1 Febbraio 1977
Discorso Divino di Bhagavan Sri Sathya Sai Baba
Il devoto Hanumān
[1] Hanumān1 riuscì a coordinare pensieri, parole e azioni, così ottenne
il grande privilegio di una forza fisica eccezionale, stabilità
mentale e di un carattere virtuoso; perciò brilla come un gioiello
prezioso tra i personaggi del poema epico Rāmāyaṇa. Egli fu anche
un grande studioso: padroneggiava le nove scuole di grammatica,
conosceva i quattro Veda e tutte le sacre Scritture.
La Bhagavad Gītā afferma che chi vede la stessa Forza Divina animare
e motivare tutti è un sapiente paṇḍit, e Hanumān diede un bell’esempio
di tale attitudine; non si vantò mai della sua conoscenza
ma fu l’immagine dell’umiltà, nata da una sincerità autentica e da
vera saggezza. Egli realizzò che ātmarāma2, il Principio o Realtà di
Rāma, illuminava ogni essere, e l’adorò sopra ogni cosa.
[2] Durante i loro spostamenti nella foresta in cerca di indizi su Sītā,
Rāma e Lakṣmaṇa, arrivarono al monte Ṛṣyamūka dove riposarono
un po’ in una valle ombrosa; erano abbattuti mentalmente e deboli
fisicamente. Il re dei vānara3, Sugrīva, e il suo fidato consigliere
Hanumān li videro dalla cima di una collina. Sulle prime, Sugrīva
temette che potessero essere gli inviati di suo fratello Vāli4 che gli
aveva giurato eterna vendetta, o delle sue spie che viaggiavano in
incognito. Hanumān si offrì di avvicinarli e di tornare con le giuste
informazioni sulla loro identità e sulle loro intenzioni poiché, disse,
saltare a delle conclusioni senza sufficienti informazioni è pericoloso.
Egli parlò gentilmente con Rāma e Suo fratello Lakṣmaṇa, e Rāma
rimase colpito dalla perfezione grammaticale del suo eloquio. I due
fratelli risposero prontamente a tutte le sue domande e Hanumān si
convinse della loro buona fede, così offrì loro di condurli dal suo re.
La visione di Rāma e Lakṣmaṇa aveva eliminato tutti i suoi peccati,
il contatto con loro aveva bruciato tutte le conseguenze delle sue
azioni delle vite precedenti, e la loro conversazione aveva colmato
la sua mente di gioia. Tale è l’esperienza di tutti coloro che danno il
benvenuto e accolgono il contatto con il Divino. Come risultato di
quell’incontro, Rāma e Sugrīva, che avevano in comune ansie e
problemi, divennero amici e capirono che i loro problemi si sarebbero
risolti con l’aiuto reciproco.
[3] Hanumān divenne quindi il messaggero di Rāma. Ci sono tre
categorie di messaggeri: i primi sono quelli che non comprendono
gli ordini del loro padrone o non se ne preoccupano, e agiscono
compromettendo il lavoro loro affidato; poi ci sono quelli che eseguono
quanto viene loro ordinato solo alla lettera e fanno il minimo
indispensabile; infine quelli che afferrano lo scopo e l’importanza
degli ordini ricevuti e li eseguono con determinazione fino a raggiungere
l’obiettivo. Hanumān apparteneva all’ultima categoria:
non si ritirava davanti a nessun ostacolo e si ripresentava per relazionare
solo quando era soddisfatto dell’esito dell’incarico: capiva a
fondo i comandi di Rāma e cosa significassero.
Non appena Hanumān riceveva un ordine, sentiva dentro di sé una
gran forza e la certezza che, avendo ricevuto quelle direttive, l’intelligenza,
la forza, il coraggio e l’audacia necessari gli sarebbero stati
accordati da Rāma stesso; pertanto, non aveva mai dubbi circa le
proprie capacità, ed era rinvigorito nel corpo e nello spirito dal solo
fatto che Rāma gli avesse chiesto di compiere qualcosa.
Un cavo elettrico è fatto di fili di rame rivestiti da una guaina di
plastica; per ottenere un buon risultato, entrambi devono essere di
ottima qualità. Allo stesso modo, il corpo e lo spirito devono essere
in buone condizioni, e la parola di Rāma li rendeva efficienti e attivi.
[4] La visione di Rāma conferiva a Hanumān un enorme potere e
una straordinaria forza fisica. Altrimenti come avrebbe potuto attraversare
con un balzo cento miglia di mare, impresa che neppure
Jāmbavān, Angadha e altri eroi vānara avrebbero osato affrontare, e
che invece Hanumān compì con la sola recitazione del nome di
Rāma?
La gioventù dell’India deve contemplare con speciale attenzione le
particolarità della vita di Hanumān. Egli non calcolava mai i pro e i
contro, le probabilità di riuscita, né come mai proprio lui fosse stato
scelto per una determinata missione. Quando Rāma gli chiese di
scoprire dove si trovasse Sītā, egli disse a sé stesso; “Perché mai dovrei
valutare le possibilità di successo o fallimento? Rāma mi ha
scelto e Sua è la responsabilità!” Decise quindi di pregare e di fare
del suo meglio.
Mentre volava verso Laṅkā, una collina si sollevò dal mare per offrirgli
ospitalità e riposo, ma egli rifiutò; un demone in forma di
donna sorse dal mare sfidandolo a lottare contro di lei, ma Hanumān
neppure la considerò e continuò il suo volo. Egli saettava
nel cielo come una delle frecce di Rāma; la fiducia in sé era la base
del suo coraggio, sulla quale eresse le pareti della soddisfazione di
sé e, infine, su quelle costruì il tetto dell’abnegazione e del sacrificio,
e visse in quella dimora godendo la beatitudine dell’auto-realizzazione.
[5] Ecco una bella dimostrazione della devozione di Hanumān per
Rāma. Dopo aver completato il ponte per Laṅkā, la notte prima di
attraversarlo, Rāma era sdraiato sulla spiaggia nella fresca e brillante
luce lunare insieme a Sugrīva, Hanumān, Vibhīṣaṇa, Jāmbavān,
Angadha, Nala, Nīla e altri. Era sdraiato e poggiava la testa in
grembo a Lakṣmaṇa quando, improvvisamente, chiese perché la
Luna avesse una macchia e cosa volesse indicare.
Ognuno azzardò una risposta: qualcuno disse che si trattava dell’ombra
della Terra, un altro pensò a una grande cavità o a una fenditura
sulla superficie lunare, e uno immaginò un grosso cumulo di
terreno. Rāma domandò a Hanumān, che era rimasto in silenzio,
cosa ne pensasse. Hanumān rispose che era il riflesso del volto di
Rāma sulla Luna, il volto che adorava. Egli aveva la straordinaria
fortuna di vedere Rāma in ogni cosa su cui posasse lo sguardo.
Hanumān è raffigurato come una scimmia, e le scimmie sono per
loro natura bizzose e giocherellone; ‘scimmiesco’ si dice di un comportamento
incostante e volubile. Hanumān però non mostrava alcuna
traccia di simili caratteristiche. Era di discendenza divina5 e
possedeva le qualità divine menzionate nella Bhagavad Gītā. Si
beava della contemplazione di Rāma, aveva pieno controllo sui desideri
fisici e sensuali e brillava di splendore atmico. Aveva basato la
sua vita su satya e dharma, verità e rettitudine, e guidava i suoi
compagni sulla stessa strada esercitando la forza dell’esempio.
[6] Dei tre guṇa, rajas (la passionalità) è la qualità da controllare attentamente
perché il suo primogenito è kāma, desiderio, lussuria. La
lussuria annientò Rāvaṇa6 sebbene fosse un grande erudito, un
guerriero, un imperatore, un eroe; la lussuria può travolgere e neutralizzare
tutte le buone qualità di un uomo e ridurlo al livello di
una bestia.
La seconda figlia di rajas è l’ira; la collera può sottrarvi il prezioso
scrigno della saggezza e ridurlo in frantumi. Di solito viene paragonata
al fuoco, anala, il cui nome sanscrito significa letteralmente
‘mai abbastanza’, ovvero insaziabile, poiché richiede sempre nuovo
combustibile per la sua fame illimitata.
Hanumān era privo di lussuria, e la sua ira non era del tipo ‘insaziabile’.
Per cercare Sītā, Hanumān dovette entrare nell’appartamento
delle donne nel palazzo di Rāvaṇa e guardare i volti delle
signore addormentate per confrontarli con le caratteristiche descritte
da Rāma. Si sentiva molto in colpa nell’affrontare questa
prova e si vergognava all’idea di mostrarsi nuovamente a Rāma
dopo tale esperienza, al punto di pensare perfino al suicidio. Consolato
dal pensiero che, in fondo, stava obbedendo a un ordine di
Rāma, continuò la sua ricerca. Hanumān considerava ogni donna
come sua madre, quindi cercava dove si trovasse sua madre, non
dove si trovasse Sītā. Questa è una buona lezione per i giovani
d’oggi.
[7] Durante la cerimonia d’incoronazione di Śrī Rāma ad Ayodhyā,
vennero consegnati dei doni ai ministri e agli ospiti importanti, ai
collaboratori e ai compagni di Rāma: Vibhīṣaṇa, Sugrīva, Jāmbavān,
Nala, Nīla e altri, ma a Hanumān non venne donato nulla.
Sītā, che più di chiunque altro aveva tratto beneficio dal suo eroismo
e dalla sua abnegazione, devozione e dedizione, se ne accorse e
ne fu dispiaciuta. Espresse i suoi sentimenti a Rāma che sedeva di
fianco a lei sul trono, e Rāma le disse di donargli quello che desiderasse.
Sītā si tolse la collana di perle e la pose nelle mani di Hanumān, il
quale subito prese a sfilare le perle e a morderle una ad una, per poi
sputarle disgustato! Sītā s’infiammò di rabbia e sussurrò a Rāma
che Hanumān non era altro che una scimmia. Quando gli chiesero
la ragione di quel comportamento, Hanumān rispose: “Stavo solo
esaminando se quelle perle potessero emettere il nome di Rāma, ma
non l’ho trovato in nessuna perla, e allora le ho buttate via. Se una
cosa non ha Rāma in sé, per me vale meno di un sasso.”
Agastya7, uno dei grandi saggi riuniti nella sala, si alzò e sfidò Hanumān
domandandogli: “Hanumān, tu dici che non indosserai, non
porterai con te né mangerai nulla che non risuoni di Rāma, però
porti con te sempre questo corpo, non è vero? Ti fa sentire forse il
nome di Rāma?” Hanumān accettò la sfida. Si strappò un solo pelo
dal polso e lo avvicinò all’orecchio del saggio: oh meraviglia! Esso
risuonava del nome ‘Rāma, Rāma’ senza sosta. Così profonde e sincere
erano la lealtà e la devozione di Hanumān a tutto quanto appartenesse
al suo Signore. Questa era la ragione dei suoi successi in
qualsiasi missione gli fosse affidata.
[8] Dopo le celebrazioni per l’incoronazione, Sītā, Rāma e i suoi fratelli
si riunirono a ricordare le vicende trascorse, e Bhārata e Śatrughna
espressero il desiderio di svolgere un più vasto servizio a
Rāma. Venne perciò stilata una lista di tutte le attività di servizio
che si potessero offrire a Rāma, e tutti gli incarichi vennero divisi tra
i presenti.
In quel momento Hanumān era assente, e quando arrivò gli comunicarono
con fare allegro che per lui non c’erano più occasioni per
servire Rāma poiché tutti i compiti erano ormai stati assegnati; anche
Rāma si mostrò divertito. Hanumān invece ne fu terribilmente
colpito e pregò di rivedere la lista e di concedergli qualche possibilità
di servizio, seppur piccola, che potessero aver trascurato. Gli risposero
che erano certi di non aver dimenticato nulla e gli mostrarono
la lista degli incarichi.
Hanumān poté fortunatamente scoprire così che un incarico non era
stato elencato. Quando qualcuno sbadiglia, si usa schioccare le dita
davanti alla bocca; di regola, chi sbadiglia lo fa da sé, ma nel caso
dell’imperatore di Ayodhyā sarebbe stato sconveniente, quindi Hanumān
pregò che gli fosse assegnato l’incarico di schioccare le dita
quando Rāma avesse sbadigliato.
Tutti furono d’accordo poiché pensavano che tali occasioni sarebbero
state molto rare, ma per Hanumān fu una vera grazia perché da
quel momento avrebbe guardato sempre il volto di Rāma, tenendo
le dita pronte a compiere quel gesto che era diventato il suo dovere.
Anche questo avvenne per grazia di Rāma, poiché cosa può accadere
senza che Egli lo sappia e lo voglia? Chi può tenere il devoto lontano
dalla presenza di Dio? Con tale episodio, Rāma dimostrò che
nessuno può contrastare il Suo desiderio e frapporsi tra Lui e il Suo
devoto.
Bṛndāvan, 01.02.1977