15 Ottobre 1977
Discorso Divino di Bhagavan Sri Sathya Sai Baba
Il vero sacrificio è interiore
[1] Le azioni dell’uomo lo elevano o provocano la sua caduta. Tutte
le azioni conformi ai principi della rettitudine meritano l’appellativo
di yajña1 o ‘rito sacrificale’. Ci sono due tipi di yajña menzionati
nei sacri testi: esteriore e interiore. La forma esteriore non è così importante,
ma viene riportata solo al fine di essere scartata: a cosa
serve un guscio senza il seme? Anche adorare il Signore mentre si
medita sul Suo nome e sulla Sua gloria è una forma di rito sacrificale
interiore. I riti in cui gli animali vengono sacrificati sull’altare sono
un atto esteriore, ma hanno un significato interiore. La mente è
l’ara sacrificale e gli istinti animali che ancora persistono nel carattere
devono essere distrutti sull’altare della mente. La mania di
grandezza che spinge l’uomo verso la cieca ricerca del potere è il
bufalo presente in lui che deve essere sacrificato. La folle stupidità
che travolge l’uomo e lo rende debole e arrendevole è la pecora che
deve essere eliminata. L’astuzia e la mente piena di stratagemmi
sono il gatto che va ugualmente sacrificato. Questo è il rito sacrificale
interiore di cui quello esteriore non è che un riflesso. Quando si
eseguono i riti esteriori, si deve tener conto del loro significato interiore:
è un peccato partecipare a cerimonie rituali senza essere consapevoli
del loro profondo significato.
L’uomo è passato attraverso numerose vite animali prima di arrivare
sulla terra in forma umana. Le espressioni di natura animale come
la crudeltà, l’ira, la cupidigia e l’odio persistono ancora in lui;
egli è tanti animali in uno: ha in sé lo sciacallo, il bufalo, la tigre e
l’elefante, quindi deve liberarsi di simili tratti. Quando un individuo
si intrattiene in controversie superflue e inutili su questioni che
vanno al di là della sua comprensione, rivela di essere una pecora;
quando salta da un’idea all’altra, da un ideale all’altro, da un progetto
all’altro senza esserne seriamente interessato, manifesta la natura
della scimmia. La natura dello yajña interiore può essere meglio
compresa esaminando la storia dell’imperatore Bali2.
[2] Bali era il nipote di Prahlāda, un famoso devoto del Signore.
Prahlāda subì una serie di torture disumane inflittegli da suo padre
che voleva costringerlo a rinnegare la sua fede in Dio.
Bali decise di compiere un rito straordinario chiamato ‘viśvajit
yajña’, che poteva essere intrapreso solo da un imperatore, il quale
avrebbe così riportato la vittoria su tutti i nemici e il potere sovrano
sui sudditi. Con tale rito, l’imperatore annuncia di essere il signore
indiscusso dell’impero che ha conquistato, quindi si libera degli
immensi tesori che ha accumulato con la forza e con le armi, distribuendoli
generosamente in carità ai vari settori della popolazione.
Bali era un regnante che teneva in gran conto il benessere e la prosperità
dei suoi sudditi; egli è il simbolo della capacità discriminante,
prājña3 śakti, mentre il Signore che andò da lui come Vāmana è il
simbolo della Divinità latente in ogni uomo. Quando quella Divinità
manifesta la Sua Onnipresenza, assume il triplice aspetto, trivikrama,
che con tre passi percorre e supera i tre mondi [grossolano,
sottile e causale].
Come offerta, Bali depose ai Piedi del Signore tutte le terre su cui
regnava, nonché il cielo stesso che egli esigeva come ricompensa
per i suoi atti di devozione e pietà.
[3] L’Incarnazione del Signore come Vāmana e la Sua manifestazione
come trivikrama è avvenuta in un luogo che venne in seguito
chiamato Siddhāśrama, la dimora della realizzazione. Questo fu il
luogo scelto anche dal saggio Viśvāmitra per compiere le sue auste-
rità. Viśvāmitra, che significa ‘Amico dell’universo’, non era solo un
grande saggio: era l’incarnazione della Volontà Suprema, iccā śakti.
La leggenda afferma che il Signore spinse Bali giù nelle regioni inferiori;
questo significa soltanto schiacciare l’ego sotto i piedi e farlo
cadere nell’oblio. Di solito si crede che l’esecuzione dei riti secondo
le prescrizioni vediche conferisca prosperità materiale e gioia celeste;
ma l’imperatore Bali rinunciò ai benefici materiali e alle gioie
illusorie, ed è il motivo per cui ottenne la grazia divina in misura
tale che il Signore stesso andò da lui per chiedergli la carità.
Ogni atto eseguito come offerta e dedicato a Dio è uno yajña, un rito
sacrificale. Manu, fondatore del genere umano e primo legislatore,
ha dichiarato che la prostrazione reverenziale fatta davanti alla madre,
al padre e al precettore è invero uno yajña.
[4] Durante l’impero di Bali, non c’era nessuno così povero da essere
costretto a chiedere l’elemosina. Gli stranieri che entravano nel
suo regno venivano ben nutriti e assistiti. Lo yajña è una pratica di
rinuncia e non deve essere portato alla luce solo saltuariamente e
poi lasciarlo inabissare. Lo spirito di rinuncia deve essere evidente
in ogni singolo atto della vita, e Bali era un chiaro esempio di rinuncia
costante e coerente. Quelli che vivono senza curarsi di condurre
una vita onesta sono simili ai corvi, quelli che adottano mezzi
sleali o subdoli per guadagnarsi da vivere sono simili allo sciacallo.
Malgrado Bali fosse nato in una famiglia rākṣasa (di demoni), aveva
acquisito un cuore puro, esente da odio e da orgoglio, e aveva dominato
l’ostinazione capricciosa della mente. Allora, come riconoscimento
della sua nobile natura, il Signore gli apparve nelle vesti
di un mendicante e gli chiese tre piedi di terra. Questa era solo una
richiesta simbolica poiché i tre piedi stavano a indicare i tre mondi
bhūr, bhuvaḥ, svaḥ4, i quali rappresentano il corpo fisico, mentale e
causale dell’uomo. I tre mondi non sono posizionati uno sopra l’altro,
o uno dopo l’altro; essi sono compenetrati l’uno nell’altro. Il
mondo grossolano visibile è il bhūloka, l’atmosfera vitale che lo circonda
è il bhuvarloka, e il mondo di ānanda o beatitudine che avvolge
il vitale è il suvarloka. L’uomo ha cinque involucri (pañcakośā5) che
lo racchiudono: l’involucro materiale e quello mentale sono compresi
nel bhūloka, il vitale e l’intellettuale sono compresi nel bhuvarloka,
e l’ultimo involucro (ānandamayakośa) composto di beatitudine,
o corpo causale, è il suvarloka.
[5] Il precettore di Bali era Sukrācārya che con lo studio e le austerità
aveva ottenuto una posizione di grande rispetto fra i monaci; egli
cercò tuttavia di ostacolare l’atto di rinuncia che Bali si era proposto.
Sukrācārya sapeva insegnare, ma non seguiva quello che insegnava
o raccomandava agli altri. Era un monaco assai rispettato, ma
aveva questo grande difetto. Proprio le persone che si professano
‘credenti’ promuovono negli altri l’ateismo e lo scetticismo, perché
non hanno fede nella validità di quanto professano e le loro azioni
sono in contrasto con le loro affermazioni. Molti studiosi inseguono
la ricchezza quand’anche la definiscono futile e temporanea, predicano
la devozione ma adorano il denaro; accusano gli altri di provocare
il declino del dharma, ma essi stessi ne sono la causa.
Quando Bali offrì al Signore i tre piedi di terra che Egli aveva richiesto,
il precettore Sukrācārya protestò e affermò che il Signore
era venuto per rovinare Bali e per derubarlo dei suoi possedimenti.
Ma il discepolo era più grande del precettore e rispose: “Se è il Signore
stesso che stende la mano per ricevere il dono, sono certamente
l’essere più fortunato della terra. La mano che crea e sostiene
l’universo è ora tesa davanti a me, e la mia mano sopra la Sua vi lascia
scendere il dono. Non trattenermi, sii felice che mi sia concesso
farlo. Rinuncerò al paradiso, all’impero e persino alla mia vita per
questa fortuna straordinaria.”
L’uomo cade a causa di apekṣā (attaccamento) e risorge grazie a
upekṣā (distacco). Così Bali raggiunse l’apice del distacco e il suo
precettore non riuscì a dissuaderlo.
Il rito sacrificale, viśvajit yajña, era solo il rituale esteriore; il vero sacrificio
interiore fu il grande atto di rinuncia e di abbandono compiuto
da Bali e offerto ai Piedi di Loto del Signore. Nel fuoco consacrato
del cuore egli versò, come offerta, la sua natura egoica; così
Bali emerse più umile e saggio, e si prostrò al Divino dentro di sé
che si era manifestato e incarnato nella forma di Vāmana.
Praśānti Nilayam, 15.10.1977, Inaugurazione dello yajña