[1] Ognuno si è incarnato in questo mondo fatto di gioia e dolore, crescita e morte, speranza e disperazione, per scoprire la via che conduce a casa, per ritornare alla sorgente dalla quale si è allontanato perdendosi in questa giungla selvaggia. Questo deve essere compiuto nell’arco di tempo che ci è stato assegnato per il nostro soggiorno sulla terra e del quale, ogni giorno, il Sole ci sottrae una frazione. L’uomo, tuttavia, è attirato dalle luci illusorie, dai rumori di questa giungla e dall’apparente dolcezza del suo influsso, così ignora la chiamata del destino. I sensi lo portano sempre più in basso in un labirinto intricato, finché muore con un lamento e un misero pianto invece che con un sorriso e un gesto di gratitudine. Gli anni tra la nascita e la morte sono trascorsi in acquisizioni inutili e conseguimenti senza valore perché, per tutto il tempo, il suo cuore è infiammato da desideri insoddisfatti e da emozioni nocive che turbano la pace, che è invece la sua vera realtà. Tale è l’illusione che perseguita l’uomo, la māyā che cela la Divinità che è la sua vera essenza. Coltivando il distacco, negando ai sensi le emozioni di cui sono assetati, immergendovi nella profondità del vostro essere, potrete cogliere l’estasi di quella pace. Questa è la moralità più sublime poiché, quando ciò avviene, l’uomo si colma d’amore e perde ogni traccia di malizia, odio, cupidigia o lussuria. La visione è purificata dall’ideale di unità di tutti nell’Uno e dall’espansione dell’Uno in tutti. Le inclinazioni all’odio, alla cattiveria e all’avidità, che causano conflitti individuali e sociali, possono essere superate con lo yoga e con la rinuncia, con la pratica dell’imperturbabilità emotiva, con la riduzione dei desideri e delle bramosie mentali. Questo è il messaggio che, nel corso dei secoli, Bhārat ha tramandato mediante chiari precetti ed innumerevoli esempi.
[2] L’impressione che l’azione sia ‘mia’, che venga eseguita per ottenere vantaggi e che sia attribuita a ‘me’, è l’attitudine che causa ostilità, sofferenza e malattia. L’ego esulta o si lamenta, ride o piange, combatte o si deprime, oscilla come un pendolo fra gioia e dolore, non lascia un momento di pace o di equanimità; si agita se il frutto dell’azione è inferiore alle sue aspettative, o anche se è superiore, differente o distorto. Per questo le Scritture prescrivono di dedicare ogni attività a Dio. Egli sa bene quali siano i benefici meritati e ne elargisce i frutti secondo la Sua Volontà. Molti, però, dubitano o contestano l’esistenza di Dio stesso. A Lui bisogna offrire, come atto di adorazione, l’intelligenza, l’energia vitale, la virtù e le pulsioni che spingono all’attività. A coloro che hanno dubbi sul Divino, a volte Dio si rivela per Sua grazia attraverso meravigliose manifestazioni della Sua gloria che trascendono i limiti dell’umana comprensione. Chi dubita riceve senza chiedere, la porta si apre senza neanche bussare, la risposta è proclamata affinché tutti l’ascoltino. Ad esempio, prendete la recente malattia che ha colpito questo corpo. È tipico del corpo umano avere disturbi causati dal consumo di cibo inadatto o da abitudini sbagliate; questo spiega i malanni che colpiscono gli uomini, ma non la malattia di cui siete stati testimoni negli ultimi due giorni. Quella era una malattia che ho assunto su di Me per Mia volontà per dare sollievo ad una persona che non avrebbe potuto sopravvivere e neanche sopportarla senza gravi conseguenze; infatti questo è uno dei motivi per cui la Divinità si è incarnata, cioè per elargire la grazia ai devoti. L’appendicite si era infiammata e si era trasformata in un ascesso; i medici avevano detto che bisognava intervenire subito chirurgicamente. Il devoto non avrebbe potuto sopportare un dolore così acuto. Io sono venuto con questo corpo per salvare gli altri corpi dal dolore. Questo corpo sarà sempre immune da malattie e sofferenze, la malattia non potrà mai colpirlo. Questa è la pura verità.
[3] Un giorno Krishna aveva un terribile mal di stomaco! Il saggio Nārada si rese conto del grande dolore dell’Avatār e ne rimase turbato al punto che pregò Krishna di mandarlo a prendere il medicinale che avrebbe potuto curarlo. “C’è un solo rimedio che può placare il male, ma riuscirai a portarmelo?”- domandò Krishna. Nārada rispose: “Dimmelo e lo farò subito.” Krishna aggiunse: “Portami la polvere dei piedi di un vero devoto, quella metterà fine alla Mia sofferenza.” Nārada s’affrettò per procurarsi la polvere ma, arrivato alla porta, si fermò e si rese conto di essere anch’egli un sincero e fervente devoto, quindi tornò indietro e disse al Signore che avrebbe potuto utilizzare la polvere dei suoi stessi piedi. Ma il Signore osservò: “No, no. L’egoismo ha macchiato la tua devozione, così anche il rimedio ne sarebbe contaminato.” Nārada, allora, fu costretto a cercare un vero devoto, ma tutti quelli che incontrava sollevavano delle obiezioni e nessuno di loro gli diede la polvere! Qualcuno era intimorito, alcuni si vergognavano, molti pensavano che fosse un sacrilegio, altri asserivano di non essere devoti, ma solo aspiranti alla grazia. A quel punto Nārada si recò a Brindavan dove c’erano le semplici gopī. Egli raccontò loro della sofferenza di Krishna ed esse, in pochi secondi, raccolsero la polvere dei loro piedi; così in un baleno le mani di Nārada furono piene di sacchetti. Quelle donne lo esortarono: “Affrettati, in modo che il Suo dolore possa cessare!” Le grette idee di superiorità o inferiorità, di vergogna o di timore non avevano neppure sfiorato la loro mente. “Il Signore soffre e deve essere curato!” – era tutto quello che sapevano e di cui si preoccupavano. Non si soffermarono a indagare se Krishna stesse patendo veramente, se la polvere dei loro piedi avesse delle proprietà curative o se la missione di Nārada avesse un significato più profondo per loro e per il mondo! Le gopī ascoltarono, donarono, pregarono e furono felici; provarono lo stesso dolore che aveva Krishna e risposero al Suo comando. Esse rimasero turbate dalla malattia del Signore e la loro reazione fu la medesima per tutte: sincera e sollecita.
[4] Abbandonate i vostri giudizi a Dio, allora il Signore si assumerà la piena responsabilità e sarà il custode, la guida e il promotore. La persona che ho salvato prendendo la sua malattia su di Me è un devoto che ha abbandonato tutto a Me, anche i suoi giudizi. Ora i sintomi della sua malattia sono scomparsi e non ritorneranno più. C’è anche un’altra ragione che si cela dietro questo episodio. Chi è dotato di talenti riconosce Dio come l’immenso, il magnifico, il meraviglioso, il potente, il maestoso, il grandioso; la maggior parte dell’umanità, invece, raramente prende coscienza che ogni uomo è un miracolo sostenuto da Dio, che ogni respiro è un’evidenza della Provvidenza divina, che ogni evento è un segno della Sua presenza. Quando questo corpo, apparentemente umano, si comporta in modo tale da mostrare poteri sovrannaturali, lo stupore attira l’attenzione di tutti verso il Divino. Di tanto in tanto è necessario impartire questa lezione all’umanità, in modo che la fede in Dio e la capacità di riconoscere la Divinità siano aggiunte alle facoltà umane. Solo allora la mente dell’uomo riuscirà a distogliersi dal mondo e a rivolgersi al Signore dei mondi. Martedì scorso, i cittadini di Goa che si sono radunati in città per ascoltarmi sono rimasti delusi; ho dovuto informarli che salvare i devoti è un dovere sovrano, e so che sono andati via dispiaciuti. Molto presto li incontrerò di nuovo e donerò loro l’estasi che anelano.
Cabo Raj Nivas, Goa, 12.12.1970