20 Agosto 1978 – La vera amicizia

20 Agosto 1978 

Discorso Divino di Bhagavan Sri Sathya Sai Baba

La vera amicizia

[1] Delle nove forme di devozione1 descritte nel Bhāgavata e in altri
testi sacri, l’ottava è snehaṃ che di solito viene tradotta con amicizia:
un termine che è stato ‘volgarizzato’ e attribuito a certe relazioni
transitorie fra esseri viventi. Gli amici stanno insieme per svariate
ragioni e circostanze, per lo più per interessi personali e temporanei.
Le persone che hanno grandi risorse acquisiscono amici molto
rapidamente; la stessa cosa accade anche a chi può offrire aiuti fi-
nanziari o elargire favori. Anche quelli che hanno posizioni autorevoli
trovano molti amici che, naturalmente, sono presenti durante il
‘bel tempo’, ma scompaiono non appena si rannuvola, quando il
potere e l’autorità si offuscano.
Quasi tutte le amicizie si basano su fattori egoistici e durano solo
finché gli interessi personali vengono favoriti. Come dice il proverbio:
“Quando lo stagno è pieno d’acqua ci sono rane in gran quantità,
non appena si prosciuga, non se ne sente gracidare neppure
una.”
L’amicizia deve essere un legame spirituale, una relazione ‘da cuore
a cuore’ fondata sulla piena comprensione e sulla dedizione reciproca.
Gli studenti devono essere vigili nei confronti delle amicizie
false e fugaci, e non devono lasciarsi sviare da saluti insinceri e da
artificiose strette di mano. Non coltivate amicizie intime con nessuno
se non siete certi che le motivazioni dell’altro siano pure, altruistiche
e spirituali.
[2] L’amicizia vera è possibile solo tra un Sé e l’altro, ovvero tra due
persone che abbiano compreso che l’ātma o Sé è il centro, l’essenza
del loro essere. Nelle relazioni banali e temporanee delle persone
attaccate alle cose secolari, non riuscirete mai a trovare l’amicizia
genuina di snehaṃ; quest’ultima è l’ottava forma di devozione che
precede ātmanivedanaṃ, il completo abbandono di sé stessi al Sé Supremo
e alla Volontà del Signore.
Fra Arjuna e Kṛṣṇa c’era un’amicizia vera. Arjuna vedeva Kṛṣṇa
come suo amico e quindi aveva l’audacia di usare parole di spiritosa
irriverenza durante il gioco o il riposo, quando era seduto vicino
a Lui o durante i pasti. Spesso, mangiavano nello stesso piatto ed
erano pronti ad aiutarsi reciprocamente in qualsiasi circostanza.
Non abbiate, però, l’impressione che Arjuna fosse dominato in
modo ingannevole da Kṛṣṇa.
Arjuna era maturo di carattere, molto esperto nelle tradizioni vediche,
era un temibile guerriero e un arciere pieno di coraggio ed eroismo.
Kṛṣṇa era il puruṣottama, lo Spirito supremo. Arjuna era narottama, il
migliore fra gli uomini. Si trattava quindi di un’amicizia tra l’Incarnazione
dell’Eccelso Assoluto e l’incarnazione del migliore. Kṛṣṇa
era l’avatār, Arjuna era una persona gioiosa, perciò era l’unione fra
avatār mūrti (la manifestazione dell’avatār) e ānanda mūrti (la personificazione
della beatitudine).
Arjuna veniva spesso chiamato da Kṛṣṇa ‘kuru nandana’, un nome
che ha un significato profondo. Kuru2 significa ‘agire, attività, azione’;
nandana vuol dire ‘felice, lieto’, perciò kuru nandana significa chi
è felice mentre è impegnato nel lavoro o nell’attività. Infatti nei diciotto
capitoli della Bhagavad Gītā, Arjuna è sempre vigile e attivo e
partecipa molto attentamente a ogni discussione.
[3] Rāmakṛṣṇa Paramahaṃsa era affascinato dall’amicizia tra Kṛṣṇa
e Arjuna, e apprese dal Bhāgavata e dalla Bhagavad Gītā in che
modo praticare le nove forme di devozione. Egli era anche determinato
a emulare le gopī e ad acquisire un’intensa devozione, ovvero
madhura bhakti, la devozione colma di dolcezza, come quella delle
gopī.
Quando lesse il Rāmāyaṇa, Rāmakṛṣṇa decise di emulare Hanumān
e praticare la sua stessa devozione, assumendo l’atteggiamento di
servo dedito e fedele verso Dio.
In modo particolare, Rāmakṛṣṇa rimase impressionato dal verso
sotto indicato della Bhagavad Gītā che metteva in risalto l’atteg-
giamento di ātmanivedanaṃ o śaraṇāgati, il completo abbandono di
sé stessi al Sé supremo e alla Volontà del Signore.
manmanā bhava madbhakto
madyājī māṁ namaskuru |
mām evai ’ṣyasi yuktvai ’vam
ātmānaṁ matparāyaṇaḥ ||
A Me rivolgi il tuo pensiero, il tuo devoto amore,
il tuo sacrificio, a Me rendi omaggio;
così conseguita l’unione con Me,
che sono il tuo fine più alto, a Me certo verrai.
(BG 9.34)
Una volta, mentre Rāmakṛṣṇa stava recandosi a Kamarpukur, venne
sorpreso da un violento rovescio di pioggia in mezzo a un cimitero.
Era in uno stato d’estasi tale che il tempo, il luogo e il clima
non lo interessavano affatto. Quando si destò, invocò Dio con vari
nomi: Rāma, Śiva, Kṛṣṇa, Kālī, Hanumān. Improvvisamente si rese
conto che tutti i nomi si riferivano all’Uno, allora fra sé recitò quel
verso della Bhagavad Gītā che gli ricordava śaraṇāgati, l’abbandono
totale all’Uno.
[4] Molti fatti interessanti hanno avuto luogo a Dakṣiṇeśvar3. Un
giorno, Rāmakṛṣṇa venne invitato a ritirare il suo salario mensile
presso l’ufficio del tempio; egli si adirò molto perché non voleva ricevere
un compenso per avere avuto l’opportunità di adorare la
Madre Divina.
Un’altra volta dei ladri entrarono furtivamente nel tempio dedicato
a Kṛṣṇa. Quando Rāmakṛṣṇa e Mathurānāth si accorsero che l’idolo
di Kṛṣṇa era completamente spoglio e che tutti i gioielli erano stati
rubati, Mathurānāth andò su tutte le furie e accusò Kṛṣṇa stesso, dicendo:
“Tu vieni venerato come il Guardiano dei quattordici mondi,
ma non riesci a vigilare neppure sui gioielli che indossi e adornano
il Tuo corpo!” Allora Rāmakṛṣṇa lo rimproverò severamente per
quel sacrilegio e disse: “Kṛṣṇa ha Lakṣmī4 come Sua Consorte, e per
Lui il tuo oro e le tue pietre preziose non valgono più della polvere.
In realtà, che cos’è l’oro se non polvere sotto un’altra forma?” Egli
indusse Mathurānāth a pentirsi del suo stupido scatto d’ira e a
prendere coscienza della vera natura del Divino.
Se voi abbandonate a Dio i desideri e la vostra volontà, tutte le attrazioni
e le fantasie, Egli vi guiderà in modo giusto e vi donerà pace
e gioia. Non dovete però rincorrere obiettivi effimeri e piaceri
momentanei: lasciate tutto a Dio, accettate qualsiasi cosa avvenga
come segno della Sua Volontà.
[5] Ambarīṣa era un re che osservava rigorosamente tutti i riti stabiliti
dai Veda. Era un uomo nobile e un sincero devoto di Viṣṇu5. Fare
digiuno nell’undicesimo giorno (ekādaśī) del calendario lunare e
interromperlo al sorgere del dodicesimo giorno era uno dei voti
importanti che Ambarīṣa osservava scrupolosamente ogni due settimane.
Il digiuno doveva essere interrotto con preghiere dedicate a
Viṣṇu e, al sorgere del dodicesimo giorno, Ambarīṣa condivideva
l’offerta fatta al Signore.
Un giorno, qualche ora prima dell’inizio del dodicesimo giorno, il
saggio Durvāsa, noto per la sua irascibilità e per gli incontrollabili
attacchi d’ira, arrivò al palazzo di Ambarīṣa, dove fu accolto molto
amabilmente dal re.
Ambarīṣa pregò Durvāsa di recarsi sulle rive del Gange per terminare
le sue abluzioni e ritornare in tempo per interrompere il digiuno,
ma il saggio impiegò molto tempo e quando il momento decisivo
di interrompere il digiuno arrivò, Durvāsa non era reperibile da
nessuna parte. Ambarīṣa venne così a trovarsi in un bel dilemma.
Consultò il suo precettore che lo consigliò di bere poche gocce dell’acqua
santificata, che equivaleva a interrompere il digiuno, perché
durante l’ekādaśī è proibito bere persino l’acqua. Il precettore aggiunse
che Durvāsa non avrebbe avuto motivo di arrabbiarsi, poiché
le gocce di acqua erano state bevute dal re solo per osservare il
voto. Quando il saggio apprese quanto era accaduto, divenne così
furioso che scagliò una maledizione contro Ambarīṣa perché aveva
interrotto il digiuno in sua assenza e iniziato il pasto. Non appena
la maledizione prese forma, il disco di Viṣṇu apparve sulla scena e
cominciò a inseguire Durvāsa senza tregua.
[6] Ambarīṣa accolse quella maledizione come dono di Dio e si sottomise
con spirito di abbandono e resa totale, poiché aveva ormai
rinunciato alla sua volontà. Così Dio stesso andò in suo soccorso!
Ambarīṣa non invocò né pregò Viṣṇu per essere salvato dall’ira di
Durvāsa: accettò anche quello come Volontà di Viṣṇu. Il Signore
Viṣṇu lanciò contro Durvāsa il Suo potente disco che, incessantemente,
inseguì il saggio terrorizzato nei tre mondi. Quando Durvāsa
si prostrò ai piedi di Viṣṇu, il Signore gli ordinò di andare da
Ambarīṣa e di chiedergli perdono. L’attitudine all’abbandono totale,
o ātmanivedanaṃ, induce il devoto a offrire la sua completa personalità
ai piedi divini del Signore.
[7] Anche nel Rāmāyaṇa c’è un episodio che illustra molto bene
questo concetto. Rāma e Lakṣmaṇa stavano perlustrando la foresta
per scoprire dove fosse Sītā, ed erano molto stanchi e assetati. Improvvisamente
s’imbatterono in uno stagno dalle acque limpide;
nell’appoggiare a terra i loro archi fecero cadere le frecce, di cui alcune
s’infilarono nella sponda bagnata dello stagno. Dopo avere
placato la sete, misero l’arco sulla spalla e tirarono fuori le frecce
che si erano infilate nella riva dello stagno. Rāma notò una macchia
di sangue sulla punta di una freccia e, incuriosito, cercò di scoprirne
la causa. Lakṣmaṇa vide una piccola rana che era stata colpita dalla
freccia che Rāma aveva fatto cadere a terra. Rāma disse alla rana ferita:
“Oh piccola rana, perché non hai gridato quando sei stata colpita?”
La rana rispose: “Quando sono in difficoltà, invoco Te, Rāma.
Ma se Rāma stesso mi causa dolore, chi posso invocare? Così ho accettato
il fatto come segno della Tua grazia.”
Bhīṣma6 adorava Kṛṣṇa anche mentre Egli stava correndo verso di
lui impugnando il Suo disco per togliergli la vita. Il profondo senso
di abbandono totale al Divino non lasciò Bhīṣma neppure nel mo-
mento in cui la morte si presentava per mano di Colui che adorava
come Dio.
Infatti Bhīṣma disse: “Puoi uccidermi o salvarmi, ma io non vacillerò
nella mia devozione e fedeltà!”
[8] Rāmakṛṣṇa aveva il medesimo senso di completa dedizione. Soffriva
molto a causa di un tumore, e i suoi discepoli lo esortavano a
pregare la Madre divina per avere un po’ di sollievo.
Vivekānanda era disperato quando il suo maestro rifiutò di chiedere
questo piccolo favore alla Madre, con la quale conversava regolarmente;
ma Rāmakṛṣṇa rispose che se, per Volontà della Madre,
doveva soffrire, non voleva pregare per ottenere rimedi palliativi.
Tuttavia, i suoi discepoli insistevano così tanto che un giorno
Rāmakṛṣṇa pregò la Madre di aiutarlo a mangiare un po’ di cibo,
malgrado il tumore alla gola.
Egli disse ai discepoli che in quell’occasione aveva sentito la Madre
rimproverarlo per la sua ignoranza: “Ma non stai forse mangiando
attraverso questi miliardi di gole? Allora perché ti dispiace che una
gola sia incapace d’inghiottire del cibo?” In tal modo, i discepoli
avevano appreso la verità grazie a quella rivelazione divina.
[9] Il livello di amicizia raggiunto da Arjuna equivale alla fase in cui
tutte le distinzioni tra il devoto e Dio scompaiono e i due amici sono
Uno. Quando si raggiunge lo stadio di fiducia totale, di fede incrollabile
e completa assenza di dubbi, paura e ansia, il passo successivo
di ātmanivedanaṃ è naturale e facile da raggiungere.
Questa è la vera amicizia a cui i giovani devono aspirare. Dovete
vedere Dio in ogni essere, allora la vera amicizia sboccerà! Tale tipo
di amicizia può manifestarsi solo se seguite il consiglio di Kṛṣṇa che
è qui di seguito riportato:

adveṣṭā sarvabhūtānāṃ
maitraḥ karuṇa eva ca |
nirmamo nirahaṃkāraḥ
sama duḥkha sukhaḥ kṣamī ||
(BG 12.13)
Chi non odia creatura alcuna,
ma ama tutte le creature e ne ha compassione,
è privo di attaccamento e di egoismo,
è equanime nel dolore e nel piacere, paziente,
saṁtuṣṭaḥ satataṁ yogī
yatātmā dṛḍhaniścayaḥ |
mayy arpitamanobuddhir
yo madbhaktaḥ sa me priyaḥ ||
(BG 12.14)
sempre contento, capace di controllarsi,
padrone di sé, risoluto,
con la mente e l’intelletto fissi su di Me,
a Me teneramente devoto, costui mi è caro.
Coltivate in voi queste qualità poiché esse rappresentano la vera
amicizia (snehaṃ). Solo se avanzerete nel viaggio verso il Divino seguendo
queste nove forme di devozione, vi sarà possibile conseguire
l’ideale di snehaṃ, la vera amicizia.

Praśānti Nilayam, ostello dell’università, 20.08.1978