāśakti), e l’energia materiale
(avidyāśakti).
Dalla sua convinzione di essere il corpo (aham dehāsmi – ‘Io sono il
corpo’) può attingere vigore fisico o avidyāśakti.
Poiché egli è il sé individuale (aham jīvāsmi – ‘Io sono l’anima individuale’)
può ricavare forza dall’energia spirituale o aparāśakti.
Poiché il sé individuale è uno con il Sé Superiore e può ottenere la
consapevolezza dell’unità e identità (aham brahmāsmi – ‘Io sono il
Brahman’), può attingere energia dal Potere Eterno Universale, il
Brahman stesso.
Tale energia divina (parāśakti) è detta anche viṣṇu-śakti, energia divina
che tutto pervade, poiché è immanente e trascendente allo
stesso tempo.
Coloro che non riescono a comprendere l’energia ‘onni-pervasiva’
di parāśakti le attribuiscono una forma e un nome e l’adorano come
Dea Madre, come Kālī2 o Ambā3.
L’energia spirituale (aparāśakti) è circoscritta all’area fisica del sé individuale
(jīvi), mentre l’energia materiale (avidyāśakti) è ancor più
limitata e ostacolata da māyā, l’energia illusoria; ma è proprio l’illusione
di māyā che spinge l’uomo ad agire e a operare nella società.
[5] L’energia divina (parāśakti) contraddistingue il saggio realizzato
(jñāni4). Per raggiungere tale stadio è necessario ricorrere costantemente
all’intelletto per discernere il vero dal falso, l’eterno dal transitorio;
inoltre è necessario esaminare in che modo lavori la mente.
Di solito si dice che la mente corra dietro agli oggetti esterni, ma la
mente non si muove verso gli oggetti; questi ultimi sono attirati dalla
mente verso sé stessa.
La gente che viene a Puttaparti proveniente da Bangalore, non appena
giunge al gokulam alla periferia del paese, esclama: “È arrivata
Puttaparti!” Ma Puttaparti non va verso di loro, sta sempre dov’è.
Allo stesso modo, la mente sta dov’è e subisce l’influenza degli oggetti
che entrano nella sua sfera, così sviluppa i desideri e gli attaccamenti
per gli stessi. Per liberare la mente da questi legami, la meditazione
è la disciplina più proficua.
[6] Molti dimostrano e diffondono la tecnica della meditazione, ma
solo coloro che hanno realizzato l’obiettivo fondamentale della vita
e diventano padroni di loro stessi possono guidare gli altri e fare loro
da guru.
I testi di scienza spirituale (śāstra) stabiliscono quello che deve essere
acquisito e quello a cui bisogna rinunciare. Quando questa saggezza
viene applicata alla propria vita attraverso l’azione, contraddistingue
il vero guru. La meditazione non ha una fine, deve continuare
anche dopo che uno si è alzato e si è allontanato dal luogo in
cui ha meditato; la purezza che si è ottenuta con la meditazione deve
manifestarsi nelle azioni.
Poiché il sé individuale è il Sé vero, la pienezza del Sé o Divinità
deve rivelarsi anche nell’uomo. I versi della strofa d’apertura della
Īśāvāsya upaniṣad affermano:
oṁ pūrṇam adaḥ pūrṇam idaṁ pūrṇāt pūrṇam udacyate ।
pūrṇasya pūrṇam ādāya pūrṇam evāvaśiṣyate ॥
Oṁ Quello è pieno questo è pieno. Dal pieno emerge il pieno.
Quando il pieno viene preso dal pieno, il pieno resta pieno.
Da un grosso blocco di jaggery, zucchero di canna, potete tagliarne
via un pezzo; quest’ultimo è dolce quanto l’intero blocco e la qualità
è la medesima. Dio è Amore e dolcezza, anche l’uomo deve esprimere
lo stesso tenero amore e, in tal modo, dimostrare che la sua
Realtà è Dio; la meditazione, come risultato, deve portare a questa
consapevolezza.
Molte persone che praticano la meditazione sono in uno stato di
equanimità finché meditano ma, appena finiscono, cominciano ad
arrabbiarsi con tutti quanti.
Alcuni sono yogī (asceti) al mattino, bhogin (gaudenti) a mezzogiorno
e rogin (malati) di notte!
La Bhagavad Gītā esorta gli uomini a essere sempre degli yogī, e a
non interpretare tre ruoli diversi in un sol giorno!
yogī yuñjīta satatam
ātmānaṁ rahasi sthitaḥ |
ekākī yatacittātmā
nirāśīr aparigrahaḥ ||
Lo yogi rimanendo in un luogo appartato, in solitudine,
controllando la mente e il pensiero,
libero da ogni idea di desiderio e di possesso
deve concentrarsi costantemente sul Sé.
(BG 6.10)
[7] Molti credono che andare in pellegrinaggio nei luoghi sacri favorisca
il progresso spirituale, così si recano a Tirupati, Rameshvaram,
Badrinath o Amarnath, e pregano affinché le loro difficoltà materiali
siano risolte. Fanno anche il voto di tagliarsi i capelli se, con
l’intervento divino, dovessero vincere un premio alla lotteria nazionale,
come se Dio avesse bisogno dei loro capelli. Questo mercanteggiare
è solo un inganno verso sé stessi nel tentativo di raggirare
Dio. Non pregate Dio per ottenere la ricchezza, la notorietà, una posizione
di potere o anche solo i risultati delle vostre azioni.
Il vero ricercatore pregherà solo per Dio e nient’altro, e quell’anelito
colmerà tutte le sue azioni, i riti di adorazione, i canti devozionali e
la meditazione; ogni suo slancio d’amore, la melodia del canto, ogni
fremito vibrante rifletteranno solo quell’ardente desiderio, perché
Dio è la base su cui l’intera creazione poggia. L’aspirazione più profonda
dell’uomo è fare esperienza dell’Uno, del Fondamento, dell’Essere
che si esprime nel ‘divenire.’
[8] Voi siete venuti a migliaia da Est e Ovest, da Sud e Nord, ma ora
siete Uno in questo auditorio ‘Pūrṇacandra’ e sentite un’unità spirituale
colma di gioia. Siate consapevoli dell’Uno che si manifesta
come i molti: quella è Vita Divina. Aspirate a quel tipo di vita, e non
semplicemente a una lunga vita. Aspirate ad acquisire la beatitudine
che la consapevolezza dell’ātma, il divino Sé, può conferire, e
non il piacere che gli oggetti del mondo possono dare.
Dio è onnipresente, perciò non agite né comportatevi in modo diverso
quando non siete in Mia presenza. Siate sempre e ovunque
consapevoli della presenza divina; siate vigili anche mentre siete
impegnati in piccoli compiti. Mantenete il silenzio nei più intimi recessi
del cuore, e anche fuori.
La Gītā afferma che le mani e i piedi di Dio sono ovunque, voi potrete
udire il fruscio dei Suoi passi solo se un altro suono non lo impedisce.
Per Sua infinita grazia, Dio assume la forma che il devoto
desidera vedere con fervore. Dio è purezza, suprema saggezza, è
sempre libero, sempre misericordioso. Siate costantemente consapevoli
di Dio, vedetelo e servitelo in ogni essere vivente.
Praśānti Nilayam, auditorio Pūrṇacandra, 24.11.1980