10 Ottobre 1974 – Il rito vedico

10 Ottobre 1974

Discorso Divino di Bhagavan Sri Sathya Sai Baba

Il rito vedico

[1] Ognuno di voi deve essere orgoglioso di essere nato in questo
Paese, noto come la Terra santa dello yoga (comunione con il Divino),
di tyāga (sacrificio e rinuncia) e del karma (l’azione dedita a
Dio). Voi siete i figli della Madre Veda che vi ama tanto teneramente
da avervi chiamato qui ad assistere a questo grande rito sacrificale
vedico. Dio ama la terra di Bhārat, infatti si è incarnato
molte volte qui come avatār e anche oggi, in questo Paese, svolge
la Sua missione di ripristino del dharma in mezzo a gente che ignora
la rettitudine. Anche l’attuale rito vedico fa parte di quel Suo
grande compito.
È un peccato che l’India, che si è guadagnata un’illustre rinomanza
in campo spirituale, sia oggi impegnata in una danza demoniaca
di vizio e perversione, che come sottofondo ha la falsità, l’ingiustizia,
l’odio e la faziosità, tanto che il Paese è immerso nell’ansia
e nella paura. Pertanto, ora è necessario accendere la lampada
dell’amore e della speranza e infondere coraggio e fiducia sia con
il precetto sia con l’esempio.
[2] I Veda costituiscono le vere radici della cultura bhāratīya. Perciò
è dovere di ogni figlio dell’India osservare i riti, le ingiunzioni e le
direttive stabiliti dai Veda. Molti hanno l’abitudine di domandare
quale sia lo scopo di tali regole e che cosa possano ricavarne. Bene,
voglio rispondere loro che l’unico obiettivo dei Veda è rendere
l’uomo divino attraverso varie discipline spirituali e condurlo dal
livello animale, in cui egli crede di essere solo il corpo che soffre la
fame, la sete e desideri diversi, allo stato umano, in cui riconosce
che è ben oltre il livello animale; infine i Veda lo persuadono a utilizzare
l’intelligenza e il discernimento per sublimare le sue passioni
ed emozioni, ottenendo così lo stato divino in cui sarà immerso
nella beatitudine eterna.
I Veda approfondiscono il sanātana śāstra, la scienza eterna dello
spirito. Comprenderla bene e metterla in pratica costituisce il dovere
di ogni uomo verso sé stesso. Quella scienza promuove l’eliminazione
dell’ignoranza e l’acquisizione della conoscenza, non
quella secolare che muta e viene superata dopo pochi anni, ma
quella conoscenza che è la chiave di accesso all’intera gamma del
sapere per conseguire ‘Quello che una volta conosciuto, tutto il resto
è conosciuto!’
Ecco perché i Veda sono chiamati con tale nome che significa
‘quello che vi fa conoscere’.
Il Principio cosmico è sensibile alle formule mistiche e ai suoni che
i mantra vedici esprimono; i quattro obiettivi fondamentali dell’uomo:
dharma, la rettitudine, artha, la ricchezza, kāma, il desiderio,
mokṣa, la liberazione dall’ignoranza della visione duale, ebbene,
questi quattro obiettivi vengono santificati e sviluppati seguendo
il sentiero vedico. La forma fisica di Dio può essere adorata
mediante gli yantra, strumenti materiali, ma la Sua forma spirituale
deve essere propiziata mediante i mantra.
[3] Per quel che riguarda il rituale che inauguriamo oggi, noterete
che quando le offerte sacrificali sono versate nel fuoco, i paṇḍit
pronunciano la parola svāhā1 tutte le volte che compiono il gesto
dell’oblazione. Essi spiegano che questa parola deve essere pronunciata
per permettere che l’offerta venga totalmente consumata
dal fuoco. La natura del fuoco è proprio quella di bruciare, quindi
non c’è bisogno di evocarlo in quel modo, non è ragionevole asserire
che il fuoco debba essere pregato per indurlo a comportarsi
così. In realtà, la parola svāhā è pronunciata per glorificare l’energia
e lo splendore latenti nel fuoco e invocare il tejas divino, quel
fulgore che permette al fuoco di risplendere e purificare.
Agni, il Divino che presiede al fuoco, viene invocato affinché possa
convogliare l’offerta al particolare Dio cui il rito è dedicato, usando
le espressioni: ‘indrāya svāhā, keśavāya svāhā, rudrāya svāhā, varuṇāya
svāh’. Indra, keśava, rudra e varuṇa riceveranno l’oblazione
per mezzo di agni solo quando il Dio del fuoco è invocato attraverso
il termine svāhā. Non solo il fuoco è divino, ma tutti gli elementi
lo sono. Nella creazione non esiste nulla che non sia divino.
Kālidāsa2, nella sua opera chiamata Kumāra-sambhavam (‘nascita di
Kumāra’, figlio di Śiva e Parvati), si rivolge all’Himālaya e considera
divini i suoi torrenti, picchi, ghiacciai e alberi, quali simboli e
segni dell’immanente Divinità. Il fuoco, che dona calore e luce, è
considerato il principio essenziale, il respiro vitale per ogni essere
ed elemento.
[4] C’è un altro punto sul quale vorrei far luce ora. Si afferma:
‘ananto vai vedāh – i Veda sono infiniti’. Un dubbio potrebbe sorgere
sul fatto che innumerevoli Veda siano necessari per esporre la
via del progresso spirituale. Vi faccio un esempio. Per far comprendere
a un bambino il significato di una parola, il genitore o
l’insegnante spesso si avvale di una quantità di altre parole. Spiegare
significa elaborare, ripetere, evidenziare. Per rendere chiari i
concetti a uomini di intelligenza media o scarsa, si rese necessario
avere un numero di testi e scritture supplementari e, dal momento
che il loro numero è immenso, vennero definiti ananta, innumerevoli,
infiniti. L’obiettivo dei Veda, per quanto numerosi e diversi
siano, è sempre il medesimo: condurre l’uomo dallo stato animale
a quello umano, fino alle altezze della sua realizzazione divina.
[5] Dall’Assoluto Universale si manifestò il Brahman, il Principio
Cosmico. Dal Brahman ebbe origine il karma fondato sulle prescrizioni
vediche. Questo tipo di karma è gradito agli Dei che mandano
la pioggia e avvisano Parjanya, il Dio della pioggia, di benedire
il mondo e la sua popolazione.
Per effetto della pioggia, le colture crescono e il cibo è disponibile
per essere consumato. Attraverso il cibo l’uomo ottiene salute, forza
e vitalità e, come conseguenza della vitalità, si riproduce e si
moltiplica. Ecco qui il ciclo, secondo i Veda: karma, pioggia, cibo e
fecondità.
Riti elaborati, come quello attuale, sono celebrati per invocare le
piogge tempestive, le stagioni regolari, la pace e la prosperità per
il mondo intero.
È l’azione o attività che rivela se l’individuo e la società siano
buoni o cattivi. Il termometro misura la temperatura del corpo e
dimostra se sta bene o male. Analogamente, il karma indica il carattere
interiore. Osservando le azioni di un uomo, le motivazioni,
le conseguenze e l’intensità del coinvolgimento, si può capire se
sia un animale o se sia, invece, il Signore degli esseri, se sia cioè
divino come Dio stesso.
[6] Il rito sacrificale vedico, kratu, è anch’esso karma, ma è karma
vedico dedicato a ottenere il benessere del mondo. Tutto il karma
svolto per assicurare il bene del prossimo senza alcuna aspirazione
ad acquisire vantaggi personali, è un buon karma che gli Dei
apprezzano come kratu. Le conseguenze negative, che sicuramente
vi colpiranno se avete commesso delle cattive azioni, possono essere
contrastate impegnandovi in attività benefiche, acquisendo
così dei meriti.
Oggi non si compie alcun tentativo di contrastare il male con il
bene, e quindi la nazione sta andando alla rovina. Come può risollevarsi?
Il Paese non è solo un pezzo di terra segnato su una mappa,
ma è un insieme di uomini, donne e bambini, uniti insieme da
tradizioni e da modi comuni di vivere e pensare, trasmessi e considerati
preziosi da generazioni di patrioti e guide spirituali.
[7] Una volta, poiché il vizio della cupidigia e della vanità si erano
sviluppati senza controllo fra gli uomini, i Veda erano così offesi e
infuriati che presero la forma di un’antilope nera che fuggì nella
foresta; si dice poi che i paṇḍit, i saggi e gli studiosi la inseguirono
e la pregarono con insistenza, ma essa non fece ritorno. I saggi furono
costretti a tornare indietro con la sola pelle dell’antilope e ad
accontentarsi di quella. I preti bramini che celebrano questo e altri
riti vedici indossano, come potete vedere, parti di pelle di antilope
nera per premunirsi contro la ripetizione di quella catastrofe, e si
siedono anche su pelli di antilope.
Ogni atto e gesto, ogni accento e tono dei mantra ha un significato
attribuibile a un lontano passato e alle esperienze dei fautori della
nostra cultura. La pelle, in sanscrito, si chiama carma, ma indossata
durante i rituali dona sarma, che significa gioia ed entusiasmo.
[8] Il termine yajña, come sapete, significa sacrificio, rinuncia. Lo
yajña celebrato qui non ha un desiderio particolare da soddisfare.
L’obiettivo è quello di assicurare pace e prosperità non a un individuo,
a una regione, a una comunità o nazione, bensì a tutta
l’umanità.
Gandhi era solito girare per il Paese pregando: “Oh Signore, dona
a tutti una buona intelligenza!” Voi che siete qui presenti al rito,
dedicato al bene dell’umanità, dovete pregare in modo analogo e
intrattenere solo pensieri buoni e nobili, in modo che il mondo
possa trarre beneficio dal vostro esempio.

Praśānti Nilayam, 10.10.1974