30 maggio 1974
Discorso Divino di Bhagavan Sri Sathya Sai Baba
Amabile e terribile
yā te rudra śivā tanūraghorā pāpakāśinī
O Rudra! Tu hai assunto una forma benigna
che distrugge i nostri peccati.
(Śrī Rudram namakam)
[1] Prajāpati1, il Signore delle creature, divino ispiratore dei Veda,
ha due nature, due nomi, due forme, due caratteristiche: quella
terribile conosciuta come Rudra e quella amabile nota come Śiva.
Quando l’Incarnazione divina di Narasiṁha, l’uomo con la testa
di leone, emerse dalla colonna nella sala delle udienze di Hiraṇyakaśipu,
il suo figlioletto Prahlāda lo vide tenero, incantevole
e compassionevole poiché era pieno di devozione per Dio. Il padre,
invece, che ignorava Dio, osava insultarlo e faceva del male ai
Suoi devoti, vide davanti a sé una forma terrorizzante foriera di
totale distruzione. Mentre Prahlāda danzava in estasi, Hiraṇyakaśipu
tremava di sgomento. È chiaro che l’uomo vede nell’Uno e
unico Dio i due opposti di terrore e amabilità, ovvero vede i riflessi
della sua stessa predisposizione mentale.
Il Dio unico si manifesta in questi due aspetti affinché il mondo
possa essere sostenuto e protetto, migliorato e purificato. Le due
caratteristiche, terribile e amabile, si trovano insieme in ogni singola
cosa sulla terra: non sono tutte parti dello stesso Dio?
Considerate il cibo: esso esprime l’aspetto di Śiva quando viene
assunto intelligentemente e in quantità moderata, ma può manifestare
anche l’aspetto distruttivo di Rudra, dagli effetti devastanti,
se preso in eccesso e in modo non intelligente. Qualsiasi cosa o
pensiero che si opponga al sorgere della beatitudine, qualsiasi situazione,
esperienza o idea di questo tipo è Rudra; ogni passo fatto
verso la limitazione, la regolazione, il controllo, il progresso, la
sublimazione, è Śiva perché è amorevole, favorevole, proficuo,
benefico.
Il desiderio che assilla l’uomo rende una determinata cosa, come
ad esempio il cibo, benefica oppure dannosa. È la mente che determina
il desiderio e lo dirige. Un coltello affilato può essere utilizzato
per affettare un frutto o come pugnale; nelle mani di un
chirurgo può salvare una vita, invece che annientarla. La mente
può liberarvi dalla schiavitù, oppure legarvi ancor più strettamente
al mondo degli oggetti.
[2] Dio è onnipresente, è l’Animatore interiore di ogni essere, perciò
dobbiamo contemplarlo come Residente della mente della quale
detiene il controllo. Se Egli la manovra a nostro beneficio, possiamo
chiamarlo Śiva; se per gioco o di proposito la volge a nostro
sfavore, lo chiamiamo Rudra.
Occorre però sottolineare un punto: non dobbiamo identificare
Dio come Śiva quando siamo felici, e come Rudra quando siamo
afflitti, poiché felicità e sofferenza non sono due esperienze distinte:
l’assenza dell’una significa la presenza dell’altra. La felicità incondizionata
è una chimera; il piacere è l’intervallo tra due momenti
di dolore, e il dolore è la pausa tra due momenti di piacere.
Dio assume o sembra assumere l’aspetto terribile solo per assicurare
il benessere dell’umanità e la felicità dei mondi. Nei poemi
epici e nei Purāṇa si narra che Dio abbia sottoposto asceti e aspiranti
a varie tentazioni e tribolazioni lungo il loro cammino, dimostrando
così di essere crudele o vendicativo, oppure decisamente
malevolo. No! Dio non ha alcun desiderio di ostacolare o di ritardare
il progresso spirituale dei devoti, e non è neppure preoccupato
che gli possano creare dei problemi nel caso dovessero avere
successo nella loro disciplina. Egli è desideroso di concedere loro
la vittoria che si sforzano di raggiungere: questo è il motivo per
cui li sottopone a varie difficoltà e prove.
Essendo studenti, sapete molto bene che l’università ha stabilito
certi esami al termine di ogni anno accademico. Ritenete che questo
sistema sia da attribuire al desiderio di perseguitarvi, o che sia
un segno di disapprovazione? Sapete bene che gli esami si tengono
affinché voi possiate essere promossi!
Asceti e aspiranti vengono messi alla prova da Dio solo per poterli
promuovere. Invece di accettare quelle prove come segni della Sua
attenzione e del Suo amore, la gente si dispera e grida sfiduciata:
‘Oh Dio! Non possiamo sostenere queste prove,’ proprio come gli
studenti si lamentano: ‘No, non vogliamo gli esami!’ Allora com’è
possibile valutare il progresso e riconoscere i risultati ottenuti?
Chi pilota un aeroplano, chi guida un’automobile o comanda una
nave deve possedere gli attestati che provino il raggiungimento
delle necessarie competenze, e sarà certamente esaminato prima
che questi certificati siano rilasciati. Gli aspiranti spirituali che
protestano e si lagnano quando devono affrontare le prove, si dimostrano
solo indegni di raggiungere posizioni più elevate, come
se fossero soddisfatti di restare dove sono.
[3] La storia dell’imperatore Śibi è un chiaro esempio di questa verità.
Sebbene disponesse di potere, autorità, prosperità e ricchezza,
Śibi era un autentico aspirante che aveva raggiunto grande distacco
e spirito di rinuncia. Dio decise quindi di verificare se i suoi
conseguimenti fossero davvero radicati e incrollabili. Agni, il Dio
del fuoco, e Indra, il re degli Dei, assunsero le forme rispettivamente
di una colomba e di un falco. Così il falco inseguì la colomba
nel cielo finché quest’ultima, implorando protezione, cadde
spaventata in grembo a Śibi che era seduto sul suo trono.
Coerente con il suo dharma, Śibi diede la sua parola che avrebbe
salvato la colomba e le avrebbe concesso piena protezione; ma, a
quel punto, il falco si presentò davanti all’imperatore richiedendo
la sua legittima preda e si lamentò dicendo: “Ho fame! Avevo trovato
del cibo, ma tu me ne hai privato. A cosa serve la tua tanto
decantata spiritualità se poi mi porti via il pranzo?” Allora Śibi replicò:
“Taglierò dal mio corpo un pezzo di carne che pesi quanto
questa colomba, così tu potrai saziare la tua fame.”
Il falco acconsentì. Fu portata una bilancia e su uno dei due piatti
fu posata la colomba mentre sull’altro vennero messi i pezzi di
carne tagliati dal corpo di Śibi; ma per quanta carne vi posasse, il
piatto su cui stava la colomba non si alzava! Era un mistero come
un uccello potesse pesare così tanto!
Infine, Śibi dichiarò: “Allora, puoi prendere tutto, mangiami tutto.
Sono qui a tua disposizione.” Appena pronunciate queste parole,
il falco prese le sembianze di Indra e la colomba si trasformò in
Agni, in tutto il loro splendore divino. Felici della profondità dello
spirito di rinuncia di Śibi, lo benedissero generosamente e scomparvero.
Sebbene Indra e Agni abbiano potuto apparire terribilmente crudeli
per il loro comportamento nei confronti di Śibi, in realtà era
stata solo una prova per dargli l’occasione di esprimere le sue
straordinarie qualità di autocontrollo, compassione e carità.
[4] Nel Mahābhārata troviamo una bella storia che illustra lo stesso
tema. Il fatto che Dio possa assumere un aspetto terribile al fine
di verificare i conseguimenti raggiunti, e stabilire la validità dei
risultati ottenuti, è ben rappresentata dalla storia di Mayūradvaja.
I Pāṇdava celebrarono l’aśvamedha2 yāga, il ‘sacrificio del cavallo’.
Come richiesto dal rito, misero in libertà il cavallo prescelto affinché
potesse correre in lungo e in largo, in tutto il Paese. Chiunque
avesse fermato e trattenuto il cavallo, avrebbe sfidato in combattimento
colui che aveva indetto il sacrificio; perciò quest’ultimo
avrebbe dovuto riconquistare il cavallo sconfiggendo l’audace oppositore.
Mayūradvaja, che era un grande devoto di Kṛṣṇa, un governante
virtuoso, un saggio di grande compassione e conoscitore dei Veda,
trattenne il cavallo. Arjuna, l’eroe dei Pāṇdava, decise di affrontarlo
in battaglia, ma Kṛṣṇa lo consigliò di desistere, poiché desiderava
dimostrare ad Arjuna la devozione di Mayūradvaja, che era
ben superiore alla sua. Inoltre, Kṛṣṇa desiderava dimostrare a tutti
quali vette di verità e di abnegazione Mayūradvaja potesse raggiungere.
Pertanto, Kṛṣṇa propose ad Arjuna di andare insieme al palazzo di
Mayūradvaja per cercare di ottenere un pasto, fingendosi due
bramini. Essi vennero accolti dal re che offrì loro una sontuosa
ospitalità ma, prima che potessero mangiare il primo boccone,
Kṛṣṇa fermò tutti con un colpo di scena e recitò una dolorosissima
storia.
“Oh generoso imperatore, ascolta! Mentre attraversavamo la foresta,
sul limitare del tuo impero, una tigre ha catturato il giovane
figlio del mio compagno e, prima che potessimo raggiungerla,
aveva già divorato metà del suo corpo. Quando la bestia udì il nostro
pietoso appello, promise di rilasciare il ragazzo e di rendercelo
vivo, purché fosse sostituito da una metà del corpo del puro e
santo imperatore Mayūradvaja. Come possiamo godere della tua
ospitalità con simile angoscia nel cuore? Prometti di dare alla tigre
metà del tuo corpo in cambio di quello intero e vivo del ragazzo
bramino, e allora potremo accogliere la tua ospitalità!”
[5] Mayūradvaja accettò ben volentieri e, terminato il pranzo, si
sedette sul pavimento e diede istruzioni alla regina e al figlio di
segare il suo corpo in due metà. Essi gli misero la sega sulla testa
per iniziare a tagliare. I due bramini, che osservavano l’operazione,
si accorsero che dall’occhio sinistro del re scendeva qualche lacrima.
Allora Kṛṣṇa dichiarò: “Tu ci stai dando il dono promesso
versando delle lacrime, non con incondizionata generosità. Non
posso accettare nulla che sia dato piangendo!”
Mayūradvaja replicò: “Signore, se io esitassi o fossi riluttante, entrambi
gli occhi dovrebbero piangere, non è vero? Ma è solo l’occhio
sinistro che piange, e la ragione è questa: la metà di destra del
corpo sarà utilizzata per uno scopo altamente sacro, per salvare
una persona da morte crudele, ma cosa accadrà alla sinistra? Sarà
gettata via, divorata da cani e avvoltoi? Perciò la sinistra piange,
mentre la destra esulta di essere utilizzata per uno scopo meritorio.”
A quel punto, Kṛṣṇa si manifestò a Mayūradvaja in tutta la Sua
gloria e maestà e lo benedisse assicurandolo che egli avrebbe
sempre avuto Kṛṣṇa nel cuore e che sarebbe stato sempre felice e
beato. Anche Arjuna comprese che c’erano devoti di Kṛṣṇa ben
più avanti di lui, così il suo orgoglio venne mortificato, mentre
l’umiltà di Mayūradvaja ottenne il dovuto riconoscimento.
[6] Testi simili illustrano vari esempi della grazia di Dio, e non della
Sua ira. L’aspetto terribile di Dio non è terrificante nella sua essenza,
infatti nelle scritture è descritto così: ‘Egli è pura dolcezza.’
Come può la dolcezza diventare amara? La Divinità è uno specchio
immacolato: voi vi vedete il vostro stesso riflesso. Se siete inclini
a diffondere terrore, il riflesso che vedrete vi trasmetterà terrore.
Se siete inoffensivi e predisposti alla dolcezza, il riflesso sarà
amabile e gentile.
Non date la colpa alla Divinità, come sareste inclini a fare. Quando
tutto va bene, dite che Dio è venuto vicino a voi; ma se qualcosa
va storto, asserite che Dio vi ha abbandonato e si è allontanato!
Egli non si muove, non va né vicino né lontano; la distanza tra Lui
e voi è pari alla distanza che c’è tra voi e Lui. Egli è ovunque, è
sempre nel vostro cuore. Riconoscetelo lì, realizzate che Egli è
quello più vicino a voi. È il vostro stesso Sé, né terribile né dolce:
Egli semplicemente È.
Bṛndavan, 30.05.1974