16 Febbraio 1977 – La vittoria suprema

16 Febbraio 1977 

Discorso Divino di Bhagavan Sri Sathya Sai Baba

La vittoria suprema

[1] Il percorso spirituale è la via del distacco, del controllo dei sensi
e dell’addestramento rigoroso della mente. Pārvatī cercò di conquistare
Śiva con le lusinghe dell’attrazione fisica, e contava sulle astuzie
del dio dell’amore per il successo delle proprie seduzioni, ma
Śiva ridusse in cenere il dio dell’amore e respinse le sue proposte
amorose. Allora Pārvatī iniziò un duro periodo di austerità e ascetismo,
e così fu in grado di ottenere la grazia di Śiva al punto di divenire
la parte sinistra del Suo sacro corpo.
L’uomo deve innanzitutto decidere, dopo un attento esame di sé ed
esercitando continuamente la discriminazione, quale via voglia percorrere.
Mokṣa, liberazione, significa eliminare i legami dell’ignoranza
che celano la verità e creano un miraggio di falsità. Infatti,
‘vivere’ è solo un altro nome per indicare il processo di sentire in
modo alterno tristezza e felicità, fame e appagamento, malattia e
salute, desiderio e soddisfazione. L’uomo insegue un nuovo desiderio
non appena ne abbia soddisfatto un altro; è sempre in lotta, è
sempre infelice perché non cerca l’eterno, il duraturo, l’essenza, ma
si accontenta del transitorio, del banale, del temporaneo.
[2] Usate il corpo come un carro per raggiungere la liberazione attraverso
la verità. È vostro dovere accertarvi che, sulle quattro ruote
di satya, dharma, śānti e prema, verità, rettitudine, pace e amore, il
carro sia sulla strada verso il traguardo; procederà su quella via solo
se avrà meno bagagli, cioè meno desideri, meno preoccupazioni e
meno paure. Quei ‘bagagli’ si moltiplicano se l’uomo ritiene di essere
il corpo con tutte le sue pertinenze, e non il proprietario del corpo.
Karma, bhakti, jñāna, le vie dell’azione, della devozione e della conoscenza
o saggezza, sono i tre percorsi che conducono al Divino, ma
kāma (desiderio) rende il karma distorto e corrotto; lobha (avidità) deteriora
bhakti, krodha (collera) offusca jñāna; tuttavia, per mezzo di
prema, il puro amore, potrete vincere desiderio, avidità e collera.
Imparate una lezione dall’insignificante formica: quando una formica
trova un po’ di zucchero, non lo nasconde per consumarlo da
sola, ma raduna amici e parenti perché ama condividere con altri
l’abbondanza che ha trovato. Il corvo, disprezzato da tutti, quando
trova un po’ di cibo si mette a gracchiare finché non arrivano sul
posto parenti e amici. Ciò che si condivide è più saporito; ciò che si
trattiene per sé è sempre amaro. La vita è breve e piena di afflizioni,
ma tutti voi potete ricavarne gioia rendendo felici gli altri. Se gli altri
sono tristi, come potrete essere veramente felici?
La grandezza dell’uomo consiste nell’essere capace di eliminare il
male in sé con uno sforzo cosciente; mentre gli animali, per quanto
siano stati addestrati ed educati, conservano i loro istinti di base,
pronti a scattare alla minima provocazione.
La ricorrenza di śivarātrī insegna che mediante un giorno intero di
digiuno e un’intera notte di veglia, che simboleggiano la conquista
dei sensi ottenuta controllando instancabilmente le loro bizzarrie e
impedendo loro di fare del male, l’oscurità può trasformarsi in luce
e un corpo mortale può elevarsi al Divino.
[3] Perché mai questa creatura, l’uomo, dotata della particolare sensibilità
di condividere gioia e dolore con gli altri, dovrebbe nascere
in questo mutevole mondo costituito da tempo e spazio? Nulla che
sia nato può sfuggire alla morte, nulla che sia edificato può evitare
la distruzione. Allora perché l’uomo è stato mandato su questo palcoscenico
di esperienze effimere?
C’è un proposito dietro tutte le azioni del Divino. L’uomo deve manifestare
il Divino in sé e condurre, guidare tutti gli esseri viventi in
quell’avventura. Egli deve liberarsi con i propri sforzi, e liberare
tutta la vita con il suo esempio; deve ritornare ad essere libero e sicuro
della sua origine: tale stato viene detto mokṣa, liberazione, ovvero
liberarsi della meschina piccolezza per conseguire l’immensità,
liberarsi dai legami per ottenere l’illimitata beatitudine.
[4] La contaminazione dell’ego s’insinua nell’uomo solo quando
egli è fuorviato dall’apparente diversità e ammette la molteplicità
nella creazione. La Realtà che viene fraintesa a causa della cupa penombra
di ajñāna (l’ignoranza primordiale) è Dio. Vedere attraverso
la nebbia che proietta i molti dove c’è solo l’Uno è lo scopo di tutte
le discipline spirituali.
Se l’aspirante continua a vedere differenze, distinzioni e diversità
anche dopo anni di pratiche, indipendentemente dalla religione di
appartenenza, si può concludere che deve ancora percorrere una
strada molto lunga prima di realizzare l’obiettivo dell’esistenza
umana.
La consapevolezza dell’Uno dona incrollabile tranquillità, praśānti.
Quando l’Uno è realizzato, non può più esserci paura; come può
l’Uno temere sé stesso? Non può esserci neppure il desiderio: se
non c’è un ‘secondo’, come può sorgere il desiderio di possedere?
Così non ci saranno invidia, odio, avidità, orgoglio, né alcuna delle
passioni malvagie che tormentano l’uomo e non gli danno pace.
L’Uno (potete chiamarlo Dio, paramātma, Brahman, o Assoluto Universale)
è tutto amore, è tutta conoscenza, tutta saggezza, tutta dolcezza.
Raso vai sah: ‘Egli è dolcezza’ afferma l’upaniṣad1. Pertanto
non può esserci amarezza in Dio, o nella vera natura dell’uomo, dato
che l’uomo si è manifestato da Lui e per Lui!
Una capra non può nascere da una tigre. Ciò che emana da Dio deve
necessariamente essere divino; da qui deriva l’espressione
‘amṛtasya putraḥ’, ‘figlio dell’immortalità’, che sta a indicare l’uomo;
perciò l’ātma in lui, che proviene dal paramātma, è altrettanto immortale.
Le scintille che emanano dal fuoco hanno la stessa qualità di bruciare
del fuoco. Il corpo è il tempio di Dio ed è stato concepito affinché
Egli vi si stabilisse. L’uomo deve curare attentamente la manutenzione
del corpo fino al giorno in cui realizzerà il Dio in sé e arriverà
a capire che Egli è il mistero che lo eludeva mentre vagava nella
giungla del mondo.
[5] L’individuo potrà raggiungere quella consapevolezza solo tenendo
al guinzaglio la mente capricciosa e volgendola all’interno.
Śivarātrī vuole rammentare a tutta l’umanità l’obiettivo del rigoroso
controllo della mente. Secondo i saggi, la luna è la deità che presiede
alla mente, e anche la scienza moderna ha scoperto una sottile
relazione tra le divagazioni della mente e le fasi lunari. Nella metà
oscura del mese, la luna si vede sempre più sottile con l’avanzare
dei giorni e, simbolicamente, si può dedurre che anche la mente sia
in fase di regressione. Oggi è la quattordicesima notte della fase calante
e solo un piccolo spicchio di luna è rimasto a influenzare la
terra e la mente degli uomini. Un maggior sforzo nell’impegno spirituale,
compiuto in questa notte attraverso la veglia, i bhajan e il digiuno,
porterà a estinguere la mente; così saranno conquistate tutte
quelle tendenze e attitudini con le quali la mente invischia e coinvolge
l’uomo. In tal modo questa notte, rātrī, sarà sublimata nello
splendore celeste di Śiva.
Sforzatevi: questo è il vostro dovere! Abbiate un forte anelito: è il
vostro lavoro. Lottate: è vostro compito! Se lo farete sinceramente e
tenacemente, Dio non potrà impedirvi a lungo di raggiungere la ricompensa
della realizzazione.
Il fiume si sforza, anela e lotta per unirsi al mare da cui proviene;
nella sua coscienza ha sempre vivido e chiaro quel compimento,
perciò cerca di purificarsi e di rendersi cristallino in modo da essere
bene accolto dalla sua sorgente; infine supera ogni ostacolo che incontra
sul terreno per scorrere con successo verso la sua meta. Anche
l’uomo deve utilizzare tutti i talenti mentali, morali e materiali
che Dio gli ha donato per permettergli di procedere verso il traguardo
della realizzazione.
[6] Non lasciatevi fuorviare dal pensiero dell’esistenza di due entità:
questo mondo e l’altro mondo, qui e l’aldilà. Realizzate qui l’aldilà,
perché questo mondo è strettamente interconnesso con l’altro. Non
è veritiera l’apparente differenza tra il secolare e lo spirituale, il divino
e il materiale, il celeste e il terreno. In tutti i mondi, è il Suo
comando che opera; neppure un filo d’erba può muoversi senza la
Sua volontà che lo fa fremere e che governa il vento.
La lampada della vita è illuminata dalla corrente che fluisce dall’eterno
generatore universale che funziona secondo le Sue leggi, e
che scorre attraverso i cavi dell’amore. Quando quell’amore è mac-
chiato dall’egoismo, non può illuminare nulla. Ego è assenza
d’amore; amore è assenza di ego. L’ego prende e dimentica; l’amore
dona e perdona. L’amore non può mai nutrire l’idea di vendetta
poiché vede tutti gli altri come un unico Sé. Se la lingua viene morsa
dai denti, volete forse vendicarvi dei denti? No, perché anch’essi
appartengono a voi e sono parte integrante del vostro corpo.
Pertanto, se qualcuno v’insulta o vi fa del male, lasciatevi guidare
dalla saggezza. Cercate la verità e non affrettatevi a tirare delle conclusioni;
abbiate sempre l’amore come vostra guida.
Naturalmente è un compito difficile, ma non è oltre le capacità
umane. Un lavoro che possa concludersi senza uno sforzo tenace e
senza lotta non è qualcosa di cui andare orgogliosi. È la difficoltà
dell’incarico che lancia la sfida e fa emergere il meglio dell’uomo.
Intraprendete questo compito con fede e ardore, e tutto sarà più
dolce. Una volta raggiunta la vittoria, tutto il resto vi sarà dato in
più!

Śivarātrī, 16.02.1977