[1] Stamani celebriamo Samāpti, la conclusione della festività di Dasara, ovvero la funzione finale del rito sacrificale di sette giorni. Sama significa Brahman e Āpti vuol dire ‘compimento’, pertanto Samāpti non significa semplicemente la fine del rituale, bensì il buon esito del rito conclusosi. Entrambe le parole yajña e yāga si traducono come ‘sacrificio’, che è il proposito primario del rito. Si sacrificano ricchezze, agi, potere, tutto quello che stimola l’ego, per fondersi nell’Infinito che è il conseguimento ed il fine. Questi riti sono utili perché sostengono l’ideale del sacrificio e condannano l’acquisizione, attribuiscono importanza alla disciplina piuttosto che allo svago, insistono che la mente, la lingua e le mani siano concentrate sulla Divinità. I cinici contano i sacchi di cereali, i chilogrammi di burro chiarificato, i quintali di combustibile [consumati durante il rito], e in cambio chiedono ancor più sacchi, più chilogrammi e più quintali di felicità! Gli effetti del rito sul carattere e sulla coscienza non si possono misurare né pesare in metri o in grammi, è qualcosa d’incommensurabile, sebbene sia reale e di facile sperimentazione. Per di più, i cinici non calcolano il burro, i cereali ed il combustibile che essi stessi hanno consumato senza dare alcuna gioia in cambio. Il burro chiarificato e i semi offerti nel fuoco sacro, accompagnati dalle sacre formule vediche, daranno una resa mille volte superiore: puliranno e rafforzeranno l’atmosfera in tutto il mondo. Se così non fosse, l’Avatār non incoraggerebbe né riproporrebbe questi riti sacrificali.
[2] Voi ringraziate se qualcuno vi offre una tazza di caffè; ma quanto più grati dovreste essere a Dio che vi ha donato questo universo colmo di meraviglie in cui vivete, e questo corpo così complesso adatto a conoscere e ad utilizzare il mondo, nonché a realizzare la grandezza del Creatore! Non ritenete che il padrone di casa gradirà se voi gli rendete omaggio, riverenza, obbedienza e onore? Cosa dire allora del Signore dell’Universo, dell’insondabile, smisurato firmamento e dell’imperscrutabile, immenso infinitesimo? Esaminate la vostra esperienza di questi sette giorni e vi convincerete che il rito eseguito è una cerimonia altamente benefica. Avete sacrificato le vostre comodità, siete rimasti seduti a terra e avete dormito sotto il sole e la pioggia, avete agognato la gioia che deriva dal compiacere gli Dèi e dall’onorarli. Avete sopportato tutto questo grazie all’armatura dell’amore che vi ha protetto e sostenuto in tali austerità. In ugual misura, tollerate la vincita e la perdita, il dolore e la gioia con equanimità. Prahlāda possedeva una fede così radicata che non emise neppure un lamento mentre gli venivano inflitte innumerevoli torture; era così immerso in Dio che non era consapevole di nient’altro che Dio stesso.
[3] Questo rito sacrificale è stato realizzato per la prosperità del mondo intero. Dovete contemplare il vostro benessere unitamente a quello del mondo; come potete essere felici se il vostro vicino è in condizioni miserabili? Pertanto v’invito a smettere di pregare per il vostro progresso personale: pregate per la pace, la prosperità e la felicità di tutta l’umanità, senza pensare al clima o al colore. Pregate intensamente e con fede; allora la grazia scenderà su di voi. Se il cuore è colmo d’amore, non potrà essere contaminato dall’egoismo e dalle sue malvagie conseguenze. Così come aspirate alla salute del corpo, dovete impegnarvi per la salute dell’umanità, che significa pace e gioia per tutti gli uomini di tutti i Paesi. Se manterrete quest’ampia prospettiva, comincerete a sentire meno i vostri problemi e a preoccuparvi di più di quelli altrui; questa è l’offerta iniziale di voi stessi nel grande sacrificio, detto ‘vita’.
[4] L’imperatore Aja della dinastia di Ikshvāku s’innamorò della bella Indumatī, un angelo del paradiso, ma dopo aver trascorso un breve periodo con lui, Indumatī lo lasciò per tornare nei cieli. L’imperatore, affranto, si lamentava del proprio fato con tanta angoscia che il precettore reale Vashishta dovette consolarlo facendogli rilevare l’assurdità dell’attaccamento e dell’attrattiva di gioie così fugaci. Gli parlò della realtà e dell’apparenza, dell’assoluto e del relativo, della materia e dello spirito, e lo riportò all’equilibrio mentale. Non siate come la carta assorbente, che assorbe qualsiasi passione ed emozione, le gioie ed i dolori che la grande attrice, la Natura, esibisce sul palcoscenico della vita. Siate come un fiore di loto che spiega i propri petali quando il sole si alza nel cielo, che rimane indifferente al fango nel quale è nato e perfino all’acqua che lo sostiene.
Prashānti Nilayam, Dasara, 07.10.1970