[1] I due oratori precedenti hanno parlato dettagliatamente della via della devozione con parole dolci ed ispiranti, citando le esperienze di Gārgī, Maitreyi, Janaka e Nachiketa; vi hanno inondato del nettare del pensiero delle Upanishad sulla bellezza della Forma Divina e sul delizioso fascino del Suo Nome. Ma tutto ciò è solo alla portata di pochi: persino gli studiosi vedici e le persone pie sconfessano con la loro condotta la validità di quanto essi stessi annunciano come vero! La fede in Dio è in declino più per effetto dell’ipocrisia dei pii che per il diniego degli empi, così oggi siamo a confrontarci con la crisi del fallimento della fede. Pertanto, i credenti come voi devono dimostrare con il proprio coraggio e con la propria convinzione che la fede in Dio può essere genuina e benefica. All’assemblea del Prashānti Vidvan Mahāsabhā è stato assegnato il compito d’irrigare le radici della fede e di risollevare gli spiriti scoraggiati con l’esempio e, in minor misura, con la parola.
[2] La Bhagavad Gītā descrive l’ingannevole illusione che la mente escogita per confondere l’uomo, ed afferma che la mente è praticamente invincibile. Il Pandit Somasekhara Shāstri ha confessato che, a dispetto della sua padronanza della complessa logica vedantica, ha trovato questo compito impossibile e vi ha quindi consigliato di ricorrere al sentiero della devozione e dedizione. Ha affermato che il metodo più efficace per controllare la mente ostinata e capricciosa è di legarla ai piedi di loto del Signore, dopodiché tutte le sue bizzarrie, paure, sregolatezze ed agitazioni si arresteranno. Ma qual è il metodo per riuscire a legare un tale elefante selvaggio ai piedi di Dio? I ponderosi tomi che contengono le Scritture di tutte le fedi proclamano la risposta in tre sole parole: CONOSCI TE STESSO. Oggi qualsiasi scolaro è informato sul sole, la luna, le stelle e le più lontane regioni dello spazio, ma neppure il più erudito tra gli studiosi conosce la risposta all’elementare domanda ‘Chi sono io?’ ‘Io’ è la parola d’impiego più frequente, che ricorre molte volte in una conversazione: io ho detto, io ho visto, io ho udito, io ho questo, io sono un re, io sono un contadino, io sono un bambino, io sono un dotto, io sono alto, io sono magro. Ma chi è questo ‘io’ dotato di così innumerevoli attributi e proprietà? Le Upanishad dichiarano che l’Io non è la persona individuale: questa è un’illusione. L’Io non è limitato al corpo in cui risiede: è la più universale delle categorie, è l’Eterno Assoluto, il Paramātma, il Sé Supremo; è la Consapevolezza onnipresente ed universale, è Sat-Cit-Ānanda. In che modo riconoscere tale verità come esperienza indelebile e autentica? Questa è la chiave per conseguire la liberazione, per ottenere l’eterna gioia, per vincere il dolore. Il problema è che l’uomo si è forgiato in un individuo fondamentalmente incapace a causa delle attività svolte durante numerose vite. Egli nasce con l’eredità di certe storture, tendenze e intoppi, e solo la fede e una pratica costante gli consentono di superare tali impedimenti; è gravato dall’illusione che il vero sia falso, che il temporaneo sia eterno: una lunga ed antica identificazione lo ha modellato così, perciò ora deve essere rieducato ad acquisire una visione corretta. La cosa più vera, che persiste immutata, è questo stesso ‘Io’. Tutto il resto è l’irreale che appare come reale. Voi vi chiedete: “Come può essere vero? Io cresco, sto bene, in seguito mi ammalo, infine invecchio.” Ma nel corso della crescita e del declino, l’«Io» permane. “Io ho dormito bene!” – dite quando vi svegliate da un sonno profondo, durante il quale non eravate consapevoli del corpo, dei sensi né della mente, per non parlare del mondo circostante.
[3] Ci sono tre desideri ai quali nessun ‘io’ può sfuggire. Il primo è ‘Io devo vivere’. La volontà di vivere è irresistibile e primaria, è la sete d’immortalità. Il desiderio di conoscere è il secondo, anche questa è una sete inestinguibile, un segno dell’onniscienza di cui l’«Io» è erede. Il terzo è il desiderio di gioire che spinge l’uomo a inseguire i sensi nel mondo esterno per coglierne i piaceri. Questo dimostra che nel profondo dell’«Io» c’è una fonte di beatitudine che ricerca sé stessa e il proprio compimento. Se parliamo di un metro di stoffa, di un litro di latte, del centimetro o della iarda, la cosa prioritaria è stabilire l’unità di misura; il peso o la lunghezza vengono poi interpretati secondo i valori così predeterminati. Allo stesso modo, l’«Io» è Sat-Cit-Ānanda e gli individui vengono ‘misurati e pesati’ secondo la loro prossimità ai valori dell’Io universale. Il Dharma (Rettitudine) è la misura di Jñāna (Saggezza). L’illuminazione intellettuale e la coscienza cosmica non devono portare solo all’elevazione e all’esultanza, ma anche ad un risveglio del senso morale. Il Saggio, dopo avere ottenuto l’illuminazione, possiede un carattere altamente morale. Nel sottomettere gli impulsi e le tendenze alla propria volontà purificata, e subordinando la sua volontà all’ideale di bontà che è Dio, egli diventa l’incarnazione del Dharma. Questa realtà ha dato a Bhārat, l’India, la capacità di guidare le altre nazioni sulla via della moralità, perché qui la vita è trascorsa seguendo la triplice corrente di BHĀ-va (emozioni e sentimenti puri), RĀ-ga (dolce melodia) e TĀ-la (ritmo equilibrato); quindi il nome Bhārat ha un significato profondo. È un’autentica fortuna essere nati in questa terra ed essere gli eredi di un così grande patrimonio; vivere all’altezza delle sue tradizioni e svilupparle al meglio delle proprie capacità è davvero un’immensa fortuna! Vyāsa e Vālmīki hanno entrambi dipinto i valori eterni del Dharma sulle tele d’oro della loro poesia. Vyāsa ha rappresentato l’immagine dei fratelli Pāndava perseguitati, torturati, esiliati, ridotti in miseria, umiliati, e tuttavia indomiti perché si erano affidati al Dharma; alla fine essi riuscirono a trionfare per la grazia di Dio che fu la loro ricompensa. Vālmīki ritrasse Rāma mentre sopportava con perfetta equanimità le fasi alterne della sorte, reggendo la torcia del Dharma con la sua fiamma inestinguibile anche nella tempesta più violenta.
Dharmo rakshati rakshitah
Il Dharma protegge colui che lo difende e lo sostiene
‘Sii giusto: la Rettitudine ti salverà’ – questo è il motivo conduttore del Mahābhārata di Vyāsa e del Rāmāyana di Vālmīki. Mettetelo in pratica sinceramente, esso vi salverà, vi sosterrà e vi darà forza.
[4] Nella Bhagavad Gītā, Krishna sollecita Arjuna: ‘Dedica l’offerta a Me’, ‘Arrenditi a Me’, ‘Lascia a Me ogni cosa’; questo ‘Me’ non è altro che l’«Io», ovvero il Dio presente in ogni uomo, quell’«Io» che induce tutti ad affermare: “Io farò questo, io posseggo quello”, lo stesso «Io» che induce l’ameba come pure l’Avatār ad agire. L’Io stimola la tigre a sentire ‘Ho fame, devo cercare una preda’, fa volare in alto l’aquila perché possa individuare in basso la sua vittima, spinge l’albero di banyan ad allargarsi per ricevere più luce solare sulle foglie, induce il gelsomino ad arrampicarsi sull’albero invece di strisciare a terra dove gli sarebbe negata la carezza del vento ed il calore del sole. Quell’«Io» non potrà mai indebolirsi, ammalarsi o declinare; esso è Sat-Cit-Ānanda, è eterno, è ovunque. Qualcuno disperato, dilaniato dall’angoscia, confessa: “Mi ucciderò, metterò fine a questa sofferenza e finalmente sarò felice dopo tutto quello che ho passato!” Egli è sicuro che il suo ‘Io’ sopravviverà alla morte, sa di essere qualcosa che trascende il tempo, lo spazio e la causalità. Quell’«Io» batte in ogni cuore, esulta in ogni corpo e conosce attraverso ogni mente; è una scintilla dell’«Io» universale che è Dio.
[5] Gli studiosi vedici hanno detto che Bhakti, la via della devozione, è facile da seguire e può essere praticata da tutti. In realtà, non è così semplice come affermano! La resa del piccolo ‘io’ al grande ‘Io’ è un processo difficile, perché dovrete superare una serie di difficoltà con impegno e gioia. Se non vedete l’ora di arrivare a Puttaparti, sopporterete serenamente tutti gli ostacoli; se invece non avete questo desiderio, ingigantirete ogni difficoltà: scendere dal treno alla deviazione di Guntakal, attraversare le banchine, salire su un altro treno in direzione Dharmāvaram per raggiungere la stazione dei pullman con tutti i bagagli, e infine prendere l’autobus per Puttaparti. Potreste addirittura rinunciare all’idea temendo che sia oltre la vostra portata! Quindi, come prima cosa, coltivate l’anelito, sviluppatelo e poi tutto sarà più facile! Imparate dall’esperienza dei più anziani che hanno assaporato la beatitudine di conoscere quell’«Io» quale onda dell’illimitato Oceano di Grazia. Oppure, poiché nessuno vi conosce meglio di voi stessi o del Dio che è in voi, cercate quell’«Io» da soli, senza altri aiuti. Se domandate a qualcuno: “Chi sono io?” – egli vi potrà rispondere solo se, oltre che conoscere voi, conosce bene sé stesso. È facile spiegare ed esporre che ‘Tutto è Io’ (Sarvam Brahma mayam), ma è veramente difficile realizzarlo. Voi sapete che morirete come tutti, quindi trovate difficile credere che l’Io non muoia. Il vaso può morire, ma l’argilla rimane; la scatoletta d’argento può morire, ma l’argento rimane. Il corpo può morire, ma l’Io non muore. Il Jīvi, l’anima individuale, sopravvive e gli elementi che hanno composto il corpo tornano al loro stadio originale di puri elementi.
Il Signore dichiara di essere il seme di tutti gli esseri:
Bījam mām sarva bhūtānām
In tutti gli esseri viventi Io sono il seme
(B.G. 7.10)
Osservate un albero, le sue radici, il tronco, i rami, i ramoscelli, le gemme, le foglie, i fiori, i frutti: sono tutti diversi per quanto riguarda la forma, il sapore, la consistenza o l’odore; e hanno diverse utilità sia per l’albero sia per noi, ma tutta questa multiforme varietà è prodotta, sostenuta, racchiusa in un singolo seme, ed ogni frutto contiene lo stesso seme! Egli è il Seme, è l’Albero, è il Frutto. Amore è il Seme, Amore è l’Albero, Amore è il Frutto.
[6] L’Albero della Creazione è sospeso all’ingiù con le radici nel cielo, altrimenti seccherebbe per mancanza di nutrimento; il suo nome è Ashvattha, albero del cavallo, poiché il cavallo è, secondo la tradizione indù, il simbolo dell’irrequietezza e del turbamento vacillante. L’Ashvattha, detto anche pipal, trema in ogni sua foglia al minimo soffio di vento. Avrete anche sentito parlare dell’Ashvamedha, il sacrificio del cavallo, un grande rito che si celebrava in passato, il cui significato è la dissoluzione della mente ostinata e bizzosa come il cavallo. Arjuna chiese a Krishna come fosse possibile controllare le irrequietezze della mente, e Krishna prescrisse la pratica costante. Voi imparate a parlare e camminare, a mangiare e scrivere, tra prove ed errori, grazie alla pratica costante. La madre nutre il bimbo ricorrendo a tante filastrocche e distrazioni, ma poi, con la forza dell’abitudine che deriva dall’esercizio quotidiano, il piccolo comincia a mangiare da solo portando il cibo alla bocca anche al buio. Portate la mente su Dio e tenetevela per qualche tempo ogni giorno, mattina e sera. Dio è così misericordioso che farà dieci passi verso di voi se solo ne fate uno verso di Lui.
[7] Vibhīshana, il fratello di Rāvana, chiese ad Hanuman se Rāma avrebbe accettato il suo omaggio e se l’avrebbe preso sotto la Sua protezione. Vibhīshana aggiunse: “Sono il fratello del Suo peggiore nemico che Rāma ha giurato di distruggere; sono di razza demoniaca, sono all’oscuro dei Veda, delle Scritture e dei rituali indù.” Allora Hanuman replicò: “Oh stolto! Pensi che Egli badi alla correttezza rituale, allo stato familiare o all’erudizione? Se così fosse, come avrebbe potuto accettare me, una scimmia?” Tale argomentazione risolse definitivamente la questione; Vibhīshana fu così rassicurato che avrebbe ottenuto la Sua grazia. Quando poi Vibhīshana si recò da Lui, Rāma domandò ai più anziani tra le scimmie se potesse accettare Vibhīshana al Suo seguito. Naturalmente non aveva bisogno di nessun consiglio perché non si faceva influenzare dagli altri, ma li consultò al solo scopo di coinvolgerli con la scusa di non avere ancora le idee chiare al riguardo. Quando Sugrīva non si dichiarò d’accordo, Rāma gli ricordò che anch’egli si era rivolto a Lui abbandonando il fratello maggiore Vāli. Quando Lakshmana disse che Vibhīshana meritava solo di essere respinto e ricacciato nella città di Lankā, Rāma rispose: “Ho deciso d’incoronarlo imperatore di Lankā dopo la caduta di Rāvana!” Chiunque si arrenda a Lui, Rāma lo accetterà immediatamente senza riserve. Quando qualcuno suggerì che a Vibhīshana non si poteva promettere il trono poiché Rāvana avrebbe potuto ancora gettarsi ai piedi del Signore ed ottenere il perdono per le sue iniquità, Rāma replicò: “In quel caso prenderò le mani di Bhārata e lo pregherò di nominare Vibhīshana imperatore di Ayodhyā, il nostro regno atavico, mentre Bhārata ed Io trascorreremo felicemente il nostro tempo nella foresta!” Dovete scoprire la vostra identità: solo allora potrete avere pace. Voi siete come un uomo che abbia dimenticato il suo nome e indirizzo, nonché la propria missione nella vita. Realizzate questo fatto e cercate d’indagare in voi stessi per capire chi siete: allora avrete sicurezza e pace. Affinate l’intelletto, purificate la vostra coscienza mediante la compagnia dei virtuosi, la recitazione dei mantra, la meditazione e la ripetizione del Nome divino. Questo è il Mio consiglio!
Prashānti Nilayam, Dasara, 05.10.1970