[1] I giorni festivi come questi sono messi in evidenza nel calendario per risvegliare la mente dell’uomo, che è incline ad assopirsi pigramente o a compiacersi di qualche breve sforzo spirituale; sono come campanelli d’allarme che suonano ad intervalli durante l’anno, per avvisare l’uomo del viaggio che l’attende e della meta da conseguire oltre l’orizzonte.
Tasmād jāgrata jāgrata!
Svegliatevi, destatevi!
Così esortano i saggi! Sorgete dunque, ridestatevi e non fermatevi finché non avrete raggiunto l’obiettivo! L’uomo non deve bramare i doni che offre il mondo, ma agognare il dono della grazia. Quel desiderio spingerà Krishna a manifestarsi per lenire il tormento. La cultura dell’India ha messo in rilievo il significato profondo delle Scritture ed il grande valore dei riti e delle cerimonie. Pur compiacendosi del simbolismo, ha sempre incoraggiato i ricercatori a lacerare quel velo e a riconoscere il principio racchiuso nel simbolo. Quest’antica cultura ha sempre suggerito a chi recita i sacri Veda di farlo in piena consapevolezza del significato simbolico che hanno gli inni di lode e di preghiera. Oggi celebriamo l’avvento di Krishna. L’Avatār che assunse la forma di Krishna custodisce in Sé immensi misteri. Brindavan (la foresta di Brinda) è la fitta giungla dell’esistenza. Le mucche accudite dal Signore a Brindavan sono gli esseri umani stessi, impotenti e indifesi senza la Sua attenzione e la Sua guida. Gokula (mandria di mucche) è il nome dato nel Bhāgavata al luogo in cui Krishna accudiva il bestiame. ‘Go’ significa anche il Sé individualizzato che è racchiuso nel corpo, perciò il Gokula è la regione in cui l’uomo vive. Voi sapete che in Telugu la parola Gītā significa ‘lampo’; nelle Upanishad, Dio è descritto come ‘un lampo che balena attraverso una spessa nube blu’. I Veda asseriscono che la carnagione di Krishna è ‘nīla toyada’, mentre la descrizione nel Bhāghavata è ‘nīla megha’. Il significato di entrambe le esposizioni è che Egli è profondo come il cielo o il mare e quindi il Suo colore è quello del mare o del cielo!
[2] Il lampo menzionato nei Veda è la Gītā stessa, la vera canzone di Krishna. Le Gopi, le semplici e sincere pastorelle del Gokula, cercavano Krishna in ogni cespuglio e boschetto poiché Egli le incantava ma si teneva sempre lontano! Questo è solo un altro modo per descrivere la ricerca di Dio che sappiamo essere in noi ma che elude i nostri sforzi d’immergerci nella Sua dolcezza. Krishna si nasconde nei recessi dei vostri cuori; dovete trovarlo lì e aggrapparvi tenacemente a Lui. Egli scappa via ma, nella fretta di sfuggirvi, lascia le impronte del latte versato su cui ha camminato. Ebbene sì, la lezione è questa: riconoscete le Sue impronte in ogni cosa bella, in ogni atto di bontà, in ogni lacrima di gratitudine, in ogni sospiro di compassione e scopritelo nel vostro stesso cuore, pieno di fragranza d’amore e di luce di virtù. Quando vi mostrano la luna vi dicono: “Guarda la cima del ramo di quell’albero!” come se la luna fosse proprio lì sulla punta di quel ramo! C’è un lungo viaggio per raggiungere la luna, ma voi potete vederla da lontano come un disco rotondo che emette una luce fresca e piacevole. Analogamente, il Bhāgavata e le altre epiche vi mostrano il Signore e vi aiutano a scorgerlo quanto basta per far nascere in voi il vivo desiderio di giungere più vicini a Lui, ecco tutto! Ogni testo vi conduce da uno stadio all’altro, rivelandovi sempre di più la misericordia di Dio, finché sarete colmi di un incontenibile desiderio per Lui. Quell’anelito così intenso è la ricompensa di sé stesso, poiché trasformerà la volontà di Dio nella Forma che desiderate vedere. Si dice che su un sasso che rotola non si forma il muschio, mentre una pietra che sta ferma ne viene ricoperta. Una mente che ‘rotola’ da una Scrittura all’altra concentrandosi sui testi in cui è descritto l’incantevole fascino della Divinità, non verrà incrostata dal muschio dei desideri materiali.
[3] Dio non è coinvolto dal desiderio, non ha alcun bisogno, è completo, libero e sempre felice. Non nutre simpatie né antipatie e non ha legami con parenti e amici. Un poeta ha cantato così: “Krishna! Gopāla! Non conto sulla Tua gentilezza verso di me, né mi aspetto che Tu ti commuova ai miei appelli di misericordia. Non so forse che hai ucciso con le Tue stesse mani lo zio materno [il perfido Kamsa]? Hai ucciso la nutrice che era venuta affettuosamente ad allattarti al suo seno [la demone Putana che intendeva avvelenarlo]! Senza la benché minima compassione, hai torturato ed ucciso il padre [il demone Hiranyakashipu] del tuo amato devoto Prahlāda, sotto i suoi occhi! Sei andato da Bāli come se volessi chiedergli un’offerta e, quando egli con gioia ha deposto ai Tuoi piedi tutto ciò che possedeva, gli hai calpestato la testa e l’hai spinto giù negli inferi! Come può sciogliersi, di fronte alla mia sofferenza, un cuore che non ha tenerezza?” Ebbene, il Signore non ha attaccamenti, non ha amici né nemici. Siete voi a decidere la distanza fra Lui e voi. Moksha, la liberazione, è lo stadio in cui moha, l’illusione seduttrice e l’attaccamento, subisce Kshaya, l’estinzione. Come può Colui che dona Moksha essere vittima dell’attaccamento? Dio non ha desideri né bisogni, non accorda né rifiuta: è l’Eterno Testimone. Egli è come un postino al quale non interessa il contenuto delle lettere che consegna ai destinatari; una lettera può comunicare il successo ed un’altra il fallimento. Voi ricevete quello per cui vi siete impegnati. Comportatevi bene e riceverete il bene, fate il male e di ritorno dovrete accettare il male. Questa è la legge, non c’è nulla da fare per mutarne il corso.
[4] Il famoso demone Rāvana è un mahātma, grande anima; Tatakī, descritta come un’orchessa, è anch’essa una grande anima! Entrambi godevano di capacità sovrumane e poteri misteriosi. Tutti gli esseri sono divini e Dio è la forza motrice in ognuno. Anche Rāvana e Tatakī sono divini, ma essi sono mahātma rajasici, ovvero grandi anime schiave delle loro passioni ed emozioni, svelti ad odiare e lenti a dimenticare le offese ricevute. Rāma e Lakshmana, invece, sono Mahātma sattvici, Incarnazioni della prodezza e del potere che solo la virtù e la rettitudine possono conferire. Un martello di ferro incandescente può essere forgiato e battuto solo da uno freddo. Analogamente, un individuo infuocato da passioni ed emozioni può essere forgiato da un ‘martello’ immune alle fiamme dell’ira e dell’odio. Questa è la ragione per cui Rāma poté sconfiggere e distruggere Rāvana. Per quale motivo? Il termine ‘sattva’ indica forza, potere, vigore, vitalità; infatti la virtù è potere, la bontà è potere. Una persona si adira perché è debole, il prepotente è un codardo, chi mente è certo di meritare una punizione, ma è troppo vile per accettarla di buon grado! Un bimbo nasce innocente nel Dharmakshetra, o regno del Dharma, ed è quindi colmo di attributi sattvici, ma con il passare degli anni accumula il ‘muschio’ delle qualità rajasiche e tamasiche finché approda nell’area tormentata dai conflitti del Kurukshetra, ed è la storia del Mahābhārata che si ripete nella vita di ogni uomo. Il Kurukshetra è un campo di battaglia fra i ‘nostri’ [così li definiva il re dei Kaurava] ed i Pāndava, le persone rette. Il primo versetto della Gītā annuncia questo, ma cosa significa esattamente? Da una parte ci sono gli impulsi rajasici e tamasici, alimentati dal senso di ‘mio’ e ‘nostro’; dall’altra parte ci sono gli attributi sattvici, cristallini e retti, dell’amore, della tolleranza, della verità e della rettitudine, che sono divini e protetti da Dio. La lotta fra queste due forze, quelle che trascinano verso il basso e quelle che elevano, non conosce armistizio. Come il bagno quotidiano mantiene pulito il corpo, così la battaglia giornaliera tiene gli avversari malvagi a distanza impedendo loro di colpire.
[5] Si dice che durante la battaglia del Kurukshetra, che durò 18 giorni, il saggio Vyāsa avesse la mente tormentata dal rimorso poiché i due eserciti nemici appartenevano entrambi alla sua discendenza; perciò non riusciva neanche a rivolgere uno sguardo a quella strage fratricida! Un mattino, rammaricato ed afflitto, s’affrettò ad andare oltre il campo di battaglia intriso di sangue, sul quale stava albeggiando un altro giorno di sterminio. Camminando celermente, sul terreno notò un ragno che fuggiva precipitosamente. “Perché corri così veloce?” gli domandò il saggio. Il ragno attraversò rapidamente la strada, s’arrampicò su un formicaio e da quell’altezza rispose: “Non sai forse che il carro da guerra di Arjuna passerà di qui! Se mi prende sotto le ruote, sono morto!” Vyāsa si mise a ridere e disse: “Nessun occhio verserà una sola lacrima se tu morirai! Il mondo non avvertirà la minima perdita se verrai ucciso! Se sparisci, non lascerai nessun vuoto!” L’insulto del saggio lo punse sul vivo. Fremente di rabbia, il ragno esclamò: “Come può essere vero? Sei un saggio tronfio d’orgoglio! Tu credi che la tua morte sarebbe una grande perdita mentre, se morissi io, nessuno sentirebbe la mia mancanza. Anch’io ho una moglie e dei figli che amo. Ho una casa ed una riserva di cibo, e sono attaccato alla vita con la stessa tenacia con cui siete aggrappati voi. Sono anch’io soggetto alla fame, alla sete, alla sofferenza, al dolore, alla gioia, alla soddisfazione e all’agonia della separazione dai miei parenti e amici. Il mondo è in me e per me, quanto lo è per gli esseri umani e le altre specie.” Vyāsa chinò la testa e s’incamminò in silenzio mormorando: ”Per gli uomini e le bestie, queste cose sono comuni” ma poi aggiunse fra sé: “Interrogarsi sul Fine Ultimo, anelare la bellezza, la verità, la bontà, avere la consapevolezza dell’unità fondamentale, ebbene queste qualità di saggezza sono beni preziosi propri dell’umanità!” e riprese il suo cammino.
[6] Grazie a tale saggezza, l’uomo può vedere Dio nel ragno come pure in tutti gli esseri che esistono entro i confini dello spazio. Il contenitore può essere diverso, ma il contenuto divino è il medesimo. Il gusto dell’acqua di mare sarà sempre salino sia che ne esaminiate una gran quantità, una coppa, un vaso, sia che ne mettiate una sola goccia sulla lingua! Il sapore della Divinità può essere sperimentato nell’atomo come nel cosmo, nell’amico come nel nemico, nel virus come nell’universo intero. Questa è la Realizzazione, la Liberazione, l’Illuminazione, la Rivelazione!
Sarvam Vishnumayam jagat
L’universo è colmo di Dio
Questa sfera del divenire è animata dalla Divinità onnipresente. Il saggio Tyāgarāja cantava: “Oh Sītārāma [Rāma]! Grazie alla Tua infinita compassione, rifulgi nella formica come nella Trinità!” Krishna è sia nel pergolato sia sul campo di battaglia, suona il flauto che incanta o suona la conchiglia da guerra, brandisce la frusta [con cui governa i cavalli del carro da guerra] ed il disco [l’arma di Vishnu] ed è l’invisibile forza dietro ogni pensiero, parola e azione dell’uomo, ovunque e sempre.
Prashānti Nilayam, 03.09.1969